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Corrispondenze Afghane – Il libro

Il mio prossimo libro sull’Afghanistan è pronto e sta per essere spedito a chi lo ha preacquistato mentre si prepara un lungo book tour in giro per l’Italia (qui per le prima date). Nell’attesa che arrivino le prime copie dalla tipografia vi anticipo il titolo e altre informazioni utili:


CORRISPONDENZE AFGHANE
Storie e persone in una guerra dimenticata Continua a leggere “Corrispondenze Afghane – Il libro”

Il mio zaino

Tasmanian tiger
Durante i seminari di Mojo Italia si sono ripetute le domande sul tema dello “zaino” cioè dell’attrezzatura da usare sul campo, quale usare (evitando di portarsi dietro troppo o troppo poco), come trasportala e come renderla immediatamente accessibile in un lavoro dove pochi secondi possono fare la differenza. Continua a leggere “Il mio zaino”

Grecia: via la troika, resta la crisi

Poco meno di tre anni dopo il mio ultimo viaggio, sono tornato in Grecia perchè il governo aveva appena annunciato l’accordo per la fine del commissariamento internazionale, in pratica dal 21 agosto Atene riprenderà la propria sovranità contabile, lasciandosi alle spalle le richieste di Fondo Monetario Internazionale, Unione Europea e Banca Centrale Europea.
Ma come stanno davvero le cose del Paese? I numeri sono migliorati ma dieci anni di crisi e otto anni di troika hanno lasciato il segno, a pagare sono – come sempre – gli ultimi.
Il mio racconto in questi pezzi realizzati per il Tg3 (i link rimandano alla pagina FaceBook della testata):

Il giornale dei giornalisti

Prezzi di mercato

Case confiscate

Stato di Salute

Lascio la città

Il boom del turismo e il rovescio della medaglia

La più grande privatizzazione, il Pireo

In finale al premio Luchetta

Buone notizie! Con un mio lavoro sulla crisi dei Rohingya, sono in finale al premio dedicato alla memoria dei colleghi Marco Luchetta, Alessandro Ota e Dario D’Angelo, morti a Mostar mentre facevano il loro lavoro, e di Miran Hrovatin, assassinato a Mogadiscio assieme alla collega Ilaria Alpi.
È la seconda volta in tre anni.
Sono soddisfazioni che ti ripagano delle difficoltà del fare il giornalista in Italia senza sponsor, amici e parenti.
Grazie all’organizzazione del Premio, una realtà seria dove la qualità del giornalismo e non le passerelle restano in primo piano anche in questi anni difficili per l’informazione. Grazie Trieste!

Dove c’era la giungla

 

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Il porto più sorvegliato del mondo

Per rivedere il mio speciale “Dove c’era la Giungla” andato in onda il 18 febbraio su RaiTre, clicca qui.

Su Facebook potete trovare i pezzi andati in onda al Tg3, eccoli:

Grand Synthe, l’altra (diversa) Calais

Gli angeli di Calais, i volontari

La sicurezza che non basta mai

Fango, Pietre, Lacrimogeni

Calais, andata via la jungla i migranti restano

 

Rohingya, reportage


Ecco i miei servizi per il Tg3 sulla crisi dei profughi rohingya (i link portano alla pagina FaceBook della testata):

Una storia di disperazione e di accoglienza – Dal Tg3 del 27 novembre 2017

Abdus, il profugo più anziano – Dal Tg3 del 26 novembre 2017

Registrare i profughi per rimpatriarli – Dal Tg3 del 25 novembre 2017

I bambini da vittime a possibili “prede” – Dal Tg3 del 23 novembre 2017

Emergenza Sanitaria nei campi – Dal Tg3 del 22 novembre 2017

Continuano gli arrivi – Dal Tg3 del 21 novembre

File e attesa – Dal Tg3 del 19 novembre

“Orrori che non avrei mai dovuto vedere” i bimbi rohingya. Dal Tg3 del 18 novembre

L’uomo che aiuta a riunire le famiglie – Dal Tg3 del 17 novembre

Lo stupro come arma nella pulizia etnica – Dal Tg3 del 16 novembre

In fila per un pugno di riso – Dal Tg3 del 15 novembre

Extra: lo slide show delle mie foto dai campi profughi

Rohingya, un crisi per immagini

 

In queste immagini, la crisi dei rohingya per come l’ho vista io sul campo nelle ultime due settimane o almeno per come l’ho “fissata” in quei momenti in cui ho avuto la prontezza e il tempo per scattare una foto.
Il dramma dei rohingya è talmente vasto che diventa persino difficile “esaurirlo” in un racconto unico, per quanto si possa ricercare una sintesi. E’ l’estensione della crisi e la velocità con cui si è sviluppata a rendere l’esodo dei rohingya un evento, catastroficamente, unico.

A passare il confine con il Bangladesh, in poche settimane, sono stati seicentomila profughi in fuga dalla pulizia etnica (c’è chi la chiama genocidio) condotta dagli estremisti buddisti e dall’esercito del Myanmar; pulizia etnica cominciata dopo gli attacchi del 25 agosto dell’ARSA – una piccola formazione di guerriglia rohingya – contro l’esercito.
L’ARSA ha fornito una scusa buona e molto “contemporanea” (la “lotta al terrorismo”) all’esercito per avviare l’ennesima ondata di violenze – stupri di gruppo, esecuzioni, tecniche di “terra bruciata” nei villaggi – contro quella viene ritenuta la minoranza più perseguitata della Terra. Sono mussulmani a cui dal 1982 è stata tolta la cittadinanza, vengono trattati come immigrati clandestini nella terra in cui sono nati. La parola “rohingya” non viene nemmeno riconosciuta nel lessico del Myanmar, infatti nei vari documenti ufficiali di questi giorni – per esempio quello sul presunto “rimpatrio”, siglato da Bangladesh e Myanmar – il termine non compare.
In Myanmar, vengono genericamente definiti come persone di “razza bengalese”.

In memoria di Gianfranco

Gianfranco se n’è andato senza fare rumore, come nel suo stile. Aveva 57 anni e da tre lottava con i postumi di una grave malattia. Ieri, 21 settembre, nell’affollata chiesa di Sant’Andrea a Savigliano (Cuneo), dove Gianfranco era nato, gli è stato tributato l’ultimo saluto.
La famiglia mi ha dato l’onore di portare un breve ricordo di Gianfranco che con me ha condiviso tante tra quelle che burocraticamente in Rai chiamiamo “trasferte” ma che spesso sono delle avventure durante le quali fai i conti con la morte.
Gianfranco per me è sempre stato una persona speciale perché era capace di enormi sforzi fisici, come quando in Afghanistan si trascinava dietro 30 chili d’attrezzatura, ma poi riusciva ad esprimere con il suo obiettivo una straordinaria umanità e sensibilità nel raccontare il dramma di conflitti e popoli che soffrono.
Nonostante ciò Gianfranco era un taciturno, schivo, modesto, umile. Faceva sembrare tutto quello che realizzava come una cosa normale quando era esattamente il contrario. Quando perse parte dell’udito da un orecchio durante l’ingresso dell’Alleanza del Nord a Kabul nel 2001, per via di una mitragliatrice che cominciò a sparare all’improvviso, non fece nemmeno la pratica per infortunio sul lavoro; la cosa avrebbe interrotto la trasferta e quindi il suo lavoro.
Pochi lo sanno ma Gianfranco è entrato in Rai dalla porta secondaria, lavorare al centro Rai di Torino ma non si occupava di comunicazione, faceva altro, un’occupazione umile, di quella che ti fa vedere da vicino i “miti” del giornalismo e della tv ma ben sapendo che sono cosa diversa da te e dal tuo mondo.
Con la sua enorme determinazione, Gianfranco quella barriera l’ha saltata ed ha “rubato” il mestiere con gli occhi fino a diventare uno dei più bravi telecineoperatori della Rai anzi della storia del giornalismo televisivo italiano.
Con lui abbiamo vinto nel 2008, il premio Alpi per il nostro pezzo “battaglia a Korengal”. Di lui parlo spesso nel mio libro sull’Afghanistan perchè a Gianfranco piaceva ridere della morte, quella che più volte ci era stata addosso. Guardava alle avversità con il sorriso, con un certo senso di sfida che gli bruciava dentro. I suoi silenzi non lo aiutavano, non era un uomo di pubbliche relazioni, ma la telecamera gli consentiva di esprimere tutta la sua ricchezza umana.
Quando si va in guerra insieme, si diventa fratelli. Sembra una banalità ma è forse l’unica cosa vera nel grande imbroglio che sono le guerre.
Chi non c’è passato non può capire quanto difficile sia fare il lavoro di raccontare (e di farlo con garbo, con rispetto, con accuratezza) tra centinaia di migliaia di profughi, in mezzo ad un’imboscata, camminando tra i resti dei cadaveri di un autobomba.
Sono momenti in cui, non ci si può nascondere: emerge quello che sei per davvero. Sono momenti in cui emerge il tuo desiderio di rinunciare a tutto, in primo luogo a te stesso, pur di raccontare, di testimoniare.
Per questo oggi fatico a trovare le parole. Quello che ho scritto sinora  mi sembra inadeguato, quello che ho detto in Chiesa mi è sembrato poco, incompleto.
Gianfranco era una grande persona prima che un grande giornalista.
Per il gioco di un destino imbroglione, ha rischiato in morire a migliaia di chilometri da casa ma è venuto meno nel suo letto a Savigliano, con intorno l’amore dei suoi familiari e di chi gli voleva davvero bene. Era così forte che tre anni fa era sopravvissuto a quella brutta malattia che non risparmia nove persone su dieci, nel primo mese. La sua tempra gli ha fatto vincere anche quella battaglia ma poi ha dovuto affrontare lunghe e ingiuste sofferenze. Egoisticamente ho sempre pensato che ci avesse voluto dare la possibilità di salutarlo piuttosto che andare all’improvviso. Almeno ha avuto la gioia di baciare il suo primo nipotino.
Di lui resta un enorme patrimonio di immagini. Nei telegiornali “maciniamo” pezzi facendo cronaca che oggi è racconto del quotidiano. E’ il nostro lavoro. Ma, con il passare degli anni, quei “pezzi” diventano testimonianza della Storia.
Spero si possa trovare il modo di raccogliere il suo lavoro per testimoniare come l’amore per il giornalismo faccia sempre la differenza. Raccontare invece fino in fondo Gianfranco come persona, sarà invece impossibile perché – come sta capitando anche a me ora – non si troverebbero parole a sufficienza.