Mese: settembre 2010

“Nuovo” Cinema Ariana

L’Ariana è un mito, un pezzo della Kabul degli anni d’oro, gli anni ’60, che è riuscito a resistere ale intemperie (umane) degli ultimi decenni. Un tempo proiettava film americani, oggi il cinema Ariana è tappezzato di manifesti di film di Bollywood, quelli prodotti a raffica in India, e di un po’ di pellicole afghane. Mi ero sempre ripromesso di andare a cinema a Kabul, ieri ci sono riuscito. All’Ariana c’era la prima mondiale di “Black Tulip”, un film che domenica sbarca a New York e che farà parlare di sè. L’ha diretto e interpretato un anglo-afghana, Sonia Nassery Cole (vedi l’intervista sul New York Times) che ha fondato e gestisce una ong per le donne afghane. Il film racconta la storia di una famiglia che dopo il 2001 si illude (non da sola, per la verità) che i talebani siano ormai roba del passato e apre un caffè letterario, per poi ritrovarsi subissata da minacce, intimidazioni e attentati. La particolarità di “black tulip” è quella di essere stato interamente girato in Afghanistan (diversamente, per esempio, dal “cacciatore di aquiloni”), non cosa da poco viste le difficoltà della situazione. (vedi scheda IMDB) L’altra (piccola) particolarità è che tra i militari stranieri amici della famiglia, c’è anche un italiano, un parà della Folgore, il colonnello Tanelli, forse del nono reggimento se non ho visto male il fregio sul basco. Lo interpreta l’italiano Edoardo Costa (rigorosamente senza giubotto anti-proiettile al contrario del suo amico americano). Il film è girato bene, viste le condizioni, ma la storia ha molte incongruenze (vedi la recensione del New York Times), ne cito solo una: militari stranieri in giro a piedi per la città, per bar e ristoranti! Fantascienza!

La Cole mi ha dato l’impressione di essere interessata più ad inserirsi nel dibattito politico americano che a raccontare l’afghanistan. Del resto la Cole la ricordiamo per la sua lettera a Regan proprio sull’Afghanistan. Tra l’altro resta avvolto nel mistero e senza conferme, l’affermazione della regista (comparsa alla premierè per non più di dieci minuti) secondo cui i talebani avrebbero tagliato i piedi all’attrice protagonista prima dell’inizio delle riprese tanto che la Cole è stata costretta a prendere il suo posto. Il film verrà candidato alla selezione per l’Oscar nella categoria titoli stranieri, il primo nella storia dell’Afghanistan.

Il pomeriggio al cinema è stato un’esperienza surreale, straordinaria. La folla accalcata fuori, le telecamere delle tv locali (e non) come se fosse un piccolo festival di Venezia, gli applausi a scena aperta del pubblico in sala, le risate (devo dire nei punti più improbabili del film), telefonini che squillavano, qualcuno (agenti di polizia) che fumava, la porta che si apriva in continuazione e poi l’uscita dalla sala di un pubblico della Kabul “bene”, la sfilata attori e attrici locali. Un tuffo indietro ai tempi d’oro dell’Afghanistan! Anche perchè mancavano tutti i gadget della Kabul di oggi: perquisizioni all’ingresso, guardie armate fino ai denti, metal-detector, barriere antiesplosione. Si entrava e si usciva come se nulla fosse. In realtà la polizia afghana all’inizio ha perquisito un po’ di persone, poi pero’ è cominciato il film e soprattutto i graduati sono entrati in sala a guardare il film per cui…addio controlli! Per fortuna, nessuno di quelli di cui si parlava male nel film si è unito a noi, in sala.

L’anno peggiore

Lo schianto è avvenuto nella provincia di Zabul, nel sud talebano, nove i morti: tutti americani (lo anticipa la Fox). Si portano dietro un triste primato, secondo conteggi indipendenti (iCasualties e Kabul Pressistan) con queste vittime, il numero dei caduti occidentali nel paese arriva almeno a quota 529. Anche se mancano tre mesi alla fine dell’anno, il 2010 è già il peggiore dalla caduta dei talebani. Segno di quanto infuri la battaglia in Afghanistan e di quanto sia difficile.

Altri numeri oggi arrivano dalla commissione elettorale che fissa al 47% l’affluenza alle urne, contando 4,3 milioni di elettori effettivamente presentatisi ai seggi. La base è al solito ballerina e si arrivà così a questa percentuale così alta che in realtà è riferita al più basso numero di elettori delle 4 consultazioni svolte sin’ora. La Fefa, organismo indipendente afghano che ha monitorato le elezioni (pochissimi gli osservatori internazionali) annuncia un vasto quadro di irregolarità (qui per una sintesi) anche se preferisce non pronunciarsi ancora sulla questione chiave: ovvero la portata dei brogli. In Afghanistan non potrebbero non esserci brogli, fisiologici per mille motivi (dall’assenza di sicurezza alla fragilità dell’apparato statale), il punto è capire se qualcosa è migliorato o no rispetto al quadro dei brogli sistematici e “di Stato” delle presidenziali del 2009. Sembrerà un dato per “intenditori” e appassionati della materia, ma da questo dato dipende la posizione degli alleati. Sarebbe sempre più difficile per l’occidente continuare a sostenere un governo tanto privo di credibilità.

Un promemoria sull’informazione “estera”

Copio e incollo un lancio Ansa, la speranza è che tutti gli organi d’informazione italiana si dedichino di più agli esteri, un argomento in declino che vede purtroppo i suoi spazi erosi da temi non sempre all’altezza contribuendo così alla “provincializzazione” della nostra opinione pubblica. Ma Roberto spiega tutto molto bene a lui la parola…

TV: NATALE (FNSI), PIU’ MONDO E MENO GOSSIP NEI TG APPELLO AD AGCOM E A COMMISSIONE VIGILANZA

(ANSA) – ROMA, 21 SET – Parlare di piu’ della crisi in Pakistan e meno del mezzo busto che in Slovenia conduce i tg in mutande. Cosi’ il presidente della Fnsi, Roberto Natale, sul report presentato oggi dall’Osservatorio tg di Articolo 21, che ha messo in evidenza come i titoli dei 7 principali tg italiani diano poca rilevanza alla cronaca internazionale.

”Questo report – ha auspicato Natale – deve arrivare all’Agcom e alla Commissione Vigilanza Rai, che non devono solo parlare dello spazio da dare in tv a una parte politica o all’altra ma anche di quanto spazio dare ai temi di cronaca internazionale. Se questo e’ il nostro rapporto col mondo non puo’ andare bene”. Su 414 titoli andati in onda dal 6 al 17 settembre 2010 nelle edizioni di prima serata, solo 84, il 22,8%, afferma Articolo 21, erano dedicati a fatti internazionali. Il 53,1% di questi riguardava il Nord del mondo, il 46,9% il mondo dei problemi. In generale, nel 13,95% dei casi l’argomento era gossip. Il 65% dei

titoli relativi al ”mondo dei problemi” era incentrato sulle preoccupazioni per le reazioni islamiche alla provocazione dei falo’ del Corano e per le vittime italiane in Afghanistan.

”Vorrei inviare una lettera al direttore generale della Rai – ha aggiunto Giuseppe Giulietti di Articolo 21 – con i dati di questo studio e di un altro relativo all’interesse dei tg sulle morti sul lavoro, chiedendo che vengano premiati i giornalisti che danno notizie e fanno inchieste e sanzionati quelli che le cancellano. E non viceversa”.(ANSA).

Kabul, Irlanda

C’è un bizzarro ombrellone di ferro, colorato di blù, ad ogni incrocio di Kabul. Lo chiamano “Ring of Steele” come c’è scritto anche sui tabelloni che accompagnano ognuno di questi posti di blocco, individuato da un numero. E’ un sistema di sicurezza, gestito dalla polizia afghana, che crea una sorta di rete…se un sospetto passa al check point 20 e non viene fermato, via radio, la segnalazione arriva al 21, al 22 e così via. L’idea – mi spiegava il capo di una squadra di guardie private, qualche giorno fa – è stata importata dai britannici che l’hanno utilizzata negli anni più buii del conflitto in ‘Irlanda del Nord. Non so quanto dipenda da questo nuovo sistema (il dubbio mi viene perchè in molti posti di blocco continuo a vedere il classico bivacco sonnacchio dell’ANP, la polizia locale) e quanto dagli effetti dello schieramento di truppe occidentali intorno alla città, cominciato con la surge di Bush quasi due anni fa. Eppure l’unica buona notizia della giornata del voto è che a Kabul non è successo nulla, tranne che per i razzi lanciati la notte precedente che sono però un tipo di attacco difficilmente fermabile come tutto quello che cade dal cielo.

In un momento in cui scoppiavano incidenti in praticamente tutto il Paese, un record senza precedenti, la capitale è rimasta tranquilla tanto da offrire scene impensabili di donne che si accalcavano con allegria sei seggi e pulmini di candidati che portavano tranquillamente gli elettori ai seggi. Non poco se si considera che fino a qualche mese fa (vedi la peace jiirga di fine primavera) Kabul è stata bersaglio di attacchi clamorosi e spavaldi della guerriglia quanto devastanti, pensiamo per esempio all’attacco al quartier generale della Nato pochi giorni prima delle presidenziali di un anno fa.

C’è da esserne felici
ma l’immagine che continua a tornarmi in mente è quella della Kabul di Najibullah e dei sovietici in genere, una città dove la modernità avanzava (come avanza oggi, con tutte le contraddizioni del caso ora come allora) dove si viveva una vita da capitale se consideriamo il paragone con il medioevo rurale che inizia già a pochi chilometri dalla sua periferia, eppure quella era una città sotto assedio. Un assedio certo virtuale perchè il nemico non era alle porte e non ci sarebbe riuscito ad arrivare che in anni, ma il grosso del Paese era fuori controllo.  Non siamo ancora a quel livello, ma guardando la mappa degli incidenti della giornata del voto, per la prima volta forse, quasi uniformemente diffusi in tutto il territorio, beh il ring of steele mi consola molto poco.

Lo stallo

Karzai al voto - copyright np 2010
Karzai al voto - copyright np 2010

La guerra dei numeri è già cominciata e durerà a lungo. Almeno l’anno scorso per le presidenziali, Karzai emise un bando governativo sulla diffusione delle notizie di attacchi durante il giorno delle elezioni.

Quest’anno invece, nel dopo-elezioni parlamentari, stiamo assistendo al balletto dell’interpretazione delle cifre, forse volto a guadagnare un po’ di tempo per capire davvero com’è andato questo voto. Ho letto una nota Isaf questa mattina che notava come il numero degli attacchi nella giornata elettorale è stato sì maggiore del 2009 ma con meno vittime. In realtà anche il numero delle vittime è in dubbio (21 secondo il ministero degli interni, 7 secondo Isaf senza contare anche i militari stranieri), esattamente come quello dell’affluenza (stimata ottimisticamente al 40%) la cui base di calcolo non appare chiara (17 milioni di tessere elettorali diffuse dal 2005? 12,5 milioni di elettori registrati?).

Quello che conta di queste elezioni non sono i risultati (i candidati si presentano individualmente, non in una lista di partito e il parlamento tutto sommato non conta che pochissimo nel sistema iper-presidenziale afghano) ma la portata dei brogli che ci sono stati di sicuro (episodi fisiologici, perchè siamo pur sempre in Afghanistan? Oppure frodi massicce, sistematiche e organizzate come un anno fa?) e appunto la partecipazione al voto che è direttamente collegata a violenze e disillusione degli afghani. Insomma queste elezioni contano in quanto prova d’appello per la credibilità della democrazia afghana, dopo la truffa delle presidenziali. Credibilità nei confronti degli afghani e soprattutto degli alleati stranieri (o meglio delle relative pubbliche opinioni). E’ ancora presto per esprimersi su questi punti ma i primi indizi sono più che negativi, di certo è apprezzabile la cautela dell’inviato dell’Onu, De Mistura, il quale afferma che è troppo presto per definire queste elezioni un successo. Domani la Fefa, la fondazione che autonomamente monitora le elezioni, in una conferenza stampa potrebbe emettere un giudizio drasticamente negativo, aspettiamo. In quanto alle violenze, il punto di tutta questa vicenda non è il numero di incidenti secondo me, ma il fatto che questa volta non si siano concentrati solo nel sud e nell’est ma si siano verificati in tutto il Paese. Notevole invece che a Kabul sia tutto filato liscio come l’olio, segno che il nuovo sistema di check point (ring of steele, di memoria nord-irlandese) ha funzionato. L’affluenza (per ora stimata a 4 milioni) di certo è inferiore a quella delle presidenziali, quando votarono 6 milioni di elettori sulla carta da cui detrarre un milione e mezzo di false schede e relativi elettori.

Se è un miracolo
che le elezioni si siano svolte nell’Afghanistan di oggi, è altrettanto chiaro che la guerriglia si è fatta sentire e non poco. Ma se i talebani non riescono a boicottare in pieno le elezioni, il governo non riesce a difenderle fino in fondo. Un altro segno dello stallo che sta vivendo questo paese. Una guerra che nessuno può vincere, nè gli uni nè gli altri. Quale sia la via d’uscita da questo “stand off” è difficile persino immaginarlo anche se Karzai domani presenta il suo “consiglio” per la pace…

Un anno dopo

Era il 17 settembre del 2009, un anno fa, quando qui a Kabul un autobomba faceva saltare in aria un convoglio di militari italiani lungo la strada dell’aeroporto, vicino alla Maydan Massoud. Sei le vittime, tutti parà della Folgore. Oggi un anno dopo, in una data che i superstiziosi definirebbero facilmente maledetta, muore un altro parà della brigata, il tenente Alessandro Romani, in un’operazione (un “air assault”) della TaskForce45 nella provincia di Farah. In questo post vorrei parlare dei caduti della missione italiana (quello di oggi è il 30simo), discutere del ruolo della TaskForce45, del numero sempre più alto di caduti tra le truppe internazionali e di vittime civili. In realtà, e non solo per la stanchezza del lavoro su queste imminenti elezioni afghane, capisco che questa è una data difficile per me, tanto che ci ho messo un po’ (e un errore) per realizzare che oggi è proprio il 17 settembre. Sarà che a Kabul è una giornata come le altre, una città così abituata al dolore che non pensa mai a quello che è stato ma solo al dolore che verrà

Afghanistan, ultima corsa

Domani si vota, i media di tutto il mondo sono in giro per l’Afghanistan o meglio in buona parte a Kabul e nel resto del paese al seguito dei militari occidentali, per lo più americani. L’atmosfera afghana è sempre più da “ultimo giro, ultima corsa”. Sarà il grigio che ci è calato addosso oggi dalle vette dell’Hindo Kush, sarà il fatto che le elezioni sono un momento catalizzatore. E’ l’ultima occasione per il governo Karzai di dimostrare che può rispettare la fiducia dei suoi cittadini, di chi magari rischia la vita per imbucare una scheda e non vuole vedersi scippare il voto da un broglio di terz’ordine come accaduto l’anno scorso alle presidenziali. Petraeus, fa sapere oggi il New York Times, vede segnali di miglioramento e sta rafforzando il suo rapporto col Presidente Obama. Ieri sera ho incontrato il capo della missione Onu in Afghanistan, l’italo-svedese Staffan De Mistura, che sembra aver ripreso in mano le redini di una presenza delle Nazioni Unite un po’ appannata. Mi è sembrato ottimista e fiducioso anche su alcuni punti critici, come per esempio la commissione per i reclami elettorali ridotta da Karzai a “cosa sua”. Dà l’impressione di aver riallacciato un canale di rapporti con gli afghani che è l’unico modo per ottenere delle garanzie in un Paese dove niente è mai come sembra anche quando lo metti nero su bianco.  Ho incontrato anche molti candidati che sembrano aver scoperto, grazie alla stampa digitale, la forza dei manifesti col “faccione”, che ormai tappezzano Kabul.

Vedo entusiasmo ma anche i soliti noti che non vogliono mollare e qualcuno magari manovrato da chi (Karzai, in primis, ed Abdullah dall’esterno) dovrà fare i conti con la nuova maggioranza parlamentare. Molti si sono buttati, fiutando il business della politica e finiranno con l’alimentare il fiume di migliaia di reclami post-elettorali. De Mistura ha abbassato la barra delle aspettative, si accontenta di una giornata del voto con un affluenza intorno ai 4 milioni, con pochi brogli (o almeno brogli su piccola scala) e un numero contenuto di incidenti. Anche oggi Karzai che ha incontrato un ristretto numero di testate internazionali nel suo blindatissimo palazzo (grazie presidente per l’attesa all’esterno!), ha detto che si aspetta irregolarità ma ha invitato il popolo a votare senza considerare il peso del potere o dei soldi dei candidati (compresi quelli arricchiti dai contratti della missione internazionale – la sua ormai immancabile frecciata antioccidentale del giorno).

I morti ammazzati di questa campagna (tra candidati e loro collaboratori) sono già 19, una decina i rapiti per quanto si è saputo nelle ultime ore. Domani sarà la giornata peggiore per l’Afghanistan nel suo peggiore anno dalla caduta dei talebani, ce lo dice la statistica non la sibilla cumana. Incidenti sono attesi in tutto il Paese, centinaia di seggi non apriranno perchè è impossibile proteggere gli elettori e le schede lasciate in bianco dagli assenti, finite l’altra volta votate dai funzionari governativi. I soldati dell’Isaf uccisi nel 2010, con le ultime vittime di questi giorni, sono 507, nel drammatico 2009 erano stati 521. Degli elettori che resteranno barricati in casa nell’est e nel sud sapremo poco, impossibile avventurarsi in quelle aree per i giornalisti, grazie ai talebani. Chissà se un giorno potremo andare a Kunar o nell’Helmand senza essere presi per spie, a raccontare le sofferenze di questo popolo che sta morendo dissanguato da trent’anni, una goccia al giorno

Al voto, al voto

Kabul è tappezzata di manifesti, come forse si era vista mai. Previste a maggio, rinviate su pressione della comunità internazionale per l’inadeguatezza del sistema (che intanto non è cambiato) ecco che il giorno delle elezioni in Afghanistan è arrivato.

Sabato 18 settembre si vota in 6835 seggi (almeno il 13% dei quali non aprirà per motivi di sicurezza…sarebbero indifendibili) l per eleggere 249 membri della wolesi jirga, la camera bassa del parlamento afghano (quella “alta” non è elettiva).

Per quanto si voti per una sorta di ente inutile, il voto di sabato è cruciale per diversi motivi. In primis, le forze di sicurezza afghane dovranno dimostrare di saper garantire la sicurezza di un voto sul quale grava la pesante ed esplicita minaccia talebana. Altrimenti si confermerebbe (ulteriormente) che l’impegno del 2014 (tutto il paese sotto controllo dell’Ana, l’esercito afghano) è fatto di pure chiacchiere.
L’altro motivi chiave è dimostrare che dopo le frodi delle presidenziali del 2009, il governo ha la forza e lo spessore per garantire elezioni pulite. Per portarsi avanti col lavoro, Karzai mesi fa ha indebolito la ECC (la commissione garante del processo elettorale) portando a 2 su 5 i membri internazionali così da poterne controllare la maggioranza. Pochi giorni fa, per regalarci una nota di ottimismo, l’autoritá statunitense Special inspector general for Afghanistan reconstruction ha diffuso un rapporto nel quale afferma che per ripulire il sistema elettorale afghano ci vorranno anni.

Per quanto quest’inverno abbia fatto pesare il suo ruolo bloccando le nomine dei ministri del gabinetto Karzai, la camera bassa conta poco perchè il sistema disegnato dagli americani nel dopo-2001 ruota intorno alla figura del presidente e non tiene conto delle complessità etnico-regionali del Paese.

I candidati in corsa sono 2447 per 249 seggi, tra loro ci sono 406 donne a cui vanno un minimo 64 seggi secondo un meccanismo tipo quota rosa del 25%.
La maggior parte dei candidati (664) sono concentrati nella capitale, dove si assegnano 33 seggi (9 per la quota rosa).

L’unica voce ottimista sembra essere quella del capo della missione Onu nel Paese, De Mistura, secondo cui i talebani stanno andando “bullets for ballots” ovvero sarebbero interessati a farsi eleggere per acquisire posizioni chiave al momento delle trattative di pace. Non ha aggiunto altri dettagli, restando cosí isolato nel suo ottimismo.

Una giornata qualunque

Ci tenevo ad essere a New York per questo nono anniversario dell’attacco alle torri gemelle e, seguendo le imprevedibili strade della vita, ci sono riuscito. Non è il mio primo anniversario, ero qui nel 2002 come nel 2006 e almeno un altra volta. Sono quindi in grado di fare qualche paragone.
Se non dimenticherò mai la New York de “un anno dopo”: città deserta, spettrale, ripiegata su se stessa e quasi risucchiata dalla paura, una città come forse mai la si era vista prima; con gli anni ho assistito ad una New York sempre più stanca di piangere, pronta ad applicare anche all’11 settembre quella voglia di cambiare, costruire e ricostruire che è nel dna della “grande mela”.

Nove anni dopo, la transizione mi sembra ormai completata, se nel 2010 il tempo era esattamente lo stesso che in quell’11 settembre del 2001, questa volta le famiglie erano tutte prese a fare acquisti per il “back2school”, i parchi pieni come la pista ciclabile lungo l’Hudson, lo shopping implacabile come sempre, non meno della vita nei ristoranti.  New York si è stancata di piangere, vuole guardare avanti, eppure – per questo motivo mi è venuta voglia di scrivere questo post – il dolore di New York viene usato dai non-newyorkesi per giustificare l’ “esistenza del nemico”. Dando un occhio, in contemporanea, agli schermi di FoxNews e alle strade di New York, si assisteva a questa straniante visione per cui calava il lutto in luoghi lontani mentre nel luogo-bersaglio di quel giorno che ha cambiato la storia recente del mondo, si preferiva pensare ad altro. I soliti liberali new yorkesi, avrà pensato più di qualche “red neck” tradizionalista.

Mi colpisce questa che è una risposta della gente alla politica, il coraggio di guardare avanti invece che “fossilizzare” il pur sacrosanto dolore per trasformarlo in strumento di nuovo dolore. Anche se guardiamo ai media, di questo nono anniversario si è parlato soprattutto per la scelta di un pastore “nazista” (chiamo così tutti quelli che vogliono bruciano libri, romanzetti “harmony” compresi) che nella sua Florida si era lanciato nella giornata del falò coranico. Se la bbc descrive Terry Jones, come un pastore la cui congregazione non riuscirebbe a riempire un autobus per quanti pochi fedeli ha, invece gli è ben riuscito di spargere odio e morte nel mondo. In Afghanistan (vedi anche qui per un quadro sulle prime manifestazioni), si sono contate già due vittime nei cortei anti-occidentali. Al reverendo dedicherò un pensiero speciale (scoprite quale) quando tra poche ore a Kabul camminerò per strada e la gente avrà un motivo in più per odiare gli “americani” ovvero gli stranieri tutti. Sono sicuro che molti occidentali che si muovono al di là del filo spinato in Afghanistan faranno lo stesso.

In memoria di Angelo Vassallo. Quando “fortapasc” non ha confini

Oggi non mi occupo di Afghanistan, i lettori di questo blog “tematico” non me ne vogliano. O meglio mi occupo dell’Afghanistan di casa nostra. E’ un pezzo della mia storia professionale che ritorna, dei miei inizi da cronista, una vita fa: la vicenda di Angelo Vassallo, ucciso in quello che ai più pare un agguato di camorra nell’oasi (una volta?) felice del cilento. Ecco il mio breve “ricordo” ripreso sia da articolo 21.info che dal blog del critico enograstronomico, giornalista de il Mattino, Luciano Pignataro che alla vicenda dedica diversi approfondimenti.

“Noi dobbiamo fare le cose che non si vedono, quelle che non portano voti subito, non perdiamo tempo dietro a piazze e spettacoli. Noi dobbiamo prima costruire le fogne e tenere il mare pulito”. Parlava così Angelo Vassallo. Era la seconda metà degli anni ‘90 e per un giovane cronista arrivare a Pollica (famosa ormai nel mondo con il nome della sua frazione marina, Acciaroli) era più difficile di quanto lo sia oggi.
Non per via delle strade, che sono sempre le stesse, ma perchè il Cilento non era null’altro che un paradiso di bellezze naturali, lasciate ad uno sviluppo turistico sciatto e trascurabile, tutto costruito sull’idea delle seconde case, quelle che all’economia locale non lasciano nulla, a volte nemmeno gli stipendi di qualche muratore.

Eppure i cronisti regionali arrivavano a Pioppi per parlare con Angelo, il sindaco-pescatore, che magari ti invitava a tornare nella stagione giusta per uscire insieme a pesca di gamberi. Venivano per parlare con un sindaco che faceva “curiosità” perchè perseguiva (solitario) un’altra idea di sviluppo, perche voleva una cittadina epicentro di un turismo di qualità, con le fogne che non scaricano a mare, le spiagge pulite, il porto turistico dove i posti barca si assegnano in trasparenza e soprattutto dove l’economia non si “costruisce” a scapito dell’ambiente, tra abusivismi “di necessità” (quella di intascare) e “marescia’ che volete che sia è una verandina”; motivetti sin troppo ascoltati nella spirale voto di scambio-illegalità (piccola o grande che sia) lungo la quale il sud ormai si avvita.

E negli anni Angelo ci è riuscito, tra bandiere blù, classifiche fatte di vele o di stelle, ha trasformato Pollica-Acciaroli-Pioppi in un motore del turismo di qualità nel salernitano, quasi al livello della blasonata Costiera Amalfitana che dal cilento si vede all’orizzonte; sviluppo accompagnato dalla crescita di un’economia che non ha fatto pagare dazio all’ambiente.

La notizia dell’uccisione di Angelo Vassallo mi è arrivata stamattina al telefono e mi ha piegato in due. Non solo perchè Angelo era una bella persona, mite, sorridente, efficientista senza ricorrere ai toni alti del decisionismo tanto di moda oggi, anche quando parlava con un giovanissimo cronista di una testata locale. La notizia mi ha shockato perchè, quella che a tutti appare come un’esecuzione di camorra è avvenuta non a Scampia, non a Forcella, non cioè in un territorio segnato dalla presenza criminale, stabilmente sotto il tacco dei clan, ma invece in quel Cilento rurale e marittimo dove i fichi ancora si seccano al sole, la vita oltre ai sapori sono “slow” e dove la microcriminalità è un evento da prima pagina.

Bisogna farlo capire a chi, diversamente da me, non è salernitano e quei luoghi non li conosce, sommando insieme morti ammazzati e sud insieme come se l’addizione fosse sempre la stessa.  Le indagini faranno chiarezza, ci diranno la verità, ma se fosse confermato quello che sostengono anche importanti fonti giudiziarie come tanti colleghi dei vecchi tempi con i quali ci siamo sentiti al telefono, beh il quadro sarebbe quello soffocante di un “fortapasc” globale.

“Fortapasc” come il titolo del film sul giornalista trucidato, Giancarlo Siani, l’abusivo, “o’ cacazz’ ” il giornalista-giornalista non il giornalista-impiegato, quello che voleva scrivere di camorra fino a che la camorra non l’ha zittito. Il giornalista che per Castellamare di Stabia conio’ il titolo di “fortapasc”, l’avamposto assediato da Gionta, Bardellino, Nuvoletta. La storia di Angelo Vassallo ci racconta che quel “fortpasc” non c’è più, che la camorra come una metastasi inarrestabile colonizza le cellule sane di un corpo chiamato sud, spingendolo verso un futuro incognito – nella peggiore delle ipotesi, quello di una zona franca dove non c’è possibilità di scampo per quelle realtà e per quegli uomini che voglio e creano uno modello di sviluppo diverso.

Angelo Vassallo c’era riuscito a vincere la sua scommessa, forse per questo l’hanno ammazzato come Giancarlo Siani e come tanti altri, in macchina, sotto casa. Speriamo solo che i media si ricordino al di là di domani di questa storia e di quello che ci dice su quel pezzo di Campania che fino a stamattina credevano libero dalla camorra e che ci faceva ancora sperare.