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Vittime In-civili

Per il quinto anno consecutivo, è salito il numero di morti innocenti in Afghanistan. Nel suo consueto rapporto, la missione delle Nazioni Unite nel Paese ha contato 3,021 vittime nel corso del 2011.  Si tratta di donne, vecchi, bambini, uomini senza divisa nè armi ovvero non appartenenti a nessuna delle due fazioni in conflitto; appunto vittime innocenti.

Conta poco che la quota di morti ammazzati attribuiti alla missione occidentale sia diminuita, eppure il capo dell’Isaf, il generale Allen, se ne è rallegrato: “Every citizen of Afghanistan must know ISAF will continue to do all we can to reduce casualties that affect the Afghan civilian population. This data is promising but there is more work to be done,” said Allen. “Even one civilian casualty is a tragedy and I will continue to direct each member of the coalition to work to drive the number of ISAF-caused civilian casualties to zero.”

I tre quarti degli innocenti uccisi è da attribuire all’opera dei talebani e della guerriglia in genere.

Se il totale generale è aumentato dell’8%, in particolare è aumentato il numero delle vittime uccise da attentatori kamikaze: 450 persone. In pratica a parità di attentati, il numero totale delle vittime è cresciuto dell’80%. A pesare nelle statiche il drammatico attentato contro gli sciiti a Kabul il 6 dicembre scorso.
E’ aumentato anche il numero delle vittime per le IED, le bombe di varia fattura e “modello”, nascoste lungo le strade. A riprova di come questi ordigni abbiano visto aumentare la loro potenza.

La cosa che più mi intristisce ogni volta che leggo questi rapporti, ogni volta che arriva una notizia del genere, ogni volta che muore un innocente è l’utilizzo del termine vittime civili a voler rimarcare che non si tratta di vittime combattenti, nè soldati, nè guerriglieri. Ma cosa c’è di civile nell’uccisione di un bambino che andava a scuola? Di un padre che andava a pregar? Di una famiglia che andava ad un matrimonio? Evidentemente nulla…anzi c’è tutta l’inciviltà che una guerra possa generare.

Quei morti spariti

La  guerra in Libia non è finita. Si combatte a Sirte, a Bani Walid, a Sabha. Quella che i ribelli hanno definito l’offensiva finale in realtà sta andando avanti a colpi di lente avanzate e rapidissime ritirate. Uno stallo molto simile a quello a cui abbiamo assistito nei primi mesi del conflitto, i mesi della “guerra autostradale” tra Benghazi e Ras Lanuf, con la differenza che adesso i ribelli litigano fra di loro, in un clima di sospetti e divisioni tribali.

In questi giorni di città assediate, sono gli ex-ribelli (ormai diventati il legittimo governo del Paese o meglio di parte del Paese) a bombardare i centri urbani, come avevano fatto i lealisti (all’epoca, i governativi) nella povera Misurata, la città martire. Di mezzo, insomma, come in ogni guerra ci sono sempre i civili, chiamati a pagare il prezzo più alto.

A proposito, ma quanto è alto il prezzo di questa guerra? Il prezzo di vite umane? Sin dall’inizio il conflitto in Libia è finito nella spirale della censura governativa alla quale i ribelli rispondevano con notizie non verificate (e non verificabili dai giornalisti) ma rilanciate dai network panarabi in tutto il mondo fino a dare loro dignità di “fatto”. Parliamo, per esempio, dei bombardamenti e degli elicotteri che sparavano sui civili o le fosse comuni scavate a Tripoli.

E’ molto interessante questo articolo del New York Times che ha dato l’incarico ad un suo inviato di verificare le cifre del governo transitorio secondo cui il bilancio delle vittime della rivoluzione è compreso tra i 30 e i 50mila morti, senza considerare i combattenti lealisi uccisi. Cifre che dalle verifiche sul campo condotte sin’ora sarebbero pari ad un decimo di quelle dichiarate. Se non cambia molto sul piano della drammaticità del conflitto (perchè una sola vittima in una guerra è sempre una di troppo) si evidenzia così di nuovo come in quest0 conflitto, forse più che negli altri, nella sua apparente linearità, la verità è stata una delle prime a cadere sul campo.

http://tashakor.blog.rai.it/2011/09/18/quei-morti-spariti/

Ogni maledetto venerdì

No, non stiamo parlando di football americano. Il titolo di questo post è solo una citazione amara del film di Oliver Stone. Perchè parliamo di una partita ma di una di quelle dove ci si gioca tutto, dove ci si gioca la vita: l’incolumità personale, immediata, quanto la sopravvivenza futura in un Paese ridotto ad una macelleria a cielo aperto, la Siria.
In quel Paese, ogni maledetto venerdì – tradizionale giornata di preghiera diventata da più di sei mesi anche giornata di protesta – vanno in campo ormai sempre le stesse due squadre: da un lato la folla che chiede il cambiamento, la fine del regime quarantennale degli Al Assad e del partito Baath (la tv di stato li descrive come terroristi al soldo di potenze straniere e massacratori di poliziotti).
Dall’altra, le forze di sicurezza, fedelissime al presidente che ne ha scelto i componenti all’interno della sua minoranza religiosa, quella degli alawiti, come ha fatto per la restante parte della classe dirigente del Paese.

Ieri i morti sarebbero stati, secondo fonti dell’opposizione, almeno quarantaquattro. Nella banalità del male, non è una novità ma un metodo. Il regime ha deciso di fare in questo modo – sparando ad altezza d’uomo –  i conti con le proteste, con il vento della primavera araba che qui si mescola con le mai sopite istanze religiose della maggioranza sunnita.
Del resto Al Assad, padre, negli anni 80 aveva fatto 20mila morti per stroncare proprio una rivolta filo-sunnita e normalizzare il Paese. Un metodo di successo.

Mentre scrivo queste cose mi indigno ma mi sento anche come un disco rotto, sono mesi che la stampa internazionale parla di Siria e nulla è cambiato – compresa la precisazione (a me, molto cara) che le notizie raccontate da noi giornalisti non possono essere verificate in via indipendente perchè agli inviati stranieri (salvo alcune eccezione) non è stato concesso l’ingresso nel Paese.

Certo una cosa è cambiata: l’attenzione della stampa internazionale. Anche questa cosa è cambiata in peggio.
 All’inizio, durante la rivolta della città di Daraà (ribattezzata la “porta della libertà” prima che i carri armati dell’esercito ne “placassero” gli animi) sembrava che il regime stesse per collassare come in Tunisia, Egitto, Yemen. All’epoca, era marzo,  si scriveva e parlava di Siria quotidianamente. Oggi è un conflitto “cronicizzato” e a cadenza settimanale. I media ne parlano, più o meno, ogni sabato perchè c’è un bagno di sangue ogni venerdì. Ogni maledetto venerdì.

http://tashakor.blog.rai.it/2011/09/17/ogni-maledetto-venerdi/ 

La ‘badar’ contro gli italiani

Negli ultimi trent’anni di conflitti in Afghanistan, la primavera ha sempre sancito l’inizio della stagione dei combattimenti, con i rinforzi per i ribelli (mujaheddin ieri, talebani oggi) in arrivo dalle basi del vicino Pakistan attraverso le montagne finalmente sgombre dalla neve. Ma quest’anno i talebani l’offensiva di primavera l’hanno annunciata formalmente, con inizio il primo maggio, denominandola Badar, come una storica battaglia contro gli infedeli.
L’ultimo mese in Afghanistan è stato segnato da attacchi clamorosi come i due giorni di combattimenti a Kandahar, l’attacco all’ospedale militare di Kabul e l’ultimo attentato suicida nel nord del Paese che ha gravemente ferito il capo delle truppe tedesche e ucciso il locale capo della polizia. Un tour dell’orrore, partito dal sud e che – con l’attacco di oggi ad occidente – ha praticamente colpito tutti i quadranti del Paese.

E’ in questo contesto che si inserisce l’attentato di oggi contro la città di Herat, una città relativamente tranquilla rispetto al resto del Paese tanto che è previsto a brevissimo il passaggio di consegne tra militari italiani e forze di sicurezza locali. La prima tappa nel percorso previsto dalla coalizione Isaf che dovrebbe portare entro il 2014 gli afghani ad essere responsabili della sicurezza nel loro Paese, con il ritiro degli occidentali. Per questo l’attacco di oggi ha un particolare valore simbolico

I talebani hanno colpito la base del Prt, il provincial recostruction team ovvero l’unità della missione italiana che si occupa della ricostruzione, degli aiuti ai civili, e che in questo semestre è gestito dal 132esimo reggimento della Brigata Ariete. Una base nel cuore della città, stretta tra gli edifici, intitolata al Capitano Vianini, che morì in un incidente aereo nella missione di ricognizione che portò poi alla creazione del Prt italiano. Una base particolarmente vulnerabile, adatta alla tecnica dell’esplosione kamikaze e poi dell’irruzione del commando armato, grazie proprio alle case vicine ed elevate dove – pare – siano rintanati alcuni ribelli, stando alle prime frammentarie ricostruzioni. Un obiettivo scelto anche per questo rispetto al super protetto Camp Arena la base principale italiana e multinazionale nei pressi dell’aeroporto di Herat.

Quando finisce il cacao?

Me la immagino già la scena: il cacao che inizia a scarseggiare sui banchi delle drogherie italiane; le pasticcerie che vanno in “bianco”; i maestri belgi in crisi; San Valentino in America senza scatole col fiocco da regalare; le grandi aziende dolciarie che si accapigliano per conquistare le scorte di chissà quale secondario Paese produttore.
A quel punto forse il mondo occidentale, si accorgerebbe che da mesi c’è una crisi che incendia la Costa d’Avorio. Paese che appunto del cacao è il maggior produttore del pianeta e dove ormai è guerra civile – per la vicenda di un presidente eletto ma non riconosciuto dal presidente uscente ma sconfitto alle urne.

I misteri della disattenzione (in questo caso sarebbe meglio dire della cancellazione) mediatica oltre che politica sembrano ancora più fitti nel caso della Costa d’Avorio. Se i drammi si misurassero per numero di morti (ragionando con la logica del dolore tanto al chilo) la Costa d’Avorio meriterebbe all’incirca la stessa attenzione della Libia. In Costa d’Avorio secondo la Croce Rossa sono morte almeno 1000 persone, poco di meno che in Libia. Se consideriamo, il numero dei profughi (le ultime cifre che ho visto parlavano prima di 450mila poi persino di un milione di profughi in fuga dalla Costa d’Avorio) siamo molto oltre la crisi libico-tunisina. Eppure quei profughi hanno ricevuto un centesimo dell’attenzione e della copertura mediatica dedicata ai loro omologhi (140mila? 200mila?) in fuga dalla Libia attraverso il confine di Ras Jedir.

Fermo restando che una vittima, una sola, è un bilancio inaccettabile, pur comparando i due conflitti sulla base di questi dati siamo sugli stessi livelli, eppure la telecronaca dei combattimenti ping-pong sulla strada tra Benghazi e Sirte ormai è giunta quasi al minuto per minuto, mentre la Costa d’Avorio è una sorta di monoscopio che tutti hanno sotto gli occhi e nessuno vede. Non voglio dire che la Libia non meritasse nè l’attenzione che sta ricevendo, nè l’intervento occidentale. Voglio dire che la Costa d’Avorio è, per una serie di meccanismi alcuni chiari altri misteriosi, il classico conflitto dimenticato.

Da giorni sento fare “insostenibili” ragionamenti sulla guerra in Libia e su perchè non abbiamo bombardato Barhein e Yemen, insostenibili perchè quasi sempre servono a dare ragione a questo a quello nelle nostre – tutte italiote – liti di pollaio. La Costa d’Avorio non serve nemmeno a quello. Sarà un segno dei tempi.

L’anno peggiore

Lo schianto è avvenuto nella provincia di Zabul, nel sud talebano, nove i morti: tutti americani (lo anticipa la Fox). Si portano dietro un triste primato, secondo conteggi indipendenti (iCasualties e Kabul Pressistan) con queste vittime, il numero dei caduti occidentali nel paese arriva almeno a quota 529. Anche se mancano tre mesi alla fine dell’anno, il 2010 è già il peggiore dalla caduta dei talebani. Segno di quanto infuri la battaglia in Afghanistan e di quanto sia difficile.

Altri numeri oggi arrivano dalla commissione elettorale che fissa al 47% l’affluenza alle urne, contando 4,3 milioni di elettori effettivamente presentatisi ai seggi. La base è al solito ballerina e si arrivà così a questa percentuale così alta che in realtà è riferita al più basso numero di elettori delle 4 consultazioni svolte sin’ora. La Fefa, organismo indipendente afghano che ha monitorato le elezioni (pochissimi gli osservatori internazionali) annuncia un vasto quadro di irregolarità (qui per una sintesi) anche se preferisce non pronunciarsi ancora sulla questione chiave: ovvero la portata dei brogli. In Afghanistan non potrebbero non esserci brogli, fisiologici per mille motivi (dall’assenza di sicurezza alla fragilità dell’apparato statale), il punto è capire se qualcosa è migliorato o no rispetto al quadro dei brogli sistematici e “di Stato” delle presidenziali del 2009. Sembrerà un dato per “intenditori” e appassionati della materia, ma da questo dato dipende la posizione degli alleati. Sarebbe sempre più difficile per l’occidente continuare a sostenere un governo tanto privo di credibilità.

Osprey, altre tre morti nel suo curriculum

Arrivato l’anno scorso in prima linea nel sud dell’Afghanistan, poche ore fa, il CV22 Osprey ha segnato un nuovo record nel suo triste curriculum. L’elicottero che diventa aereo o – se preferite – l’aereo che diventa elicottero è stato coinvolto in un incidente costato la vita a tre militari e un civile (erano tutti a bordo). Ci sarebbe inoltre un numero imprecisato di feriti, l’aereo stava trasportando truppe. Ecco la pur breve cronaca della Cnn. Non è chiaro se si sia trattato di un abbattimento, come affermano i talebani, o di un incidente, che non sarebbe il primo nella storia di un progetto travagliato quanto rivoluzionario. Il sogno dietro l’Osprey è quello di un mezzo capace di volare (“deep into enemy territory”) ad alta quota e su una lunga distanza come un aereo ma poi di poter atterrare come un elicottero, praticamente dovunque.
Per ricostruire la storia del progetto da circa 50 miliardi di dollari ho trovato interessante la nota di wikipedia mentre per capire come progetti del genere pesino sui bilanci degli stati si può leggere questo editoriale dell‘anno scorso sul NyTimes.