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La morte in appalto

Nel 2011 in Afghanistan sono morti più “contractors” al servizio del governo americano che soldati con la bandiera a stelle e strisce sul braccio. 430 contro 418, nell’algebra della morte. Non era mai accaduto prima – come rivela oggi il New York Times in un’inchiesta che ha un forte valore giornalistico, per un motivo molto banale: le forze armate statunitensi hanno il dovere di comunicare le proprie vittime, obbligo che invece non ricade sulle società private e quindi sui “contractors”. Infatti i numeri raccolti dal quotidiano di New York attraverso varie fonti (attraverso l’equivalente del nostro Ministero del lavoro) vengono considerati sotto-stimati dallo stesso autore del reportage.

C’è da fare chiarezza su un punto. Tra ideologismi sui mercenari “sporchi e cattivi” e anglismi amati in particolare da chi non conosce l’inglese, il termine contractor è stato usato in questi anni in maniera assolutamente impropria: come sinonimo di guardia o soldato privato. In realtà il fenomeno dei contractor per le forze armate è ormai a 360 gradi senza considerare – a livello linguistico – che se negli Stati Uniti vuoi rifare un bagno di solito non chiami un plummer (un idraulico) ma dei contractors…ovvero un gruppo di lavoratori a cui appaltare quel lavoro (nell’esempio un idraulico, un muratore, un piastrellista).

Ormai le forze armate americane dipendono profondamente dall’apporto di quelli che in Italia più semplicemente definiremmo “appalti” (esattamente come dovremmo definire il grosso dei security contractor come mercenari) che si tratti di mense, di logistica come di scorte o altri lavori più strettamente legati alle operazioni di guerra.
Rispetto ai 90mila soldati americani dispiegati in Afghanistan, nel Paese ci sono 113,491 “contractors” (il 22% dei quali sono americani, il 47% afghani, il 31% di altre nazionalità).

I dati del New York Times dimostrano come una delle aziende (la Supreme Group) che ha avuto più caduti nei dieci anni di guerra afghani si occupi di catering, di mense appunto. Se la L-3 – un’altra azienda privata al servizio del Ministero alla Difesa – fosse un Paese, sarebbe il terzo dopo Stati Uniti e Gran Bretagna per numero di caduti in Afghanistan come in Iraq.

A proposito, oggi, in Afghanistan si è schiantato un elicottero: quattro le vittime, tutti di nazionalità tagika, anche loro al servizio dell’Isaf. Trasportavano rifornimenti e acqua per le truppe.
E’ la morte in appalto: un modo per esternalizzare il tributo di sangue di un conflitto e disperderlo in mille rivoli. Ruscelli che poco peso hanno sulle pagine dei giornali e quindi sull’opinione pubblica  rispetto ai numeri militari scolpiti sul marmo delle lapidi incornociate dalle corone di Stato.

La nuova paura afghana

E’ un mosaico indecifrabile l’Afghanistan e la tessera che si è aggiunta oggi rende il quadro ancora più complesso da capire. E’ una tessera che fa paura, si chiama scontro settario ovvero violenza inter-religiosa.
Dello scontro tra etnie (tagiki contro pashtun, principalmente) l’Afghanistan sa purtroppo molto ma – al contrario dell’Iraq e in parte del Pakistan – non ha conosciuto nella sua storia recente scontri tra sunniti e sciiti.
La confessione minoritaria mussulmana è diffusa prevelantemente tra le fila dell’etnia hazarà in Afghanistan, un’etnia che quando ha subito rappresaglie (e ne ha sofferte di orrende) le ha subite perchè etnia, non in quanto comunità religiosa.

Stamattina a Kabul si è aperto un altro scenario. I pellegrini sciiti stavano entrando nella moschea vicino al fiume quando un kamikaze mescolato alla folla si è fatto esplodere. Il bilancio parla di più di cento feriti e di oltre di cinquanta vittime. Una strage tra le peggiori per Kabul in questi ultimi dieci anni.
Quasi in contemporanea stamane una bici bomba esplodeva nei pressi di una moschea a Mazar-i-Sharif, nel nord, facendo almeno quattro le vittime. Un altro attentato a Kandahar, nelle stesse ore, pare non fosse legato alle celebrazioni sciite.

Oggi abbiamo assistito non solo alla smentita ma addirittura alla (incredibile!) condanna dei talebani che attraverso il loro portavoce hanno preso le distanze dagli attentatori.
Inedita la rivendicazione arrivata da un gruppo anti-sciita pakistano.
Se alle violenze anti-governative, quelle legate al narco-traffico, dovessero aggiungersi quelle settarie davvero sarebbe difficile persino pronunciare la parola Afghanistan si farebbe prima a chiamarlo “inferno”.

Un messaggio, questo di oggi, che arriva dritto alla Conferenza di Bonn dove non si è parlato di pace (per via del boicottaggio pakistano in polemica con gli Usa) ma dove i paesi donatori hanno garantito che sosterranno il governo di Kabul anche dopo il 2014 ovvero dopo il ritiro delle truppe, con aiuti finanziari.
Obiettivo: evitare l’effetto Najibullah. Ritiratisi i sovietici, crollato l’Urss, chiuso il rubinetto dei fondi da Mosca, l’apparato statale afghano si trasformò in macerie spalancando la porta alla guerra civile.

Quei morti spariti

La  guerra in Libia non è finita. Si combatte a Sirte, a Bani Walid, a Sabha. Quella che i ribelli hanno definito l’offensiva finale in realtà sta andando avanti a colpi di lente avanzate e rapidissime ritirate. Uno stallo molto simile a quello a cui abbiamo assistito nei primi mesi del conflitto, i mesi della “guerra autostradale” tra Benghazi e Ras Lanuf, con la differenza che adesso i ribelli litigano fra di loro, in un clima di sospetti e divisioni tribali.

In questi giorni di città assediate, sono gli ex-ribelli (ormai diventati il legittimo governo del Paese o meglio di parte del Paese) a bombardare i centri urbani, come avevano fatto i lealisti (all’epoca, i governativi) nella povera Misurata, la città martire. Di mezzo, insomma, come in ogni guerra ci sono sempre i civili, chiamati a pagare il prezzo più alto.

A proposito, ma quanto è alto il prezzo di questa guerra? Il prezzo di vite umane? Sin dall’inizio il conflitto in Libia è finito nella spirale della censura governativa alla quale i ribelli rispondevano con notizie non verificate (e non verificabili dai giornalisti) ma rilanciate dai network panarabi in tutto il mondo fino a dare loro dignità di “fatto”. Parliamo, per esempio, dei bombardamenti e degli elicotteri che sparavano sui civili o le fosse comuni scavate a Tripoli.

E’ molto interessante questo articolo del New York Times che ha dato l’incarico ad un suo inviato di verificare le cifre del governo transitorio secondo cui il bilancio delle vittime della rivoluzione è compreso tra i 30 e i 50mila morti, senza considerare i combattenti lealisi uccisi. Cifre che dalle verifiche sul campo condotte sin’ora sarebbero pari ad un decimo di quelle dichiarate. Se non cambia molto sul piano della drammaticità del conflitto (perchè una sola vittima in una guerra è sempre una di troppo) si evidenzia così di nuovo come in quest0 conflitto, forse più che negli altri, nella sua apparente linearità, la verità è stata una delle prime a cadere sul campo.

http://tashakor.blog.rai.it/2011/09/18/quei-morti-spariti/

Hard Landing

In gergo militare è l’equivalente di un atterraggio d’emergenza ma il gergo militare abolisce ogni parola che possa far paura e allora via “emergenza” sostituita da “hard” ed ecco l’atterraggio “duro”. Quest’anno ce ne sono stati quindici per altrettanti elicotteri dell’Isaf in Afghanistan, roba “fisiologica” in un Paese senza strade dove i “chopper” volano per migliaia di ore al mese. Solo in due casi, tra questi 15, è stata colpa del fuoco nemico. La seconda volta sabato scorsa nella valle di Tangi nella provincia di Maidan-Wardak. Un episodio che ha riscosso grande attenzione da parte di media (non solo quelli italiani) che pure ormai l’Afghanistan l’hanno dimenticato.

Il peggior giorno della guerra in Afghanistan per le truppe occidentali, il più alto numero di caduti in un singolo incidente, la strage di corpi speciali, l’uccisione di incursorsi della stessa unità (il cosiddetto Team VI) che ha ucciso Bin Laden. Beh concorderete che di spunti drammaticamente “suggestivi” in questa triste storia ce n’erano tanti, però io continuo a pensare che l’ “hard landing” sia tutto per la strategia occidentale, un atterraggio “duro” come quando durante il sonno ti giri e cadi dal letto.

La valle di Tangi è un’altra Korengal (strenue battaglie a parte), un posto abbandonato dagli occidentali qualche mese fa per un passaggio pro-forma alle truppe afghane che si sono subito trovate di fronte la bandiera talebana al vento. Un posto che è una roccaforte a tutti gli effetti, inaccessibile e protetta, un luogo perfetto dove organizzare attacchi alla vicina capitale e alla strada che la collega al sud. Un posto dove è necessario continuare a condurre raid, operazioni a così alto rischio che un primo team finisce nei guai ed un secondo deve intervenire come accaduto sabato notte, abbiamo visto con quali esiti.

Insomma se la strategia Isaf di McChristal voleva concentrare le truppe dove c’è la popolazione per garantire sicurezza, abbandonando aree remote e così è stato fatto ma, intanto, quest’ultime sono tornate ad essere “isole pirata”, è fin troppo facile parlare di spirale perversa.
L’esistenza di un luogo come la valle di Tangi l’abbiamo scoperto per via di questo drammatico incidente, quanti altri ce ne sono in giro per l’Afghanistan? E soprattutto l’occidente nascostosi dietro il cadavere di Bin Laden per giustificare una missione compiuta che compiuta non è, come può continuare a far finta che tutto sta andando per il meglio? In altre parole come si può continuare a pensare che nel 2014 la sicurezza in Afghanistan sarà tale da consentire il passaggio finale alle truppe locali e il ritiro?
Visto che non accadrà ma sarà solo una ritirata a questo punto, c’è da chiedersi perchè non ritirarsi subito?

PS: un po’ di link con analisi e ricostruzioni dell’episodio 123

Muro di gomma

Oggi ho incontrato una donna, eravamo in uno dei più caotici incroci di Roma tra una fermata di metropolitana che vomitava folla, lo stridente passaggio del tram, colonne di turisti e pendolari. Eppure eravamo insieme a Kabul, una città dove Barbara Siringo non è mai stata ma che, nel febbraio del 2006, le ha restituito suo fratello in una bara. Barbara da oltre 1700 giorni lotta contro un muro di gomma, denuncia tentativi di insabbiamento, prova a tenere in vita la speranza. Ormai non parla più di vittoria della giustizia, le basterebbe solo che la memoria di suo fratello venisse ripulita dall’infamia della tossicodipendenza.
Barbara, qualche mese fa, ha incontrato sulla sua strada un gip, un giudice delle indagini preliminari, Rosalba Liso, che si è rifiutata di archiviare le indagini, chiedendo un approfondimento sull’inchiesta.

Approfondimento che sin’ora ha portato ad almeno una novità, la perizia tossicologica che proverebbe come la droga che ha ucciso il fratello di Rosalba, Stefano, e il suo collega ed amico, Iendi Iannelli, fosse pura all’89%, in pratica una follia che nessuno spacciatore farebbe mai sia per non “perdere” i suoi clienti, sia per non perdere gli introiti di una dose che solitamente è pura dieci volte in meno.
Una piccola svolta che torna a far parlare del misterioso caso (qui il mio pezzo al Tg3 delle 19 di oggi) e dà forza alle ipotesi della famiglia Siringo che denuncia in realtà l’omicidio, mascherato da incidente, dei due cooperanti italiani che a Kabul lavoravano al progetto (per la ricostruzione della) giustizia in Afghanistan.
Un presunto omicidio, secondo la famiglia, che troverebbe il suo movente nella scoperta da parte dei due giovani di un giro di fatturazioni false, in pratica fondi neri per sottrarre soldi alla ricostruzione. A dicembre sapremo a cos’altro questo approfondimento delle indagini avrà portato, speriamo anche alla testimonianza per rogatoria internazionale del magistrato messicano – all’epoca impegnato nel progetto – che denunciò il fosco scenario.
Un mistero afghano, questo, sostanzialmente “riaperto” anche grazie alla caparbietà di Carlo Lania de il Manifesto che, con Giuliana Sgrena, ha seguito la vicenda e tutti i suoi risvolti.

Gli incroci, anche quelli stradali, nella vita non sono mai casuali e quello dove oggi ho intervistato Barbara è poco lontano dalla sede dell’IDLO, l’organizzazione intergovernativa per la quale lavorava Iendi. L’approfondimento giudiziario ci dirà anche se l’organizzazione ha collaborato o meno alle indagini, senza trincerarsi (semplifico così una situazione complesso) dietro il suo status extra-territoriale. Nel frattempo questa donna minuta dagli occhi che si illuminano di lampi di determinazione non smetterà di chiedere giustizia. Non smetterà di rimbalzare sul muro di gomma – di cui mi ha parlato oggi – fino magari a sfondarlo; sarebbe giusto per lei, per la memoria di Stefano e Iendi ma anche per la serenità di tutti noi che quei fondi finanziamo con le nostre tasse e per coloro che, sin’ora, si sono sacrificati, in un modo o nell’altro, per l’Afghanistan.

L’anno peggiore

Lo schianto è avvenuto nella provincia di Zabul, nel sud talebano, nove i morti: tutti americani (lo anticipa la Fox). Si portano dietro un triste primato, secondo conteggi indipendenti (iCasualties e Kabul Pressistan) con queste vittime, il numero dei caduti occidentali nel paese arriva almeno a quota 529. Anche se mancano tre mesi alla fine dell’anno, il 2010 è già il peggiore dalla caduta dei talebani. Segno di quanto infuri la battaglia in Afghanistan e di quanto sia difficile.

Altri numeri oggi arrivano dalla commissione elettorale che fissa al 47% l’affluenza alle urne, contando 4,3 milioni di elettori effettivamente presentatisi ai seggi. La base è al solito ballerina e si arrivà così a questa percentuale così alta che in realtà è riferita al più basso numero di elettori delle 4 consultazioni svolte sin’ora. La Fefa, organismo indipendente afghano che ha monitorato le elezioni (pochissimi gli osservatori internazionali) annuncia un vasto quadro di irregolarità (qui per una sintesi) anche se preferisce non pronunciarsi ancora sulla questione chiave: ovvero la portata dei brogli. In Afghanistan non potrebbero non esserci brogli, fisiologici per mille motivi (dall’assenza di sicurezza alla fragilità dell’apparato statale), il punto è capire se qualcosa è migliorato o no rispetto al quadro dei brogli sistematici e “di Stato” delle presidenziali del 2009. Sembrerà un dato per “intenditori” e appassionati della materia, ma da questo dato dipende la posizione degli alleati. Sarebbe sempre più difficile per l’occidente continuare a sostenere un governo tanto privo di credibilità.

Fare Scuola

Posa della prima pietra - Scuola "Ramadù - Pascazio"
Posa della prima pietra - Scuola "Ramadù - Pascazio"

Mentre, lunedì, a Bala Morghab il convoglio italiano finiva sotto attacco, più a sud nella provincia di Herat, quasi in contemporanea, il Prt italiano posava la prima pietra di una scuola. Verrà intitolata al sergente maggiore Massimiliano Ramadù e al caporal maggiore scelto Luigi Pascazio, i genieri della brigata alpina Taurinense uccisi proprio in quell’attacco. La notizia è arrivata dal comando italiano, poco dopo la fine dei funerali dei due caduti. Gli americani di solito intitolano ai caduti le loro basi (Fob Tillman, Camp Blessing…), gli italiani hanno scelto una scuola – mi sembra una differenza non da poco, al di là della retorica della missione di pace a cui ormai non crede più nessuno. Un gesto che, tra l’altro, forse contribuirà anche a dare un po’ di sollievo a famiglie dei due alpini, il cui dolore sarà comunque incancellabile.
Mi ha fatto piacere leggere quel comunicato – subito dopo, però, ho provato a guardare al 2020 o forse solo al 2015. Mi sono chiesto che cosa sarà di quella scuola tra dieci anni? Qualcuno in Afghanistan proverà a leggere quei due cognomi stranieri pensando a quello che hanno contribuito a fare per il loro paese o il tempo, la guerra, il caos avranno intanto cancellato tutto? Insomma mi chiedo quanto durerà la guerra e cosa resterà di quello che gli occidentali stanno facendo, nel bene e nel male, in Afghanistan. Sarà il dolore per queste due nuove vittime italiane, per gli altri occidentali che continuano a morire in giro per il paese, per le tante vittime afghane che “non fanno notizia” ma ogni giorno è sempre più difficile credere che il 2013 sia un obiettivo realistico per la fine della guerra.

Bala Morghab, la Korengal italiana

Fob Columbus Bala Morghab np©2008
Fob Columbus Bala Morghab np©2008

No attenzione, leggete bene il titolo…non sto paragonando Bala Morghab per intensità dei combattimenti o per numero di caduti alla valle di Korengal, la valle della morte (da poco abbandonata dagli americani nella provincia di Kunar ). Del resto il sergente Massimiliano Ramadù e il caporal maggiore Luigi Pascazio, uccisi oggi da un’IED mentre si avvicinavano in convoglio alla Fob Columbus, sono le prime vittime imputabili direttamente a quella valle. Sin’ora Bala Morghab aveva visto solo feriti e tanti militari italiani miracolati (salvati da una mano invisibile o da un paio di millimetri di kevlar dell’elmetto), purtroppo oggi non è andata così.

Sono altre le affinità tra Bala Morghab e Korengal, affinità logistiche potremmo forse chiamarle. Bala Morghab non è un’area densamente popolata, proprio come la “maledetta valle” e quindi poco ha a che fare con la nuova strategia McChrystal (più uomini per garantire sicurezza alla popolazione, non per controllare l’estensione del territorio); come Korengal ha una posizione remota dove persino portare una bottiglia d’acqua è un gran problema (l’estate scorsa la nostra aeronautica ha ricominciato gli aviolanci di materiali, sospesi dai tempi del Kurdistan). Un posto isolato dove fare arrivare una colonna di blindati per l’ordinario cambio di compagnia (alternanza inclusa tra spagnoli e italiani) o un convoglio di camion per ricostruire un ponte è un’operazione complessa che impegna centinaia di uomini, esponendoli al rischio di attacchi. Soprattutto Bala Morghab come Korengal è un posto dove bisogna in qualche modo volerci andare, non è tipo Delaram uno di quegli “incroci” dove non puoi fare a meno di passarci. E’ vero che sulle mappe c’è una striscia che arriva da Qal-e-Now (sede del Prt spagnolo, i cui uomini fanno fatica a muoversi al di là della periferia cittadina) fino a lassù, ma quella “striscia nera” nonostante abbia lo stesso nome (“ring road”) con l’autostrada numero uno ha poco a che fare visto che in realtà è poco più di un budello – attraversarla incolumi d’estate è un’impresa ma passarci con la pioggia o la neve è un record da raccontare ai nipoti.

Ma allora che ci stiamo a fare lassù? La risposta come al solito in Afghanistan non è semplice nè univoca, cercatela voi tra questa serie di fatti che provo ad elencare. Bala Morghab è un’enclave pasthun in territorio tagiko, negli anni ’90 – anche se in pochi lo ricordano o lo citano – è stata la base talebana per lanciare l’attacco su Mazar-i-Sharif, la più grande città del nord. Altrettanto pochi ricordano una scena svoltasi da queste parti, replicata oggi da stauette di gesso nel museo della jihad di Herat – era il 1979 e dopo la rivolta di Herat, Ismail Khan riunì lassù quelli che sarebbero stati i comandanti della jihad anti-sovietica nell’ovest del Paese.
In questa fertile piana di oppio non se ne produce tantissimo in valore assoluto ma buona parte dei cinquemila ettari della provincia coltivati a papavero sono concentrati nel distretto di Bala Morghab, produzione cresciuta dell’822% dal 2008 al 2009 (segno di quanto precari e controversi siano gli effetti della presenza occidentale sull’industria della droga). Del resto se voi foste un contadino con il confine a due passi, forse non ci pensereste due volte a buttarvi nel business…un business che aggiunge ai talebani la forza (e i soldi) dei trafficanti. Da Bala Morghab si arriva diritto diritto in Turkmenistan ma soprattutto a Gormach, passaggio chiave nella mobilità tra est ed ovest nell’Afghanistan del nord.

Bala Morghab np©2008
Bala Morghab np©2008

L’ex-cotonificio oggi trasformato nell’avamposto (Fob) Columbus è uno degli ultimi segni della presenza sovietica nell’area, ultimi militari stranieri insediatisi nella zona. Dopo il loro ritiro, vent’anni dopo, qui si sono visti (nel post-2001) a volte qualche pattuglia tedesca e pare anche dei norvegesi. Nell’agosto del 2008 arrivarono gli italiani, accolti con quattro giorni di battaglia, io ci sono arrivato ai primi di settembre e le condizioni di vita per i militari dell’Aeromobile mi sono sembrate poco diverse da Korengal, alberi secolari a parte ma le risaie sono perfette lo stesso per sparare nella base. Da allora in poi si è andati avanti tra operazioni per “aumentare” la bolla di sicurezza, civili in fuga, tregua con i ribelli (vedi elezioni presidenziali del 2009, la prima tregua elettorale ufficialmente siglata dal governo), capi talebani arrestati, liberati e poi uccisi dai predator senza pilota. Benvenuti a Bala Morghab, la Korengal italiana…se mi passate il paragone.

Macabra cabala

La notizia la conoscono tutti, l’abbiamo racconta oggi nei Tg, ha riempito il web e domani i quotidiani di carta. Altri due militari italiani sono morti in Afghanistan, due invece sono feriti seriamente ma vivi per miracolo; in primis il mitragliere del mezzo Lince sbalzato dall’esplosione di una IED, venticinque chilometri a sud di Bala Morghab. I numeri mi hanno sempre affascinato, forse perchè li guardi e ci puoi vedere di tutto, anche quelli che sembrano messaggi del destino. Oggi sono passati esattamente otto mesi dalla strage di Kabul, quella che ho vissuto in prima persona, con 6 parà uccisi e oltre dieci civili fatti a pezzi da un’autobomba. 17 settembre – 17 maggio e rieccoci a parlare di morti. I numeri martellano di nuovo la tragedia dei nostri alpini, 32esimo reggimento Genio, Brigata Alpini Taurinense. Massimiliano Ramadù di Velletri (Rm) e il caporalmaggiore Luigi Pascazio, di Bitetto (Bari) non lo sapranno mai ma la loro morte segna anche un traguardo simbolico che pesa come un macigno sulla missione Isaf, con il loro sacrificio sale a quota 200 il numero dei militari stranieri uccisi in Afghanistan dall’inizio dell’anno – mai così tanti nei primi cinque mesi dell’anno, un triste record all’insegna dell’assunzione algebrica: più soldati, più presenza sul territorio, più attacchi e quindi…più vittime. Bastano poche ore a fare di questa soglia simbolica nient’altro che acqua passata, mentre scrivo siamo già arrivati a 202. Cosa ci vorranno dire i numeri? Beh questa volta non ci vuole un Dan Brown di turno o un Pitagora moderno per capirlo.