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Il numero di telefono

Una frase indimenticabile della presidenza Karzai sarà sicuramente quella pronunciata, durante una conferenza stampa, qualche anno fa. Il presidente chiedeva se qualcuno avesse il numero di telefono dei talebani, rendendo pubblico questo “vuoto” della sua rubrica. Una frase apparentemente incomprensibile ma che in realtà sintetizzava in anticipo il problema che le trattative di pace con i talebani hanno ed avrebbero incontrato ovvero l’assenza di ogni certezza sulla controparte. Il governo afghano, insomma, non sapeva con chi trattare un’eventuale pace. Un problema che pare, finalmente, risolto.

I talebani hanno annunciato che apriranno una loro “ambasciata” in Qatar, in pratica potranno spostarsi (dal Pakistan, presumibilmente) in sicurezza senza essere costretti a passare per il territorio afghano, dove sono ricercati e obiettivo delle forze Isaf,  e senza temere rappresaglia in quello che invece sarà per loro un territorio neutrale dove godranno – si ipotizza – delle tutele normalmente offerte ai diplomatici.

Per l’occidente si tratta di una vittoria (attribuibile a Stati Uniti e Germania) perchè appunto adesso sanno di avere un interlocutore certo e non rischieranno più di scarrozzare, proteggere e pagare, dei presunti emissari dei talebani che in realtà sono solo dei truffatori (è capitato anche questo negli ultimi due anni di tentata pace). Allo stesso tempo, in qualche modo, si mette all’angolo o meglio si emargina il Pakistan, un partner cruciale per la pace ma – come sappiamo – molto pericoloso.
In prospettiva, un accordo pur fragile e pur con una sola parte delle guerriglia (che non è formata solo dai talebani – ricordiamoli) servirebbe a far partire le truppe occidentali nel 2014 senza troppi rimorsi e polemiche nell’opinione pubblica occidentale e aiuterebbe anche la campagna elettorale di Obama nella sua seconda corsa alla presidenza.

Per il governo afghano è un colpo a freddo, non è stata coinvolta la Turchia nè un altro alleato storico di Kabul (i sauditi) che avevano ospitato altri tentativi di colloqui di pace durante il pellegrinaggio alla Mecca. Ma almeno il palazzo presidenziale esce dalla paralisi seguita all’uccisione di Rabbani, il capo dell’alto consiglio per le trattative.

Per i talebani è un’opportunità: quella di evitare di continuare ad invecchiare durante una guerra dove hanno chiaramente una posizione di vantaggio, in quanto forza di guerriglia, ma che sanno di non poter vincere esattamente come di non poter perdere. Tra l’altro, la posizione della recente conferenza di Bonn (supporto finanziario al governo Karzai anche dopo il 2014 da parte degli governi occidentali) ha ulteriormente allungato l’orizzonte temporale della “resistenza” talebana in un conflitto di logoramento.

Il vero nodo da sciogliere resta però sempre lo stesso: trovati gli interlocutori, avviate le trattative, quale sarà l’accordo? I talebani chiederanno di certo modifiche alla costituzione e, in primis, una forte riduzione dei diritti delle donne, in generale dei diritti di espressione ed individuali sanciti (non sempre garantiti) nel nuovo Afghanistan. Si finirà per siglare un accordo che riporta il Paese indietro di dieci anni? Certificando così l’inutilità di questi dieci anni di conflitto?
Inoltre sul fronte del governo Karzai, chi applicherà un accordo del genere? Non di certo i tagiki del Fronte Unito che già lanciano strali contro un’ipotesi di governo con i talebani (pashtun).
Per ora l’occidente dovrà cedere sulla liberazione di alcuni prigionieri talebani che sono ancora a Guantanamo così di fatto cedendo sul principio per cui non si tratta con chi ha avuto a che fare con Al Qaida.
E poi cos’altro verrà messo sul tavolo del negoziato?

Qui Base Afghanistan

La grande assemblea tribale convocata dal presidente Karzai si è conclusa dopo tre giorni di lavori, dei quali gli osservatori occidentali hanno capito molto poco. I meccanismi del potere che si irradiano nella società afghana sono troppo complicati per i non afghani e presuppongono una conoscenza di quel contesto che nessuno (in quest’altra parte del globo) sembra possedere. Per esempio non abbiamo ancora capito se gli anziani, i capi tribali, le donne, gli ex-combattenti e quant’altro chiamati sotto la grande tenda fossero davvero uno spaccato della comunità afghana o solo amici dei Karzai a cui è stata concessa una vacanza a Kabul. Diciamo che (per aggiungere una nota di colore) non sappiamo nemmeno da dove nasca il mito del 39, numero saltato nelle quaranta commissioni della Jirga, perchè in Afghanistan da qualche anno è considerato il numero del “lenone”.

Senza sapere se la Jirga sia stata o meno legittimata a predendere le decisioni che ha preso, non sappiamo quanto gli atti conseguenti che prenderà Karzai saranno davvero condivisi dal popolo afghano.
Di certo Washington è stata accontentata: a condizioni da definire (alias i soldi che la Casa Bianca verserà nelle casse afghane) gli americani potranno restare nel Paese fino al 2014, l’Afghanistan diventerà la più importante base statunitense in questo pezzo di mondo. Posizione strategica per colpire l’Iran, fare paura alla Cina, controllare la “bomba” pakistana. Fanno poco testo le parole di Karzai che, in chiusura di lavori, ha detto che “mai il territorio dell’Afghanistan sarà fonte di minaccia per altre nazioni”.

Del resto Karzai sa che rischia di fare la fine di Najibullah, l’ultimo presidente filo-sovietico, capace di resistere dopo il ritiro dell’armata rossa (l’Isaf si ritira nel 2014) solo grazie agli aiuti militari di Mosca e solo fino a quando quegli aiuti arrivarono. Karzai senza gli Stati Uniti (soldi e potenza di fuoco) a Kabul resterebbe per molto poco.

L’assemblea ha anche “benedetto” (non ha poteri decisionali) la decisione, già presa da anni, di trattare con i talebani. La guerriglia ha già fatto sapere che la Jirga non era altro che una riunione di dipendenti del governo, respingendone le conclusioni.

Casino generale

Prendere un generale che ha passato gran parte della sua carriera ad occuparsi di armi, munizioni, artiglieria nell’esercito americano; mandarlo a Kabul per addestrare le truppe afghane ad usare i nuovi (multi-milionari) veicoli blindati in arrivo dall’America; fargli un’intervista.

Il risultato di questi tre fattori combinati? Un altro strappo politico-diplomatico-umano tra il governo Karzai e gli Stati Uniti. Ed è proprio quello che è accaduto dopo l’intervista del Generale Fuller (vice-capo della missione Isaf di addestramento delle truppe afghane) al ben seguito sito web americano Politico.com. Un’intervista nella quale tutto sommato Fuller ha solo raccontato una triste verità, certo peccando in diplomazia.
Secondo il generale a due stelle il governo afghano non sembra rendersi conto degli sforzi americani in termini di vite umane e in termini economici (la missione di addestramento costa circa 12 miliardi di dollari all’anno) nonostante una drammatica crisi mondiale: “Gli afgani pensano che le strade americane sono lastricate d’oro e che noi tutti viviamo ad Hollywood!”
Commenti arrivati subito dopo le parole di Karzai su una guerra americana contro il Pakistan (con la promessa di supporto afghano al Pakistan!) e quindi frutto dell’irritazione di un generale che ha passato gran parte della sua carriera in un ufficio e ne sa poco di diplomazia internazionale  ma che (sfogo o meno) raccontano bene di come stiano andando – anche in campo militare – i rapporti tra occidentali e afghani quando si tratta di aiuti economici.
Fuller parla di richieste frutto di una mentalità plasmata dagli aiuti sovietici fatti di carri armati e aerei da caccia donati pur senza avere i fondi per curarne la manutenzione e trasformatisi in rottami. Un rapporto che Fuller descrive come la storia di quello che chiede da mangiare e vuole del pesce: “Quale pesce? Il pescespada perchè il merluzzo non mi piace…ma il merluzzo è sul menù di oggi!”.

Gli Stati Uniti e gli afghani sono ai ferri corti su questo punto, gli americani non vogliono dare a Kabul mezzi costosi che finirebbero poi in rovina senza la giusta manutenzione. Sta cedendo su alcuni punti come i costosi blindati arrivati di recente ma mostrati alla stampa su un camion perchè gli afghani non sanno ancora guidare veicoli così sofisticati. Ma il problema generale resta ed è un problema che può essere esteso a tutto il rapporto tra afghani e occidentali in termini di aiuti allo sviluppo. Da un lato c’è l’idea che gli occidentali sono illimitatamente ricchi, dall’altra c’è il tentativo di dare in maniera giusta ma badando ai propri interessi. Di mezzo c’è la complessa mentalità afghana in fatti di mediazione e il cancro della corruzione. Un puzzle difficile da ricomporre.

A proposito, e Fuller? E’ stato rimosso dall’incarico. Se ne torna a casa con una brutta figura ed un grosso vanto, dal bilancio di previsione del 2012 era riuscito a stornarnare un miliardo e seicento mila dollari di spese che non riteneva utili.

Karzai ovvero come scontentare tutti

In questa parte finale del mese di ottobre, in cui  i talebani dimostrano che anche con la “vecchia” e ormai nota tecnica dell’autobomba riescono a colpire all’interno della capitale (e ad infliggere una delle peggiori perdite per gli americani, in un singolo attacco in Afghanistan) e un altro membro delle forze di sicurezza afghane ammazza dei soldati stranieri (tre australiani, uccisi nella provincia di Uruzgan) non poteva mancare un’uscita di Karzai che pensa alla politica estera e riesce, con una sola frase, a scontentare tutti. Non c’è che dire…era difficile ma il presidente ci è riuscito.

Karzai, intervistato dalla pakistana GeoTv, ha affermato che se gli Stati Uniti dovessero attaccare il Pakistan (sì, tra Washington ed Isalamabad siamo davvero ai ferri corti) gli afghani interverrebbero in difesa dei pakistani!
Per capire di cosa stiamo parlando bisogna riavvolgere il nastro: Pakistan ed Afghanistan sono divisi da una rivalità e da una disputa territoriale sui comuni confini che risale ai tempi dell’impero britannico, quando il Pakistan autonomo era ancora di là da venire; il Pakistan ha contribuito, con i suoi servizi segreti, a “fondare” i talebani; in Pakistan ci sono covi di Al Qaeda e basi operative della guerriglia dalla quale partono attacchi contro le truppe occidentali e locali in territorio afghano.
Dopo la morte di Rabbani, l’uomo di Karzai che avrebbe dovuto mediare con i talebani prima che gli stessi (tra le smentite) lo uccidessero, il presidente Karzai ha ammesso che non è il caso di continuare a trattare con i talebani, si fa prima a fare la pace con il Pakistan (la vera controparte in eventuali trattative).
A contorno, ai primi di ottobre era stato scoperto anche un presunto complotto per uccidere lo stesso presidente che, secondo i servizi afghani, era stato organizzato proprio in Pakistan.

Ecco che queste parole di Karzai sull’aiuto al Pakistan appaiono del tutto incomprensibili, persino nella logica della mediazione ad ogni costo che persegue Karzai ad ogni passo del suo mandato. Un probabile frutto dell’amicizia tra Hamid Karzai e il suo omologo Asi Ali Zardari…che è come dire faccio un favore al custode della Fiat perchè così faccio colpo su Marchionne. Zardari è un fragile presidente che conta molto poco, in un Paese dove – pur tra i fermenti democratici – a comandare sono di fatto i militari ed i temibili servizi segreti, l’Isi.

Le parole di Karzai hanno mandato su tutte le furie i politici americani.
Comprensibile…fosse solo perchè le truppe (quelle afghane) che dovrebbero fermare quelle americane, costano al contribuente americano qualcosa come 12 miliardi di dollari all’anno. E’ infatti proprio l’America che paga l’addestramento e l’equipaggiamento dell’Ana, l’esercito nazionale afghano.
Ad arrabbiarsi sono stati anche gli afghani, parlamentari e non, che sono rimasti di sasso di fronte all’idea dei propri soldati che accorrono in soccorso della fonte di tutti i mali afghani…Senza considerare che poche settimane fa, l’Afghanistan ha stretto un accordo di cooperazione, anche militare, con l’India che è una storica nemica del Pakistan (per la contesa sul Kashmir e per qualche altro piccolo problema come l’attacco coordinato a Mumbai di un paio di anni fa).

Perchè Karzai l’abbia fatto resta un mistero, esattamente come il tentativo occidentale di considerare il governo afghano come un interlocutore credibile.

La donna “del” mullah

La storia è inverosimile ma troppo curiosa per non essere raccontata. Prendete una donna e datele tre colpe gravi: in primo luogo essere donna, essere stata eletta in parlamento in questo regime “democratico”, appartenere all’etnia hazara ovvero gli ultimi tra gli ultimi. Dimenticavo, ovviamente queste sono tre colpe gravi agli occhi di un conservatore radicale dell’etnia pashtun in Afghanistan. Se poi il conservatore radicale è il fondatore del regime dei talebani, queste tre colpe da gravi diventano gravissime.

Eppure questa  donna (che si chiama Homa Sultani) nonostante tutto sarebbe riuscita a stabilire un contatto con il Mullah Omar, persino a riuscire a vedere l’uomo più ricercato dell’Afghanistan ben due volte, una presso Kandahar l’altra vicino Kabul. Homa starebbe mediando per le trattative di pace e il Mullah si fiderebbe di lei tanto da aver firmato una sorta di lettera di intenti. Affermazioni pubbliche come queste che potete leggere qui.
Sarà vero? Magari…

Malali, gli assassini e i talebani stanchi

Malali Joya, la donna più coraggiosa (e più odiata) d’Afghanistan, ha scritto sul britannico The Guardian questa analisi della vicenda del “killing team”, la squadra della morte all’interno della Stryker Brigade, che ha ucciso almeno tre civili afghani per divertimento (per quanto orribile suoni messa così, è una cosa vera). Di questa vicenda si è tornato a parlare negli ultimi giorni sia perchè davanti al tribunale militare, uno dei sospettati si è dichiarato colpevole ottenendo uno sconto di pena e testimoniando contro gli altri assassini in divisa, sia perchè Rolling Stone (dopo alcune anticipazioni del tedesco Spiegel) ha pubblicato un vasto dossier con foto e video, una Abu Grahib in sedicesimo.

Malali, in coerenza con le sue posizioni, contesta la natura di episodio della vicenda, per lei è semplicemente la vera faccia dell’occupazione militare straniera a difesa del corrotto governo Karzai. Malalai sta tornando in America, dopo settimane di tiro alla fune con le autorità statunitensi che non volevano concederle il visto per l’ingresso nel Paese dove terrà un secondo giro di presentazione del suo libro. Ammiro Malalai, è una voce necessaria, e ho paura per la sua vita, ma non sempre condivido quello che dice. Per esempio, in questo editoriale ipotizza la terza via afghana, ovvero una rivoluzione in stile tunisino, purtroppo – secondo me – ancora lontana, perchè l’Afghanistan, a parte il boom demografico, non condivide con quei paesi fattori importanti come, per esempio, la disoccupazione intellettuale e l’alto livello d’istruzione. Lo dico non tanto per distanziarmi da Malalai ma perchè alla fine se la presenza militare straniera deve finire e finirà, continuo a non vedere un’alternativa afghana al peggio che gli afghani hanno saputo fare sin’ora, pur con la collaborazione occidentale.

Il New York Times, intanto, ci fa sapere che “anche i talebani piangono…” , l’articolo di Carlotta Gall descrive gli effetti della strategia Petraeus, ovvero colpire i capi talebani, decimarli. 900 quelli uccisi nell’ultimo anno, con la difficoltà di sostituirli con nuove reclute. Inoltre si racconta di un Pakistan sempre meno sicuro, tra attacchi dei droni, nuova linea del governo e intromissione dei servizi locali nelle trattative con il governo afghano. Persino di scontri interni che hanno portato all’uccisione di alcuni comandanti pare da parte di altri talebani. Dell’articolo mi convince soprattutto la parte in cui imputa a questo contesto, la svolta talebana di attaccare “soft target” come i centri reclute o gli uffici pubblici piuttosto che obiettivi militari. La conferma della portata di questa crisi talebana l’avremo solo a partire dalle prossime settimane quando comincerà la stagione dei combattimenti. A me però rimane il dubbio che, pur dando ottimisticamente per acquisita la vittoria militare, la soluzione del problema non sia solo questa. In altre parole azzerati i talebani chi resterà vittorioso al comando? Il corrotto regime Karzai, la terza (improbabile) via di Malalai o il caos?

Assalto alla banca – 2

L’assalto di cui sto per parlavi non è stato condotto a colpi di arma da fuoco, nè con granate, nè con attentatori suicidi. E soprattutto non è stata opera dei talebani. La Kabul Bank è il simbolo del neo-capitalismo afghano ed è stata “rapinata” dalla classe dirigente che ruota intorno al governo Karzai. Adesso il suo tracollo, in puro stile Wall Street, rischia di far scivolare nel baratro tutto il Paese.

Per la verità più che di neo-capitalismo si dovrebbe parlare di economia di guerra, quell’economia legata non tanto ad una vera crescita del prodotto interno lordo ma ad un’artificiale incremento dello stesso legato ai ricchi contratti per la logistica e la ricostruzione che arrivano dalla coalizione Isaf e dai fondi della ricostruzione internazionale alias dalla guerra.

La Kabul Bank, la più grande banca privata del Paese, emblema della rinascita afghana, è andata in crisi a fine agosto quando una folla di correntisti ha cominciato a ritirare i propri risparmi mettendo alle corde la stabilità della banca (che è il tesoriere delle forze di sicurezza alle quali paga gli stipendi per conto del governo). In pratica si è andata diffondendo la voce – rivelatasi vera – di una prassi di prestiti facili concessi agli amici degli amici (compreso il fratello del presidente e quello del vicepresidente), in buona parte utilizzati per investimenti immobiliari a Dubai. Una volta che la crisi dell’emirato si è propagata ci sono voluti pochi mesi per arrivare a far cadere anche l’ultima tessera del domino, appunto la banca afghana che è stata “nazionalizzata”.

Ma il caso della Kabul Bank è diventato un caso mondiale in un Paese che sta assorbendo milioni di dollari della comunità internazionale non donati per far arricchire la casta degli ex-signori della guerra ma per ricostruire il Paese e vincere “i cuori e le menti” degli afghani così da vincere la guerra.
E’ per questo che da mesi l’Imf, il fondo monetario internazionale, sta provando a raggiungere un accordo con il governo Karzai, in cambio di una nuova ondata di aiuti gli afghani devono vendere la Kabul Bank (che peserebbe per 500 milioni di dollari sulle case del governo) e rimettere mano al sistema creditizio. Senza il via libera dell’Imf, inoltre, molti Paesi donatori potrebbero non fornire altri fondi all’Afghanistan. L’ultima tornata di colloqui è fallita pochi giorni fa, ne ha riportato notizia il Financial Times che sta seguendo da mesi la vicenda.

Secondo il governatore della banca centrale afghana, Abdul Qadir Fitrat, di ben 315 milioni di dollari in prestiti sarebbe già garantito il rientro su un totale di 579, stime che molti però mettono in dubbio come la previsione che la banca possa tornare in profitto entro la fine dell’anno. Negli ultimi due mesi lo scandalo si è aggravato con  l’apertura di un’inchiesta (purtroppo da parte del procuratore generale, noto per i suoi stretti legami con Karzai) e nuovi nomi “pesanti” coinvolti nello scandalo.

La vicenda della Kabul Bank è emblematica: i soldi arrivano dall’occidente finiscono al governo Karzai (con le migliori delle intenzioni), governo che ora vorrebbe, anche con quei soldi, ripianare i buchi della banca, buchi creati dagli stessi membri del governo per i propri affari personali…Forse spiegata così suona meglio, no? Forse, perchè il punto è anche un altro: la corruzione indebolisce la credibilità del governo quindi rafforza la guerriglia quindi rende inutili gli sforzi bellici contro i talebani. E poi mi chiedo perchè più di qualche candidato alle parlamentari che ho incontrato a Kabul lavorarava per la Kabul Bank?

Parlamento addio!

Quando si parla di Afghanistan, l’affermazione del diritto di voto viene sempre sbandierata come un successo, uno dei pochi della presenza occidentale. E’ vero, salvo mille postille, asterischi, precisazioni che si dovrebbero aggiungere a dichiarazioni del genere. Purtroppo dal 23 gennaio in poi, potrebbe essere alquanto imbarazzante fare affermazioni del genere. Quel poco che è in piedi dell’impianto formale della democrazia afghana potrebbe definitivamente crollare. Ma andiamo con ordine.

A “soli” quattro mesi dal voto per le parlamentari, dopo una tormentata conta dei voti non meno tormentata di quella delle presidenziali di un anno fa (un terzo i suffragi cancellati per falsificazioni e brogli) , Hamid Karzai aveva convocato per il 20 gennaio la nuova assemblea, poi slittata al 23 per il suo viaggio in Russia. Era chiaramente una mossa tattica, del “gattopardo” dell’Arg (il palazzo presidenziale di Kabul ndr). Lo stesso Karzai mesi prima aveva coinvolto nella conta e controconta dei voti, nonchè nell’analisi dei reclami, il procuratore generale. Una mossa chiaramente illegittima e anticostituzionale, perchè spetta alla Ecc (la commissione per i reclami elettorali) occuparsi della validità del voto. Cosa che l’Ecc aveva fatto, ritrovandosi per giunta diversi suoi membri sotto inchiesta. Adesso la magistratura (quella che Karzai aveva coinvolto appunto) ha ordinato al presidente di rinviare di un altro mese l’insediamento del parlamento. Un ordine che il presidente ha accolto volentieri.

Qual è il problema? Karzai sta perdendo consenso nel Paese o meglio in quel ceto affaristico e di potere che ha dimostrato di controllare il consenso elettorale. Alle parlamentari ha visto molti dei suoi candidati esclusi, ha visto clamorose esclusioni nel sud, ovvero nella patria della sua etnia (che pur male rappresenta), quella pasthun, aree dove pur ha pesato sul voto l’assenza di sicurezza. Basta pensare che tutti gli eletti della provincia di Ghazni (i cui risultati sono stati proclamati per ultimi, vista la delicatezza del nodo da sciogliere) sono appartenenti alla minoritaria etnia hazarà. Il risultato finale è stato drammatico per il presidente che ha poco da temere dal Parlamento (grazie alla costituzione all’americana) ma che ha già ricevuto sgarbi dalla camera bassa per esempio sulla lista dei ministri del suo gabinetto.

Lo scenario che si profila adesso è quello di un annullamento delle elezioni o almeno è questo quello che vuole il procuratore generale. Se già a fine anno, le tensioni crescevano a Kabul, adesso c’è il rischio di arrivare al collasso. Domenica, i vincitori ufficiali insediamento il Parlamento, lo stesso. In un Paese dove gli equilibri sono sempre fragili non è improbabile ipotizzare nuove violenze. Inoltre con l’ulteriore crepa nella pericolante casa della democrazia afghana viene meno un altro pezzo della “mission” e della legittimazione della missione occidentale. A proposito gli occidentali? Beh, loro sono imbarazzatissimi…tutti (dall’Onu alla diplomazia occidentale) sanno benissimo che la mossa del presidente assomiglia molto ad un colpo di stato, felpato…come il passo di un gattopardo, appunto.

Ascesa e (mancata) caduta di Karzai

L’alleato di cui l’occidente non può fare a meno e che non può fare a meno di criticare. Ormai già da almeno due anni è questa l’immagine di Hamid Karzai ma i cablogrammi diplomatici riservati, diffusi da Wikileaks in una nuova ondata di rivelazioni, scolpiscono questa immagine con la spontaneità del linguaggio di chi scrive in segretezza. “Debole”, “Paraonico” sono solo alcuni degli aggettivi utilizzati per descrivere il presidente afghano.

Ma è la lettura cronologica dei dispacci diplomatici a colpire di più, la cronaca di un leader rispettato che aveva il privilegio di parlare ogni settimana con il presidente Bush diventato, man mano che la situazione precipitava in Afghanistan, invece un uomo inadeguato agli occhi dell’alleato americano. Incapace  Karzai, in primo luogo, di fermare la corruzione che prospera nel suo governo e si nutre dei finanziamenti occidentali. Dai cablogrammi emergono dettagli sul vicepresidente, il fratello di Massoud, trovato con oltre 50 milioni di dollari ad Abu Dhabi dove già questa estate erano stati trovati grossi investimenti immobiliari anche di uno dei fratelli di Karzai, da sempre accusato di essere un trafficante di droga – accusa ribadita nei dispacci.

Gli americani hanno perso sin’ora 1400 uomini in Afghanistan, oltre ottocento i caduti degli altri alleati internazionali compresi i 34 militari italiani morti in missione. Gli occidentali sanno bene che fin quando il governo sarà un oppressore, esattore di tangenti agli occhi ai danni cittadini afghani, questi non si schiereranno mai dalla sua parte e non sarà mai possibile vincere una già difficile guerra. Quello che non sanno è con chi sostituire Karzai.

Link a documenti e articoli:
New York Times – Corruzione
New York Times – Karzai
The Guardian – I 52 milioni di dollari del fratello di Massoud
L’archivio sui “cables” del Guardian
Il punto del Guardian su 5 giorni di rivelazioni

La guerra “prorogata”

Senza grandi clamori si sta consumando a Washington una svolta nella strategia afghana dell’amministrazione Obama che riguarderà, ovviamente, tutti gli alleati non solo le truppe americane. Se fossimo in Italia diremmo che la guerra è stata “prorogata”.

Quando Obama alla fine del 2009 aveva annunciato a West Point la sua “surge” afghana, l’aumento delle truppe americane in Afghanistan, aveva posto come data di inizio (e sottolineo inizio) del ritiro il luglio 2011. Una scelta onesta o politicamente ingenua, se volete, perchè il presidente avrebbe potuto scegliere una data successiva alla verifica elettorale, le presidenziali del 2012. Stupida secondo i Repubblicani e molti militari perchè poteva essere letta dai talebani come un “resistiamo per un anno e mezzo, tanto poi se ne vanno”. Alla conferenza di pace di Kabul del giugno scorso, Karzai però parla di forze di sicurezza afghane pronte a cavarsela da sole nel 2014, per la gioia di Petraeus. Ed ecco che lentamente nell’amministrazione Obama (visti anche gli scarsi progressi sul campo) si aggiorna il calendario, l’1 diventa 4 e si passa così al 2014. La svolta viene anticipata dal NY Times con questo articolo al quale segue l’anticipazione, pubblicata oggi, di un piano di passaggio dei compiti di sicurezza da truppe straniere ad ANA e ANP che verrà discusso nell’imminente summit di Lisbona. Se è la prima volta che il passaggio di consegne (requisito indispensabile per il ritiro) viene formalizzato e calendarizzato, si conferma in pratica che la guerra nella visione (inizialmente troppo ottimista, ora è certificato) di Obama durerà almeno fino al 2014. Tutto questo senza annunci, dirette televisive, titoloni. Sembra quasi che l’America sia sempre più contagiata dall’attitudine dei governi europei a stare in Afghanistan e far finta di non esserci.

Karzai e Petraeus. E’ su questo sfondo che l’altro grande quotidiano americano il Washington Post pubblica un’intervista a Karzai (qui il link) che ha fatto non poco arrabbiare il generale Petraeus (vedi qui le sue reazioni) chiedendo in pratica agli americani di ridurre l’intensità delle operazioni militari. In particolare, il presidente ha criticato i “night raids” che sono – per la verità – da sempre una delle attività che hanno scavato un solco tra la popolazione afghana e gli stranieri, che sfondano porte nel cuore della notte a caccia di talebani e spesso fanno vittime civili. C’è però da dire che i night raids negli ultimi mesi si sono fortemente concentrati sulla dirigenza talebana, in alcune aree letteralmente decimata, uno dei cambiamenti voluti da Petraeus (da qui la sua reazione negativa alle parole di Karzai). E’ chiaro che il presidente in un’intervista in buona parte condivisibile (se non avesse sbocchi irrealistici nell’Afghanistan di oggi) di fatto, visto anche il tempismo della sua uscita, manifesta la sua insofferenza per l’alleato americano e certifica come ormai i rapporti siano sempre più faticosi e poco recuperabili…insomma dalla vigilia della visita a Washington della primavera scorsa, poco è cambiato. Per non farci mancare niente, in un quadro sempre più complesso (all’afghana appunto), il mullah Omar si fa sentire e in un messaggio smentisce l’esistenza di colloqui di pace. Lo fa proprio all’inizio del periodo dell’haji, il pellegrinaggio a La Mecca, che già l’anno scorso era stata l’occasione per incontri tra il governo e i talebani. Perchè avremmo combattuto contro i russi, per lasciare posto agli americani? Si chiede il fondatore del movimento dei talib.