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Malali, gli assassini e i talebani stanchi

Malali Joya, la donna più coraggiosa (e più odiata) d’Afghanistan, ha scritto sul britannico The Guardian questa analisi della vicenda del “killing team”, la squadra della morte all’interno della Stryker Brigade, che ha ucciso almeno tre civili afghani per divertimento (per quanto orribile suoni messa così, è una cosa vera). Di questa vicenda si è tornato a parlare negli ultimi giorni sia perchè davanti al tribunale militare, uno dei sospettati si è dichiarato colpevole ottenendo uno sconto di pena e testimoniando contro gli altri assassini in divisa, sia perchè Rolling Stone (dopo alcune anticipazioni del tedesco Spiegel) ha pubblicato un vasto dossier con foto e video, una Abu Grahib in sedicesimo.

Malali, in coerenza con le sue posizioni, contesta la natura di episodio della vicenda, per lei è semplicemente la vera faccia dell’occupazione militare straniera a difesa del corrotto governo Karzai. Malalai sta tornando in America, dopo settimane di tiro alla fune con le autorità statunitensi che non volevano concederle il visto per l’ingresso nel Paese dove terrà un secondo giro di presentazione del suo libro. Ammiro Malalai, è una voce necessaria, e ho paura per la sua vita, ma non sempre condivido quello che dice. Per esempio, in questo editoriale ipotizza la terza via afghana, ovvero una rivoluzione in stile tunisino, purtroppo – secondo me – ancora lontana, perchè l’Afghanistan, a parte il boom demografico, non condivide con quei paesi fattori importanti come, per esempio, la disoccupazione intellettuale e l’alto livello d’istruzione. Lo dico non tanto per distanziarmi da Malalai ma perchè alla fine se la presenza militare straniera deve finire e finirà, continuo a non vedere un’alternativa afghana al peggio che gli afghani hanno saputo fare sin’ora, pur con la collaborazione occidentale.

Il New York Times, intanto, ci fa sapere che “anche i talebani piangono…” , l’articolo di Carlotta Gall descrive gli effetti della strategia Petraeus, ovvero colpire i capi talebani, decimarli. 900 quelli uccisi nell’ultimo anno, con la difficoltà di sostituirli con nuove reclute. Inoltre si racconta di un Pakistan sempre meno sicuro, tra attacchi dei droni, nuova linea del governo e intromissione dei servizi locali nelle trattative con il governo afghano. Persino di scontri interni che hanno portato all’uccisione di alcuni comandanti pare da parte di altri talebani. Dell’articolo mi convince soprattutto la parte in cui imputa a questo contesto, la svolta talebana di attaccare “soft target” come i centri reclute o gli uffici pubblici piuttosto che obiettivi militari. La conferma della portata di questa crisi talebana l’avremo solo a partire dalle prossime settimane quando comincerà la stagione dei combattimenti. A me però rimane il dubbio che, pur dando ottimisticamente per acquisita la vittoria militare, la soluzione del problema non sia solo questa. In altre parole azzerati i talebani chi resterà vittorioso al comando? Il corrotto regime Karzai, la terza (improbabile) via di Malalai o il caos?

La guerra “prorogata”

Senza grandi clamori si sta consumando a Washington una svolta nella strategia afghana dell’amministrazione Obama che riguarderà, ovviamente, tutti gli alleati non solo le truppe americane. Se fossimo in Italia diremmo che la guerra è stata “prorogata”.

Quando Obama alla fine del 2009 aveva annunciato a West Point la sua “surge” afghana, l’aumento delle truppe americane in Afghanistan, aveva posto come data di inizio (e sottolineo inizio) del ritiro il luglio 2011. Una scelta onesta o politicamente ingenua, se volete, perchè il presidente avrebbe potuto scegliere una data successiva alla verifica elettorale, le presidenziali del 2012. Stupida secondo i Repubblicani e molti militari perchè poteva essere letta dai talebani come un “resistiamo per un anno e mezzo, tanto poi se ne vanno”. Alla conferenza di pace di Kabul del giugno scorso, Karzai però parla di forze di sicurezza afghane pronte a cavarsela da sole nel 2014, per la gioia di Petraeus. Ed ecco che lentamente nell’amministrazione Obama (visti anche gli scarsi progressi sul campo) si aggiorna il calendario, l’1 diventa 4 e si passa così al 2014. La svolta viene anticipata dal NY Times con questo articolo al quale segue l’anticipazione, pubblicata oggi, di un piano di passaggio dei compiti di sicurezza da truppe straniere ad ANA e ANP che verrà discusso nell’imminente summit di Lisbona. Se è la prima volta che il passaggio di consegne (requisito indispensabile per il ritiro) viene formalizzato e calendarizzato, si conferma in pratica che la guerra nella visione (inizialmente troppo ottimista, ora è certificato) di Obama durerà almeno fino al 2014. Tutto questo senza annunci, dirette televisive, titoloni. Sembra quasi che l’America sia sempre più contagiata dall’attitudine dei governi europei a stare in Afghanistan e far finta di non esserci.

Karzai e Petraeus. E’ su questo sfondo che l’altro grande quotidiano americano il Washington Post pubblica un’intervista a Karzai (qui il link) che ha fatto non poco arrabbiare il generale Petraeus (vedi qui le sue reazioni) chiedendo in pratica agli americani di ridurre l’intensità delle operazioni militari. In particolare, il presidente ha criticato i “night raids” che sono – per la verità – da sempre una delle attività che hanno scavato un solco tra la popolazione afghana e gli stranieri, che sfondano porte nel cuore della notte a caccia di talebani e spesso fanno vittime civili. C’è però da dire che i night raids negli ultimi mesi si sono fortemente concentrati sulla dirigenza talebana, in alcune aree letteralmente decimata, uno dei cambiamenti voluti da Petraeus (da qui la sua reazione negativa alle parole di Karzai). E’ chiaro che il presidente in un’intervista in buona parte condivisibile (se non avesse sbocchi irrealistici nell’Afghanistan di oggi) di fatto, visto anche il tempismo della sua uscita, manifesta la sua insofferenza per l’alleato americano e certifica come ormai i rapporti siano sempre più faticosi e poco recuperabili…insomma dalla vigilia della visita a Washington della primavera scorsa, poco è cambiato. Per non farci mancare niente, in un quadro sempre più complesso (all’afghana appunto), il mullah Omar si fa sentire e in un messaggio smentisce l’esistenza di colloqui di pace. Lo fa proprio all’inizio del periodo dell’haji, il pellegrinaggio a La Mecca, che già l’anno scorso era stata l’occasione per incontri tra il governo e i talebani. Perchè avremmo combattuto contro i russi, per lasciare posto agli americani? Si chiede il fondatore del movimento dei talib.

Negoziati o colloqui di pace?

Tutto comincia qulalche settimana fa, il 27 settembre, quando il generale Petraeus durante un tour del carcere “per insurgent” di Parwan annuncia che ci sono contatti tra governo afghano e ribelli (qui la sintesi del NY Times). E’ il primo segnale del genere in mesi e dopo mesi dalla peace jirga, condita dai talebani “a mortaiate”. Ma la stamoa internazionale – questa la mia impressione -non prende troppo sul serio Petraeus, generale in attesa della “strategy review” di dicembre, interessato quindi a far sapere alla Casa Bianca che va tutto meglio magari per ottenere l’autorizzazione a tenere sul campo le truppe americane oltre la data dell’inizio ritiro, fissata da Obama per il 2011.

La settimana scorsa è il Washington Post, con questo articolo, ad aggiungere sostanza a quelle affermazioni. Il quotidiano statunitense rivela che a Kabul, Karzai sta tenendo incontri con i vertici talebani. Ma la notizia nella notizia è che per la prima volta in pratica, gli emissari della guerriglia sono autorizzati dalla shura di Quetta (cittadina pakistana…) ovvero dal governo talebano in esilio. Dall’indiscrezione su Karzai, passiamo alla conferma di Karzai medesimo che coglie l’occasione della presenza al più importante talk show del mondo, il Larry King Show della Cnn, per confermare che i colloqui questa volta ci sono un serioKarzai ha usato l’immagine del figliol prodigo o giù di lì: “They are like kids who have run away … from the family. The family should try to bring them back and give them better discipline and incorporate them back into their family and the society”. Però lo stesso Karzai ha precisato che si tratta di colloqui non ufficiali e che, comunque sia, toccherà al consiglio della pace (High Peace Council) entrato in carica pochi giorni fa, approfondire questi colloqui e trasformarli in negoziati.

La reazione americana è stata variegata, confermando in qualche modo l’idea che al di fuori del ristretto circolo del presidente si sappia molto poco del contenuto dei colloqui. L’inviato della Casa Bianca, Holbroke, ha ribadito la portata informale dei colloqui e ha sottolineato come si tratti più di “reintegrazione” che di “riconciliazione”, tradotto in lingua comune, il fenomeno consisterebbe sostanzialmente di leader militari che cercano personalmente una strada alternativa alla guerra. Inoltre in altre agenzie viene riportata l’opinion di Holbroke secondo cui tutto sommato si tratterebbe di un “trend mediatico del mese”, nulla più. Ma i rapporti tra Holbroke e Karzai sono notoriamente pessimi. Il segretario alla Difeda, Gates, sulla via di Bruxelles ai giornalisti ha detto che la coalizione a guida Nato in Afghanistan ha agevolato i colloqui garantendo un “passaggio sicuro” agli emissari ribelli (ovvero di non ammazzarli sulla strada di Kabul). Il generale Petraeus a Londra ha affermato che questo tipo di “salvacondotto” è stato garantito ad almeno un leader talebano.

Il consiglio per la pace, voluto dalla peace jirga di giugno a Kabul, è da pochi giorni in attività con i suoi sessant’otto membri ed il suo presidente, un uomo nuovo…Borhanuddin Rabbani! Capo di Jamiat-e Islami, partito che sarebbe poi diventato una delle principali fazioni mujaheddin, nonchè ex-presidente afghano tra il 92′ e il 96′ ovvero dopo il filo-sovietico Najibullah e prima della presa di Kabul da parte dei talebani. Un uomo perfetto per parlare con i talib, nota il raggruppamento politico di Abdullah. Interessante il profilo che ne traccia El mundo, in questo articolo segnalatomi dal collega Stefano Pizzetti. L’altro interlocutore al tavolo è il Pakistan che, ovviamente, vuole continuare a decidere del futuro dell’Afghanistan ed ha già fatto sapere che senza un suo ruolo non sono possibili trattative di pace, certo se arresta i leader in contatto con il governo – come ha fatto col mullah Baradar – all’inizio dell’anno, sarà difficile andare avanti. I talebani intanto hanno smentito di aver preso parte a colloqui di pace, ma potrebbe essere solo una mossa tattica. Intanto mi preme segnalare questa esclusiva Bbc dove si racconta come Al Qaida sia sempre più presente al fianco dei talebani. Un fatto non secondario perchè – ricordiamolo – la pace con Al Qaeda non è in agenda, il punto è la riconciliazione nazionale, afghani con afghani, proprio per riportare il Paese in equilibrio ed evitare che torni ad essere un rifugio per i terroristi. Anche il mullah Omar, secondo gli americani, deve essere escluso dai colloqui e dall’eventuale futura amnistia.

Il dubbio su tutta questa vicenda è la natura dei contatti, sono negoziati o solo colloqui di pace? Per ora sembra siano solo colloqui ovvero conversazioni preliminari, molto preliminari. L’entusiasmo che ho visto in qualche commento mi è sembra azzardato, la fine del conflitto non è dietro l’angolo. In Afghanistan le trattative iniziano (ed è un bene) ma non è detto che finiscano, che giungano ad una conclusione concreta. Il punto è anche militare. Gli americani sperano di spingere i talebani a trattare schiacciandoli militarmente o meglio facendo capire loro che questa guerra non può essere vinta da nessuna delle due parti in campo (ecco alcuni dati sullo sforzo bellico negli ultimi mesi). Il punto è che, nonostante l’aumento delle truppe, non si vedono grandi miglioramenti della situazione militare ma solo aumento dei caduti e i talebani potrebbero essere anche tentati dall’idea di resistere, del resto dalla loro parte hanno il vantaggio di essere a casa propria, con qualche problema logistico in meno rispetto agli stranieri. Infine le trattative riguardano leader ribelli ma non dobbiamo mai dimenticare che quelli che, per comodità mediatica, chiamiamo talebani, altro non sono che una galassia di gruppi anti-governativi, tra i quali anche i talebani. Siamo sicuri che siano stati avviati colloqui con tutti?

Afghanistan, ultima corsa

Domani si vota, i media di tutto il mondo sono in giro per l’Afghanistan o meglio in buona parte a Kabul e nel resto del paese al seguito dei militari occidentali, per lo più americani. L’atmosfera afghana è sempre più da “ultimo giro, ultima corsa”. Sarà il grigio che ci è calato addosso oggi dalle vette dell’Hindo Kush, sarà il fatto che le elezioni sono un momento catalizzatore. E’ l’ultima occasione per il governo Karzai di dimostrare che può rispettare la fiducia dei suoi cittadini, di chi magari rischia la vita per imbucare una scheda e non vuole vedersi scippare il voto da un broglio di terz’ordine come accaduto l’anno scorso alle presidenziali. Petraeus, fa sapere oggi il New York Times, vede segnali di miglioramento e sta rafforzando il suo rapporto col Presidente Obama. Ieri sera ho incontrato il capo della missione Onu in Afghanistan, l’italo-svedese Staffan De Mistura, che sembra aver ripreso in mano le redini di una presenza delle Nazioni Unite un po’ appannata. Mi è sembrato ottimista e fiducioso anche su alcuni punti critici, come per esempio la commissione per i reclami elettorali ridotta da Karzai a “cosa sua”. Dà l’impressione di aver riallacciato un canale di rapporti con gli afghani che è l’unico modo per ottenere delle garanzie in un Paese dove niente è mai come sembra anche quando lo metti nero su bianco.  Ho incontrato anche molti candidati che sembrano aver scoperto, grazie alla stampa digitale, la forza dei manifesti col “faccione”, che ormai tappezzano Kabul.

Vedo entusiasmo ma anche i soliti noti che non vogliono mollare e qualcuno magari manovrato da chi (Karzai, in primis, ed Abdullah dall’esterno) dovrà fare i conti con la nuova maggioranza parlamentare. Molti si sono buttati, fiutando il business della politica e finiranno con l’alimentare il fiume di migliaia di reclami post-elettorali. De Mistura ha abbassato la barra delle aspettative, si accontenta di una giornata del voto con un affluenza intorno ai 4 milioni, con pochi brogli (o almeno brogli su piccola scala) e un numero contenuto di incidenti. Anche oggi Karzai che ha incontrato un ristretto numero di testate internazionali nel suo blindatissimo palazzo (grazie presidente per l’attesa all’esterno!), ha detto che si aspetta irregolarità ma ha invitato il popolo a votare senza considerare il peso del potere o dei soldi dei candidati (compresi quelli arricchiti dai contratti della missione internazionale – la sua ormai immancabile frecciata antioccidentale del giorno).

I morti ammazzati di questa campagna (tra candidati e loro collaboratori) sono già 19, una decina i rapiti per quanto si è saputo nelle ultime ore. Domani sarà la giornata peggiore per l’Afghanistan nel suo peggiore anno dalla caduta dei talebani, ce lo dice la statistica non la sibilla cumana. Incidenti sono attesi in tutto il Paese, centinaia di seggi non apriranno perchè è impossibile proteggere gli elettori e le schede lasciate in bianco dagli assenti, finite l’altra volta votate dai funzionari governativi. I soldati dell’Isaf uccisi nel 2010, con le ultime vittime di questi giorni, sono 507, nel drammatico 2009 erano stati 521. Degli elettori che resteranno barricati in casa nell’est e nel sud sapremo poco, impossibile avventurarsi in quelle aree per i giornalisti, grazie ai talebani. Chissà se un giorno potremo andare a Kunar o nell’Helmand senza essere presi per spie, a raccontare le sofferenze di questo popolo che sta morendo dissanguato da trent’anni, una goccia al giorno

Diario minimo

Ho passato molte ore a leggere una parte, seppur minima, dell’enorme massa di informazioni messe ieri on line da wikileaks.org (qui il data base) con un’inedita collaborazione con tre diverse testate in altrettante giurisdizioni nazionali (per comprenderne il meccanismo si veda questo dettagliato articolo del Guardian) volta ad evitare che le “notizie” si perdessero in questo mare di file che, se stampati, probabilmente occuperebbero decine di scaffali.

La più importante delle rivelazioni contenute in questi documenti mi sembra essere quella sull’imprecisione della TaskForce 373 e sui dubbi di leggitimità sulla suo “scopo sociale” (uccidere capi talebani), per il resto è la conferma (“in the own words” dei militari) di tutta una serie di problemi e di fragilità, tutto sommato noti. Personalmente, tra quello che ho potuto leggere
mi ha molto colpito il diario “minimo” della guerra che emerge da molti di questi rapporti.  Si tratta di piccoli episodi, dai commenti sulla distribuzione di aiuti che entusiasma gli americani (convinti di poter ottenere il supporto della popolazione locale) allo stillicido di attacchi quotidiani che siano contro una scuola, una pattuglia di poliziotti afghani, un gruppo di guardaspalle di politici locali; i racconti dei tanti scontri a fuoco “minori” sino agli attacchi con razzi e colpi di mortaio contro le fob (basi operative avanzate) occidentali. E’ il racconto di una guerra la cui quotidianità, tra disattenzione dei media e le politiche propagandistiche degli uffici stampa militari, svanisce dalle cronache accessibili al pubblico. E’ così che alla gente (se volete ai contribuenti occidentali che questa missione pagano) non arriva che un racconto frammentario del conflitto; racconto che tocca i suoi picchi, sostanzialmente, in occasione di grandi massacri di civili, di vittime militari (soprattutto se della nazionalità di riferimento – quella di chi legge), di visite ufficiali di politici. Un problema generale di tutti i Paesi membri di questa missione (imbarazzante per troppi governi), problema che in un paese come l’Italia è particolarmente evidente. Lo è di meno in America – anche per la sua tradizione di cronaca militare. Anche per questo ho particolarmente apprezzato la scelta del New York Times di pubblicare una di queste storie minori, quella dell’outpost Keating (clicca qui per l’articolo) nell’inaccessibile provincia del Nuristan. Chiunque voglia capire che cosa sia la guerra in Afghanistan dovrebbe leggerlo. Personalmente, nei limiti dei mezzi dati, ho sempre provato a raccontare la guerra nella sua quotidianità, la vita ordinaria dei militari occidentali sul campo. Sono sempre stato convinto che siano queste storie “minori” molto più del giornalismo e dell’opinionismo militante (di ogni versante) a far capire alla gente che cosa sia davvero la missione Afghana e se valga la pena o meno di continuarla. Se navigate dentro i “war diaries” – magari alla caccia della grande notizia che per ora non sembra esserci – non trascurate questi brandelli di storie dal campo. Basta leggerne alcune per capire tutto.

Pietra Tombale

Sarà anche irresponsabile come dice la Casa Bianca pubblicare i 92mila documenti segreti come oggi hanno fatto il New York Times, Der Spiegel e il The Guardian, ma forse è ben più irresponsabile continuare a voler tenere il coperchio sulla pentola in ebollizione di una guerra che è sempre più ingestibile, arrivata com’è ai tempi supplementari, anche e soprattutto grazie alla magnifica strategia degli anni passati di Bush e Rumsfeld. Come è altrettanto irresponsabile, da parte delle fonti governative (americane e non), raccontare all’opinione pubblica internazionale che le cose vanno sì male ma poi non così male come invece si capisce, chiaramente, da questi documenti scritti dai militari in prima persona, ovvero da chi quella guerra combatte a rischio della proprio vita.
Soprattutto se si guarda alla scelta del New Times (ben descritta in questa nota ai lettori) di controllare in dettaglio i documenti, riscontrarne l’autenticità (che del resto il governo americano non mette assolutamente in dubbio in questi primi commenti) e soprattutto di non pubblicare dati sensibili ma non indispensabili a capire il contesto del “racconto” (come per esempio i nomi degli agenti segreti o degli uomini delle forze speciali che operano sul campo come quelli delle fonti afghane – proprio per non metterne in pericolo la vita) si capisce che poi di irresponsabile c’è ben poco.

I dati vengono dall’organizzazione wikileaks.com (vedi qui http://wardiary.wikileaks.org/) che in anticipo rispetto alla pubblicazione di oggi, qualche settimana fa, li ha forniti alle tre testate internazionali – proprio per consentire loro la rielaborazione giornalistica di materiali altrimenti indigesti per la loro enorme mole; farebbero parte dello stock di dati classificati trafugati da un giovane militare americano (attualmente agli arresti in Kuwait, per quanto se ne sa) servendosi semplicemente di un finto cd musicale (in realtà un disco riscrivibile). Dati poi passati – come il video del massacro iracheno dei due giornalisti Reuters e di diversi civili – proprio a wikileaks.org
A proposito se vi trovare a Londra, martedì 27 il fondatore dell’organizzazione sarà ospite del FrontLine Club per una conferenza che si preannuncia interessante. Julian Assange è stato per mesi in fuga in giro per il mondo, proprio per prepare la diffusione di questi documenti e di un’altra vasta quantità dei quali non si sa ancora nulla.

Non ho avuto ancora il tempo di leggere nel dettaglio almeno una parte dei documenti, delle fonti originali (che riserveranno probabilmente anche qualche commento e qualche notizia sull’attività dei militari italiani), ma le sintesi giornalistiche (qui il dossier del NY Times, qui quello del The Guardian, e quello di Der Spiegel – purtroppo per me solo in tedesco) sono molto interessanti ed utili per navigare nel mare magnum di questi rapporti classificati. Sostanzialmente, i filoni delle”rivelazioni” sono quattro e riguardano tutti i punti criciti della guerra in Afghanistan: le vittime civili; l’utilizzo modello far west delle forze speciali; il ruolo dei servizi segreti Pakistan; la guerra delle ied. A prescindere dal racconto che ne emerge (perchè a tratti si legge come un racconto fatto da inconsapevoli protagonisti) queste rivelazioni potrebbero essere ricordate più che per quello che rappresentano di per sè, come un colpo al governo americano già alle prese con non pochi problemi interni. Ovvero come una pietra tombale sull’idea che questa guerra si possa raddrizzare o come ritiene il generale Petraeus che la dottirna McChrystal sia sì buona ma applicata male sin’ora.
Resta ovviamente l’interrogativo sul che fare in Afghanistan, ma leggo in giro (come sul Financial Times di qualche giorno fa) che iniziano ad emergere soluzioni fantasiose come la scissione del sud, elemento base di un costituendo Pashtunistan. La confusione mi sembra essere l’unica certezza, ora che – applicata seppur parzialmente la nuova strategia di Obama – la situazione peggiora invece che migliorare e non c’è più nemmeno la speranza di un anno fa, ovvero che le nuove direttive, le nuove idee potessero capovolgere il quadro del conflitto.

Pietre (e teste) rotolanti

Sembra un dejavù, eppure è tutto vero. Era circa un anno fa quando dalla Casa Bianca arrivava la scelta di fare fuori il capo della missione militare in Afghanistan, il generale McKiernan dopo l’ennesima strage di civili (avvenuta nell’italiano comando di nord-ovest). Obama voleva cambiare pagina, voleva persone nuove al comando capaci di dare un segno di discontinuità e attuare una nuove strategia per l’Afghanistan, la sua – quella sbandierata in campagna elettorale. Ecco perchè decise di fare come Truman durante la guerra di Corea e sostituì, senza troppi complimenti, McKiernan con McChrystal (vedi qui). Oggi, tredici mesi dopo, è McChrystal ad essere rimosso o meglio a vedere accolte “le sue dimissioni”. Eccole nella lettera che il comando Isaf da Kabul si è affrettato a distribuire nel rispetto della forma ma di fronte ad una sostanza che è ben diversa:

Statement by General Stanley McChrystal

This morning the President accepted my resignation as Commander of U.S. and NATO Coalition Forces in Afghanistan. I strongly support the President’s strategy in Afghanistan and am deeply committed to our coalition forces, our partner nations, and the Afghan people. It was out of respect for this commitment — and a desire to see the mission succeed — that I tendered my resignation.

It has been my privilege and honor to lead our nation’s finest.

Il motivo della cacciata di McChrystal, che probabilmente lo porterà alla pensione visto che la sua carriera militare è virtualmente finita, è  in questo articolo (The Runaway General) pubblicato il 22 giugno dal magazine americano “Rolling Stones” dopo un mese trascorso al seguito del generale da Michael Hasting (suo il non-imperdibile libro autobiografico I Lost My Love in Baghdad: A Modern War Story). Un articolo che ha il merito di mettere tra virgolette, ovvero con citazioni testuali, le tensioni nel vertice che dovrebbe governare la strategia afghana alias le già note e/o sospettate tensioni tra McChrystal e il vicepresidente Biden, l’ambasciatore americano Eikenberger e Holbroke l’inviato di Obama per l’area Af-Pak. Cose intuite e intuibili da mesi ma è tutta un’altra storia leggerle in questa esclusiva corrispondenza dall’interno del ristretto gruppo di lavoro del generale più potente del mondo (ormai ex). Senza considerare l’aggiunta delle critiche al presidente (“comandante in capo” di tutti i militari americani, McChrystal incluso). I modi spicci e le frasi dove “shit” diventa il sinonimo pressochè di qualsiasi cosa, fanno parte della cultura dalla quale proviene McChrystal – quella delle forze speciali e – francamente – non mi fanno molta impressione anche se hanno sollevato il grosso del clamore negli Stati Uniti molto attenti alla forma quando è sinonimo di disciplina. Il punto critico dell’intera vicenda, a mio avviso, è quello di un quadro dove la Casa Bianca e i suoi uomini sono ridotti a controfigure (ben al di là dell’immaginabile) e “tutto il potere” è finito nelle mani di un solo uomo che lo utilizza con la spregiudicatezza di una “special op forces” ma senza la statura istituzionale dovuta alla gravità del caso.
Inattesa (vedi per esempio qui tra gli articoli della vigilia) ma inevitabile la rimozione di McChrystal da parte di un presidente mai apparso così debole (complice il caso BP e le passeggiate solitarie sulle spiagge del Golfo). Il punto però adesso è un altro ovvero cosa sarà della strategia afghana di McChrystal? Obama si è affrettato a dire che non cambierà (vedi qui) ma McChrystal non ha solo comandato la missione afghana come accaduto ai suoi predecessori, l’ha anche profondamente rimodellata nel bene e nel male. Per esempio, aumentando la presenza sul territorio e quindi i combattimenti, restringendo in maniera estrema le norme sui bombardamenti aerei e mettendo al centro di ogni azione, il ruolo della popolazione locale. Insomma, la sostituzione di McChrystal non è cosa facile anche se non è di certo di basso profilo la scelta del suo sostituto, il generale Petraeus, il re delle flessioni risbattuto da Tampa, Florida, nel mezzo di un nuovo caos come quello afghano ben diverso dal conflitto iracheno da cui era uscito “vincitore”. Petraeus è in parte ispiratore della strategia di McChrystal ma non sarà facile per lui indossare un abito su misura, cucito per qualcun altro. Tutto ciò non farà altro che sottrarre tempo a scelte cruciali che dovranno essere prese a breve, a cominciare da una valutazione obiettiva di questi mesi di aumento delle truppe e della presenza militare straniera, voluta proprio da McChrystal e in qualche modo estorta alla Casa Bianca con la vicenda di quel rapporto segreto del generale recapitato al Washington Post – vicenda che oggi assume tutto un altro valore.

La maledizione dell’Afghanistan sembra colpire ancora, qualunque Paese straniero si ritrova impegnato in quel Paese finisce con il ritrovarsi destabilizzato al suo interno

Un’ultima osservazione, il lungo articolo di RS merita di essere letto anche perchè racconta aspetti sin’ora inediti del personaggio McChrystal, della cui carriera si sa molto poco; carriera solitamente aggettivata come shady – per via del suo ruolo al vertice delle forze speciali – è in buona parte coperta da quello che in Italia chiameremmo segreto di Stato.

Almeno un’altra settimana di guerra a Marja…Ma è solo l’inizio

Mine ed IED da disinnescare, cecchini da eliminare, case da perquisire, bunker da far saltare, covi talebani (soprattutto nella parte sud della città) da bonificare…Il tutto a ritmi necessariamente lentissimi per cui a Marja si combatterà almeno per un’altra settimana. Lo sostiene il generale Lawrence D. Nicholson, che comanda la 2nd Marine Expeditionary Brigade in questa corrispondenza del Washington Post. Sin’ora a morire, secondo fonti militari, sarebbero stati 12 militari Nato (di questi, otto marines), centinaia di guerriglieri e almeno 14 civili ma la “ripresa” della città è ancora lontano e non è detto che una volta “ripulita” un’area infestata dai talebani non si apra uno stillicidio in stile iracheno di attacchi urbani su piccola scala (interessante al riguardo questo articolo di RFE). Squadre di cecchini dei marines sono state infiltrate dietro le “linee” talebane a Marja proprio per agevolare l’ingresso nella parte sud della città mentre quella nord inizia lentamente a ripopolarsi (si sta lavorando per creare una “bolla di sicurezza” via via sempre più ampia).
Ovviamente quando cesseranno i combattimenti, inizierà la vera battaglia…quella per conquistare il supporto della popolazione locale e mostrare loro che conviene stare dalla parte del governo Karzai. E più passa il tempo, più i civili rimangono in ostaggio di una battaglia che non li appartiene, più sarà difficile convincerli che ne è valsa la pena.


Marja non è che l’inizio
, questo era chiaro da tempo ma il generale Petraeus (l’uomo dell’Iraq “pacificato”, l’ispiratore di McCrhystal e della strategia aghana di Obama) oggi a “Meet the Press” della Nbc ha spiegato come dopo la città dell’Helmand (dove tra l’altro ipotizza un mese di tempo per renderla completamente sicura) toccherà ad altre roccaforti talebane (anche nell’italiana Farah quindi?), in una campagna che durerà dai 12 ai 18 mesi (la Bbc ha una buona sintesi dell’intervista). Pare certo che il prossimo bersaglio sarà Kandahar, la capitale spirituale dei talebani.

Un commando al comando

“Fresh eyes”, una nuova visione, la formula è la stessa usata per la sostituzione di Ronald Rumsfeld con Robert Gates, questa volta il riconfermato Gates la usa per mandare a casa il Generale McKiernan, capo di Isaf e delle forze americane in Afghanistan (che operano anche sotto le insegne di una sorta di “coalizione” alle dirette dipendenze di Washington). La mossa radicale arriva dopo la strage di Farah che ( nonostante i militari non vogliano scendere nel dettaglio del bilancio delle vittime) verrà ricordata come la peggior strage di vittime innocenti della cacciata dei talebani e che non poco imbarazzo ha creato a Washington. Ma è probabile che si stata decisa ben prima, il generale Petraeus pare non gradisse l’approccio di McKiernan alla nuova strategia americana che pure si basava su quello che lo stesso McKiernan aveva chiesto, ovvero nuove truppe. Al riguardo il Washington Post riferisce indiscrezioni sul malcontento creato dal troppo timido esperimento delle milizie tribali nella provincia di Wardak.
C’è da dire che McKiernan aveva stabilito l’anno scorso aveva ristretto le possibilità di chiedere supporto aereo e aveva stabilito che fossero le truppe afghane a “guidare” i raid nelle abitazioni. E che il generale che l’ha sostituito non potrà risolvere il problema senza un radicale (quanto per certi versi impossibile) ripensamento della strategia. Secondo le Nazioni Unite nel 2008, le truppe straniere e l’esercito afghano hanno ucciso 828 civili, un terzo in più del 2007, di questi 552 per colpa di attacchi aerei. Il punto è che “call in an airstrike”, richiedere il supporto aereo, è l’unico modo che un numero di unità ridotte, inadeguate rispetto alla vastità del terreno ed alle sue caratteristiche, ha per ridurre/evitare le proprie perdite e provare ad infliggerne ad un nemico che colpisce a distanza. Ci sono soldati finiti in molti conflitti a fuoco ma che mai hanno visto un talebano in faccia. In altre parole, è difficile che vengano ridotti gli airstrike in Afghanistan.

La cacciata di McKiernan (ben descritta in questo servizio della BBC) ovvero del comandante di un “teatro” in “teatro” (al alvoro da soli 11 mesi sui circa 24 previsti) ha pochissimi precedenti nella storia militare americana (l’unico citato è quello della guerra di Corea) ed è stata una mossa altamente mediatica.

La scelta del Generale Stanley A. McChrystal non risolverà in automatico il problema, certo potrebbe essere una svolta analoga all’arrivo di Petraeus in Iraq, ma – ripeto – è molto difficile che si rinunci al supporto aereo e quindi è difficile che cessino le vittime civili. McChrystal dalla sua ha però un punto di forza (vedi la sua biografia sul NYTimes), è stato cioè a capo del JSOC, ovvero del comando unificato delle operazioni speciali, e responsabile in Iraq delle operazioni delle truppe di elite. In particolare McChrystal ha il brevetto di Ranger ed è un Berretto Verde, in altre parola ha quelle conoscenze e il rango per poter riorganizzare il lavoro delle forze speciali che sono indispensabili in Afghanistan ma che allo stesso tempo hanno sin’ora utilizzato tecniche spesso discusse, in particolare negli attacchi notturni a case e villaggi.

L’innovazione che dovrebbe venire da McChrystal è  un po’ un uovo di colombo, ovvero assegnare un gruppo scelto di ufficiali (circa 400) all’Afghanistan con turni nel paese ma con continuità di lavoro anche in patria, questo per fare in modo (finalmente) che quando si siano consolidati la conoscenza sul campo e i rapporti con gli afghani (militari, autorità locali, ecc. ecc.) questo patrimonio di conoscenza non finisca buttato via perchè è finita la missione di chi l’ha accumulato.

McChrystal è però stato coinvolto nello scandalo di Pat Tillman (vedi l’archivio di questo blog) ovvero delle falsificazioni seguite alle morte del campione di football diventato soldato e (come ricorda il Guardian) è stato messo sotto pressione dalla politica per i metodi utilizzati con i prigionieri delle forze speciali. Su tutta la vicenda mi sembra comunque interessante la lettura di questo blog di istruttori militari americani in Afghanistan.

La “surge” di Obama e quella italiana

A lungo attesa (ed annunciata) è arrivata la decisione di Obama sull’incremento delle truppe in Afghanistan. I numeri non si discostano di molto dalle attese. In breve, dovrebbero partire 8000 marines da Camp Lejeune, North Carolina, e 4000 militari dell’esercito (Fort Lewis, Washington). Successivamente dovrebbero arrivare altri 5000 soldati (truppe di supporto) per portare a quota 17mila questa prima tranche della “surge” in versione Obama, in tempo per la “tradizionale” offensiva di primavera.

“Surge”, letteralmente ondata/impeto,  è il sostantivo utilizzato per indicare l’aumento  delle truppe voluto da Bush in Iraq, Obama sta completamente cambiando il “vocabolario” della politica estera e militare americana (anche la definizione-madre “war on the terror” è destinata alla pensione) e quindi la parola “surge” non è stata utilizzata dal Presidente ma è difficile non riprenderla visto che, tra l’altro il regista è lo stesso, il generale Petraeus. Sulla continuità tra le due presidenze nella lotta ad Al Qaeda & Co. vedi questo articolo del New York Times.

I numeri. In totale 36mila militari americani sono già in Afghanistan, con questa decisione in pratica li si aumenta del 50%, ma l’obiettivo della Casa Bianca è arrivare al raddoppio del contingente attuale ma le decisioni successive arriveranno dopo la revisione della strategia afghana attualmente in corso (strategia che dovrebbe essere condivisa con gli alleati al summit Nato in Aprile). Nel comunicato che annuncia la decisione Obama scrive: 
“This increase is necessary to stabilize a deteriorating situation in Afghanistan, which has not received the strategic attention, direction and resources it urgently requires”.  Chiaro riferimento agli errori di Bush e alla guerra in Iraq che ha indebolito lo sforzo in Afghanistan. Obama ha chiarito alcuni aspetti della sua scelta in un’intervista rilasciata poco dopo alla tv canadese Cbc (qui la sintesi della Cnn).

Altri italiani in Afghanistan? La Russa possibilista. Il primo elemento concreto che arriva dopo la telefonata Obama-Berlusconi e le indiscrezioni sull’aumento dei militari italiani in Afghanistan, è costituito dalle dichiarazioni del Ministro La Russa che pure al summit di Monaco era apparso scettico al riguardo. Secondo il Ministro, il governo potrebbe sottoporre al Parlamento un “eventuale e temporaneo” rinforzo del contigente militare italiano in vista delle elezioni.