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Sabbia rossa

Operazione Sabbia Rossa ©Isaf 2011

E’ arrivata la primavera ma in Afghanistan non è solo una questione climatica, in luoghi come Bala Morghab (luoghi resi inaccessibili dalla neve in inverno) è l’inizio della stagione dei combattimenti. Puntuale è arrivata l’operazione Red Sand (sabbia rossa) condotta da uomini del 10mo cavalleria dello US Army, con il supporto dell’aviazione americana e degli italiani con compiti di osservazione, ovvero supporto agli scouts del Red Platoon nell’individuare i movimenti nemici. L’operazione, come raccontano le fotografie, è stata “pesante” soprattutto per quanto riguarda il supporto aereo, sono stati sganciate bombe GBU-38 (da 250 chili) e aerei B-1, bombardieri d’alta quota. Ed è consistita nell’uscire dalla cosiddetta bolla di sicurezza, l’area ritenuta sotto controllo da parte delle truppe occidentali, intorno alla Fob Columbus, fino a raggiungere una base talebana dove si producevano ordigni ied – racconta la nota dell’ufficio stampa Isaf. Diversi guerriglieri sono stati uccisi.

Al di là di come si sia svolta l’operazione (nella remota provincia di Badghis mancano fonti indipendenti), è evidente che ci

bombardamento sul bunker talebano ©isaf 2011
bombardamento sul bunker talebano ©isaf 2011

dice una cosa non secondaria, ovvero che (bolla o non bolla) la situazione nella valle del fiume Morghab resta ancora fuori controllo a quasi tre anni dall’arrivo della prima presenza stabile di militari occidentali. Bala Morghab è il fronte italiano più caldo, o almeno caldo come quello nell’ex-opbox Tripoli, a sud, sull’altro versante dell’area di operazioni Rc-West, a comando italiano. Nelle prossime settimane anche nella zona si completerà il dispiegamento della Folgore e vedremo altre operazioni del genere.


“Bisogna andare avanti”

Secondo le agenzie, sarebbero queste le parole che Alessandro Albamonte ha ripetuto a chi gli è vicino nel reparto di rianimazione dell’Ospedale Careggi a Firenze, dove il Capo di Stato Maggiore della Folgore è stato ricoverato d’urgenza dopo l’esplosione di busta-bomba che l’ha gravemente ferito giovedì scorso.
Ho subito scritto della sua vicenda che mi ha coinvolto personalmente, torno a scriverne perchè – al di là del seguire l’evolversi sanitario della vicenda – secondo me questa frase merita una riflessione.

Le parole di Alessandro, un comandante amato dai suoi uomini, giovanissimo per la posizione di comando raggiunta, mi hanno fatto molto pensare. Nell’Italia di oggi divisa come le curve di una stadio, a maggior ragione in un’ambiente con pochi “mezzi termini” come quello militare, sarebbero state concesse parole ben diverse a chi ha subito un attacco tanto stupido quanto vigliacco.
A chi ha subito ferite che purtroppo porterà con sè per il resto della vita sarebbero state concesse parole (ormai pubblicamente “sdoganate”) di rancore e di rabbia, le stesse che – per molto meno – sentiamo per esempio nei dibattiti in tv; dibattiti su temi cruciali per il futuro del nostro Paese mica su una partita di pallone…
Non lo dico solo per parlare della grande umanità di Alessandro che si conferma anche in queste parole, ma per dire che parole del genere vorrei sentirle più spesso in questo Paese. Vorrei più spesso vedere atteggiamenti costruttivi, appunto il guardare avanti…che si tratti di militari, di civili, di politici, di comuni cittadini.

Per il resto, nessuno sa quando il comandante Albamonte potrà uscire da quell’ospedale e quando potrà tornare al suo lavoro. Per questo e di nuovo: Auguri Alessandro!

Auguri Alessandro

Alessandro Abbamonte @np 2009
Alessandro Abbamonte @np 2009

 

Quando oggi (ieri, vista l’ora in cui pubblico) pomeriggio ho visto la notizia del pacco-bomba alla caserma della Folgore lampeggiare sul mio telefonino, la prima cosa che ho pensato è stata: “Che vigliacchi! Che idioti!” sperando che nessuno si fosse fatto male sul serio. Quando poi ho letto il nome del parà colpito, dopo un interminabile attimo di incredulità, a quel punto all’indignazione è subentrato lo scoramento, come quando a soffrire è qualcuno che conosci di persona.
Ho incontrato Alessandro Albamonte la prima volta in qualche punto del deserto dell’Afghanistan occidentale, l’ho rivisto più volte alla base di Herat e forse anche in una fob. I ricordi ora si accavallano senza precisione; parliamo del 2009, il primo impegno afghano della Folgore come brigata e non solo come singole unità.

Pensarlo ora in un letto d’ospedale a lottare in primo luogo per salvare i suoi occhi, con buona parte delle dita delle mani amputate, ustionato al volto, mi sembra così strano sapendo quali rischi lui e i suoi uomini hanno affrontato in Afghanistan e quelli che avrebbe affrontato a partire dai prossimi giorni, quando la Folgore verrà rischierata nel comando Rc-West. Mi sembra questa una beffa, la beffa più amara, che si aggiunge ad danno grave, gravissimo.

Con le persone che incontri in posti remoti e pericolosi, con le persone con cui ha condiviso esperienze in Afghanistan, si crea sempre un rapporto speciale, siano essi militari, operatori umanitari, altri giornalisti. Magari non li vedi per mesi, per anni ma poi li rincontri ed è come fosse stata ieri l’ultima volta, li consideri amici.
Alessandro è tutto quello a cui non pensi quando ti dicono che è un graduato dei parà, lontano dallo stereotipo della montagna di muscoli dalle pose virili; stereotipo che, tra l’altro, ho verificato essere quasi sempre solo tale, roba del passato. Alessandro era stato nominato capo di stato maggiore della brigata alla fine del 2009, giovanissimo, un ragazzo dall’umanità straordinaria, pratico, lontano dai riti e dai formalismi del grado, preparato come conferma la nomina ad un ruolo così importante nonostante, appunto, la giovane età, soli 41 anni.

Non è chiaro se la busta fosse indirizzata a lui o fosse finita genericamente nelle sue mani perchè indirizzata al suo ufficio ma questi ormai mi sembrano solo dettagli. A lui vanno i miei migliori auguri di pronta guarigione, soprattutto di guarigione viste le ferite gravi che ha riportato. Mi scuso con i lettori se ho scritto un post tanto personale, per una volta lascio da parte valutazioni politiche, tecniche, militari su quello che succede o ruota intorno all’Afghanistan come faccio di solito. Ma è quello che oggi sentivo di fare, un post personale appunto, che vorrei sia letto come tale qualunque opinione abbiate sulla guerra in Afghanistan, sui militari che la combattono e sui militari in generale. Un tema, quest’ultimo, che purtroppo continua a far discutere il nostro Paese come ad un’assemblea del liceo di trent’anni fa.

Mi resta solo una domanda: per quanto si possa essere contro la guerra in Afghanistan (pare che nella busta ci fosse un rivendicazione contro tutte le guerre) che senso ha mandare un pacco bomba, che oltre ad un gesto vigliacco è anche un atto indiscriminato che non cambia nulla? Che non porta la pace anzi porta altro dolore e sofferenza su questa terra? Francamente non lo so. E penso che nessuno riuscirà mai a spiegarlo.

Come Folgore…

La settimana scorsa i parà della Folgore hanno cominciato a lasciare l’Italia, destinazione Herat. Tra pochi giorni ci sarà il TOA ovvero il trasferimento del comando dagli alpini appunto ai paracadutisti. L’Afghanistan è stato mediaticamente fagocitato dalle vicende libiche, semplicemente non se ne parla più, “non c’è spazio in pagina”; del resto molti dei giornalisti internazionali normalmente impegnati in quel Paese li ho rivisti al confine libico-tunisino o li leggo/vedo da quel di Benghazi.
Sta capitando sui media di tutto il mondo ma in Italia non era poi così difficile dimenticarsi dell’Afghanistan, vista la già scarsa e intermittente attenzione riservata dalle testate di casa nostra alla missione di un Paese a tutti gli effetti in guerra. Eppure questo semestre di missione per i parà sarà molto duro, con le loro capacità militari – che hanno già dimostrato nel 2009 – sono chiamati a mettere mano ad una serie di problemi non da poco: a cominciare dal Gulistan e da tutto l’area dell’ex-opbox Tripoli nella parte sud-orientale della provincia di Farah, senza dimenticare la turbolenta Bala Morghab. Questa volta, per giunta, conoscono meglio il terreno e quindi è presumibile che si muoveranno più in profondità e con più sicurezza anche verso obiettivi e no-go zone (per gli occidentali) ancora “intatte”.
Il tutto in un quadro nuovo, con l’incognita della sicurezza ad Herat in fase di passaggio alle forze afghane, un quadro fluido che libererà altre truppe per l’impiego in aree più calde rispetto alla tranquilla Herat ma non esclude che gli italiani avranno occasione di correre in supporto di ANA e ANP in caso di grossi guai nella capitale provinciale.
Saranno sei mesi caldi, cominciano nel silenzio – con sommo sollievo, ipotizzo, del mondo politico –  ma è un silenzio che non durerà. Auguri ai parà. Auguri all’Afghanistan.

Ultima fermata, Gulistan

Mentre i vivi litigano, e se ne discute non senza ipocrisie, c’è voluta la sincerità delle parole lasciateci da un giovane caduto alpino per mostrare a chi si ostina a guardare il dito, tutto quello che c’è intorno. C’ho messo qualche giorno per scrivere questo post, perchè di solito evito di fare commenti “geopolitici” nei giorni destinati al lutto come purtroppo è stato l’ultimo del 2010. Nei giorni successivi poi, ho visto aprirsi una fisarmonica di eventi e dichiarazioni sulle quali mi sembrava il caso di riflettere.

Matteo Miotto ha scritto nel suo testamente di voler essere sepolto nella parte del cimitero di Thiene dedicata ai caduti di guerra. Sembra una decisione privata, per me sono parole di verità nella vicenda afghana. Al di là della facile retorica, dovrebbe spingere molti a spostare lo sguardo dal dito, a guardare a cosa quel dito stia puntando.
Matteo è morto in guerra, da professionista sapeva che c’era questa eventualità e l’ha scritto nel suo testamento. Non voglio riapre il discorso sulla natura della missione italiana, finiremmo con il parlare della Costituzione e perderci la sostanza ovvero che in Afghanistan si combatte una guerra e la politica (tutta) non si assume la responsabilità di dirlo al Paese. Di dire agli italiani che quella è una guerra, magari giusta (come ritiene il Premio Nobel per la Pace, il presidente Obama e – più implicitamente – tantissimi governi di mezzo mondo) ma null’altro che una guerra.

Quanto sia importante questa verità l’abbiamo capito nei giorni successivi alla morte di Matteo, in una vicenda dove quella decisione di un giovane alpino diventava sempre più altamente simbolica, proprio ora e mai come ora.
Il ministro La Russa arrivato ad Herat la sera del 5 gennaio, racconta che Miotto non è morto come inizialmente detto (colpito da un cecchino) ma colpito durante un attacco “multiplo” alla sua base. Due scenari ben diversi. La Russa polemizza con i militari che l’hanno informato tardi, parla del “riflesso di un vecchio metodo, di cercare di indorare la pillola della realtà dei fatti, di dire la verità ma nel modo più indolore possibile” – ovvero riapre la polemica con il metodo del governo Prodi (che poi proprio sull’Afghanistan scivolò la prima volta). Oggi sul Corriere della Sera, la smentita del Capo di Stato Maggiore, il generale Camporini apre uno scontro senza precedenti tra i vertici civili e quelli militari delle forze armate. Il ministro La Russa deve convocare in mattinata una conferenza stampa per ricucire lo strappo con le stellette.
Qualcuno mi sembra provi a leggere lo scontro secondo le categorie dell’italico “politichese”. Qualunque cosa sia successa l’ultimo giorno dell’anno nel Gulistan (e molti dubbi continuano ad esserci), queste onde “telluriche” altro non sono che frutto del peso dell’Afghanistan; qualunque entità metta le mani in quel Paese – lo dice la storia – si ritrova profondamente destabilizzata, solo negli ultimi tempi penso alle dimissioni del governo olandese o a quelle del presidente tedesco. Ora sbattono le porte di Palazzo Baracchini, la sede del Ministero alla Difesa, a Roma.

L’altra cosa a cui punta il dito, lo stesso dito dal quale gli occhi non riescono a staccarsi, è un distretto della provincia di Farah. Si chiama Gulistan, il posto dei fiori in lingua dharì, sempre più – drammaticamente – fiori di lutto per gli italiani. Dal primo settembre i nostri militari sono arrivati per estendere la presenza del governo di Kabul, tradotto per tagliare le retrovie dei talebani che nella confinante provincia di Helmand, la loro roccaforte, sono sempre più messi alle strette dalle massicce operazioni anglo-americane, ma hanno bisogno della strada della droga e della strada della ritirata verso il nord. Fino ad agosto l’op-box Tripoli ovvero una parte della provincia di Farah, Gulistan compreso, era in mano agli americani più del doppio dei 350 italiani che hanno preso il loro posto, asserragliati in tre fortini, chiaramente pochi per il compito loro assegnato e per dedicarsi ad un territorio così vasto.
Dal primo settembre i sei caduti riportati dagli italiani sono morti qui, cinque in Gulistan, uno nel confinante distretto di Bakwah. C’è bisogno di dire altro per capire che inferno sia quella zona in passato terreno solo delle forze speciali per brevi raid? Un terreno tutto da “riconquistare” dove solo poche settimane fa sono arrivati i primi militari afghani (anche per questo gli italiani finiscono con l’essere pochi). In confronto l’estensione della “bolla di sicurezza” di Bala Morghab corre il rischio di sembrare una passeggiata.
E siamo ancora in inverno, da marzo in poi la situazione – è facile prevederlo – si farà sempre più difficile, all’epoca in campo sarà schierata la prima aliquota di parà della Folgore che quest’anno copriranno il turno estivo (da aprile) della missione italiana.

Penso alla visita del generale Petraeus e del generale Camporini, il giorno di Natale, proprio a Bakwah. Rileggo i comunicati, quello in italiano dove spicca questa frase “Bakwah è una delle aree dove maggiormente si concentrano gli sforzi degli italiani nell’implementare la sicurezza, di concerto con i militari afghani. Sicurezza che i cittadini percepiscono di giorno in giorno e che va di pari passo con la fiducia nel lavoro delle forze di coalizione.” Quello destinato ai media internazionali (scritto in inglese), dove all’incirca nello stesso punto compare invece questa frase: “Bakwa is one of the more volatile areas in RC-West, and the Soldiers based there often engage insurgents in kinetic activities.” Ovvero “Bakwa è una delle aree più instabili dell’RC-West, i soldati di stanza qui spesso combattono con i ribelli”. Li rileggo e penso a quanto siano pesanti le parole di verità scritte da un giovane alpino morto a migliaia di chilometri da casa, scritte da chi pensa a dire le cose come stanno non all’effetto che le sue parole potranno produrre.

Purtroppo penso anche a cosa saranno i prossimi mesi nell’infero del Gulistan.

“Nuovo” Cinema Ariana

L’Ariana è un mito, un pezzo della Kabul degli anni d’oro, gli anni ’60, che è riuscito a resistere ale intemperie (umane) degli ultimi decenni. Un tempo proiettava film americani, oggi il cinema Ariana è tappezzato di manifesti di film di Bollywood, quelli prodotti a raffica in India, e di un po’ di pellicole afghane. Mi ero sempre ripromesso di andare a cinema a Kabul, ieri ci sono riuscito. All’Ariana c’era la prima mondiale di “Black Tulip”, un film che domenica sbarca a New York e che farà parlare di sè. L’ha diretto e interpretato un anglo-afghana, Sonia Nassery Cole (vedi l’intervista sul New York Times) che ha fondato e gestisce una ong per le donne afghane. Il film racconta la storia di una famiglia che dopo il 2001 si illude (non da sola, per la verità) che i talebani siano ormai roba del passato e apre un caffè letterario, per poi ritrovarsi subissata da minacce, intimidazioni e attentati. La particolarità di “black tulip” è quella di essere stato interamente girato in Afghanistan (diversamente, per esempio, dal “cacciatore di aquiloni”), non cosa da poco viste le difficoltà della situazione. (vedi scheda IMDB) L’altra (piccola) particolarità è che tra i militari stranieri amici della famiglia, c’è anche un italiano, un parà della Folgore, il colonnello Tanelli, forse del nono reggimento se non ho visto male il fregio sul basco. Lo interpreta l’italiano Edoardo Costa (rigorosamente senza giubotto anti-proiettile al contrario del suo amico americano). Il film è girato bene, viste le condizioni, ma la storia ha molte incongruenze (vedi la recensione del New York Times), ne cito solo una: militari stranieri in giro a piedi per la città, per bar e ristoranti! Fantascienza!

La Cole mi ha dato l’impressione di essere interessata più ad inserirsi nel dibattito politico americano che a raccontare l’afghanistan. Del resto la Cole la ricordiamo per la sua lettera a Regan proprio sull’Afghanistan. Tra l’altro resta avvolto nel mistero e senza conferme, l’affermazione della regista (comparsa alla premierè per non più di dieci minuti) secondo cui i talebani avrebbero tagliato i piedi all’attrice protagonista prima dell’inizio delle riprese tanto che la Cole è stata costretta a prendere il suo posto. Il film verrà candidato alla selezione per l’Oscar nella categoria titoli stranieri, il primo nella storia dell’Afghanistan.

Il pomeriggio al cinema è stato un’esperienza surreale, straordinaria. La folla accalcata fuori, le telecamere delle tv locali (e non) come se fosse un piccolo festival di Venezia, gli applausi a scena aperta del pubblico in sala, le risate (devo dire nei punti più improbabili del film), telefonini che squillavano, qualcuno (agenti di polizia) che fumava, la porta che si apriva in continuazione e poi l’uscita dalla sala di un pubblico della Kabul “bene”, la sfilata attori e attrici locali. Un tuffo indietro ai tempi d’oro dell’Afghanistan! Anche perchè mancavano tutti i gadget della Kabul di oggi: perquisizioni all’ingresso, guardie armate fino ai denti, metal-detector, barriere antiesplosione. Si entrava e si usciva come se nulla fosse. In realtà la polizia afghana all’inizio ha perquisito un po’ di persone, poi pero’ è cominciato il film e soprattutto i graduati sono entrati in sala a guardare il film per cui…addio controlli! Per fortuna, nessuno di quelli di cui si parlava male nel film si è unito a noi, in sala.

Ritorno a casa

Il Generale Rosario Castellano np©09

La missione afghana appena conclusa (aprile-ottobre 2009) dai paracadutisti verrà ricordata probabilmente sia nella storia della Folgore che in quella dell’impegno militare italiano in Afghanistan, per diversi motivi. Mi limito per ora ad enunciarli come argomenti da approfondire – tra questi ci sono sicuramente i fatti del 17 settembre, il peggior attacco subito dalla missione italiana nel paese, quella che molti hanno definito la Nassyria afghana per fare un parallello con il terribile attentato in terra irachena. C’è soprattutto il nuovo “passo” dato all’azione italiana sul terreno (non senza polemiche, seppur meno di quanto ci si potesse aspettare) con la Folgore coinvolta in sei mesi in più “contatti”, alias combattimenti, di tutti i contingenti militari italiani che l’hanno preceduta, messi insieme. In questi mesi, vista anche la popolarità dei parà, il mondo politico ha gareggiato nel portare la “vicinanza” del Paese alle truppe sin dall’inizio della missione; un fatto nuovo nel panorama italiano, c’è poco da dire (tema a parte resta la capacità di affrontare in profondità il dibattito sull’afghanistan del mondo politico nostrano, tutto).

Un fatto nuovo è stata anche la cerimonia di “coming home”, del saluto per il ritorno a casa della brigata sabato scorso a Livorno, coincisa quest’anno con il 67esimo anniversario della battaglia di El Alamein e con il cambio di comando, dal generale Rosario Castellano che abbiamo conosciuto in questi mesi di impegni afghani, dove ha comandato l’RC-West, al generale Federico D’Apuzzo, anch’egli dai recenti trascorsi afghani dove fino a pochi mesi fa è stato consigliere militare alla nostra ambasciata a Kabul. Per la cronaca, entrambi campani.

Definisco un fatto nuovo la festa del 14 novembre, per via delle sue dimensioni (la cerimonia si è svolta allo stadio di

Generale Federico D'Apuzzo np©09

Livorno per poi continuare sul lungomare) e la partecipazione sia di parà (reduci ed ex inclusi) che di pubblico, un qualcosa molto vicino alla tradizione americana di radicamento sul territorio dei diversi corpi militari, direi molto inusuale per il nostro paese. Personalmente è stata l’occasione per rivedere “senza giubotto ed elmetto” (aggiungerei anche sane e salve) molte persone con le quali ho lavorato in questi mesi  sul campo, in condizioni non sempre facili ma devo dire sempre ricevendo una grande collaborazione.  Chissà se, alla luce di questi elementi di novità, in futuro in Italia si potrà affrontare in maniera laica il tema del rapporto militari-società e forze armate-politica  – è una speranza che coltivo da quando mi occupo, via Afghanistan, anche di militari…

Per un breve reportage fotografico sulla festa vedi qui

Mazzette ai talebani, la seconda puntata

Il Times di Londra non molla, in ossequio alla sua tradizione (quella di uno dei giornali più prestigiosi ed indipendenti del mondo) pur di fronte alle smentite del governo italiano (che vi ha aggiunto una minaccia di querela), della Nato e dei diretti interessanti (i francesi); oggi il quotidiano britannico pubblica una seconda puntata (qui il link) alla sua denuncia di presunti pagamenti alla guerriglia effettuati dai servizi italiani per comprarsi un po’ di pace nelle aree di operazione delle nostre truppe.

Ieri l’articolo provava a smontare uno dei casi di maggior successo dell’Isaf in Afghanistan, quello di Sorobi (vedi la sintesi in un post di questo blog), affermando che in realtà la pace era stata comprata per giunta senza dirlo agli alleati, causando così indirettamente la strage dei parà francesi appena subentrati agli italiani nell’agosto del 2008.

Oggi, invece amplia il fenomeno estendendolo anche al Rc-West, in pratica all’area dove è concentrato il grosso delle nostre truppe con base ad Herat ma attive anche nelle due difficilissime province di Bala Morghab e Farah. Secondo l’articolo di oggi (vedi una sintesi in italiano qui):

A Taleban commander and two senior Afghan officials confirmed yesterday that Italian forces paid protection money to prevent attacks on their troops.

Mr Ishmayel said that under the deal it was agreed that “neither side should attack one another. That is why we were informed at that time, that we should not attack the Nato troops.” The insurgents were not informed when the Italian forces left the area and assumed they had broken the deal. Afghan officials also said they were aware of the practice by Italian forces in other areas of Afghanistan.

A senior Afghan government official told The Times that US special forces killed a Taleban leader in western Herat province a week ago. He was said to be one of the commanders who received money from the Italian Government. A senior Afghan army officer also repeated the allegation, adding that agreements had been made in both Sarobi and Herat.

Non sono in grado esprimermi sulle accuse del Times
(per giunta rivolte ai servizi più che ai militari italiani), di certo appaiono surrogate da fonti diverse e citano persino intercettazioni telefoniche dei servizi americani, ma è altrettanto sicuro che nell’ovest soprattutto negli ultimi sei mesi (ma ricordiamo anche la scorsa “calda” estate con l’Aeromobile nelle stesse zone) gli italiani sono stati in combattimento quasi ogni giorno, che è un elemento sicuramente contraddittorio rispetto al quadro delineato da questi articoli.

Un’osservazione personale. Fermo restando che la tentazione che potrebbe emergere è quella di derubricare tutto alla voce “pessimi rapporti tra Berlusconi e la stampa internazionale” (insomma che piuttosto di affrontare la questione si dica che è solo frutto di screzi e dispetti) e che, comunque, gli effetti sull’immagine internazionale del nostro premier (quello che lui stesso ha definito lo “sputtanamento”) dopo la vicenda escort, non aiuti a dare forza alle pur categoriche smentite governative. Secondo me il punto di tutta questa storia è però un’altro: c’è bisogno di chiarire tutto e farlo subito, non solo per motivi di decoro nazionale (…perdita della faccia…mettiamola così) ma soprattutto perchè i militati sul campo, quelli che rischiano la vita ogni giorno, possono essere seriamente penalizzati da una storia del genere se non chiarita o lasciata (italicamente) perdere per essere poi dimenticata. Chi si trova in prima linea con addosso accuse del genere rischia di non essere più considerato un buon alleato da chi combatte al suo fianco (afghani, americani, francesi, spagnoli che siano) ovvero rischia di ritrovarsi “isolato” e quindi rischia di rischiare molto di più.

Di nuovo polemiche su Sorobi

Non è una storia nuova, quella delle polemiche sull’imboscata di Sorobi e sull’attività delle truppe italiane nell’area. Nei giorni successivi alla morte dei dieci parà francesi in quell’area, in un’imboscata avvenuta tra il 18 e il 19 agosto del 2008 (la peggior perdita per l’esercito transalpino dai tempi del Libano), i media francesi sollevarono una generica polemica sulle responsabilità degli italiani (che avevano appena lasciato la zona dopo una presenza di circa sei mesi legata all’assunzione del comando della capitale Rc-C all’interno della missione Isaf) e dei loro rapporti con i guerriglieri nella zona. La polemica ora ritorna ma in maniera molto più puntuale sulle colonne del Times di Londra che in un articolo ben dettagliato e apparentemente surrogato da fonti diplomatiche e militari, accusa i servizi italiani di aver pagato la guerriglia, sostanzialmene, per “comprare” un po’ di pace nell’area. Un fatto non comunicato ai “successori” delle nostre truppe, i francesi, indirettamente esponendoli a quella tragica imboscata – questa almeno la ricostruzione del quotidiano britannico. Ecco alcuni estratti dall’articolo del London Times:

The Times has learnt that when French soldiers arrived to assume control of the Sarobi area, east of Kabul, in mid-2008, they were not informed that the departing Italians had kept the region relatively peaceful by paying local Taleban fighters to remain inactive.

Western officials say that because the French knew nothing of the payments they made a catastrophically incorrect threat assessment.

US intelligence officials discovered through intercepted telephone conversations that the Italians had been buying off militants in other areas, notably in Herat province in the far west.

In June 2008, several weeks before the ambush, the US Ambassador in Rome made a démarche, or diplomatic protest, to the Berlusconi Government over allegations concerning the tactic.

A number of high-ranking officers in Nato have now told The Times that payments were subsequently discovered to have been made in the Sarobi area as well.

Quindi, secondo il Times, la scoperta di questi pagamenti nell’area di Sorobi (si pronuncia Surobì) scatenò all’epoca un caso diplomatico e militare pur mai venuto alla luce. Durissima questa mattina la reazione del nostro governo (che – noto a margine – con il Times ha un “conto aperto” viste le recenti polemiche su Berlusconi, escort, ecc. ecc.) e l’annuncio di una querela. Per completezza di cronaca, c’è da notare che il dispiegamento a Sorobi è avvenuto a cavallo tra i due governi, è iniziato durante quello Prodi ed è terminato quando quello Berlusconi si era da poco insediato (un fatto che il titolo del Times on line prova a mettere in evidenza: Italian Prime Minister attempts to blame previous government over Taleban payments that left French troops exposed).

Per una sintesi in italiano della vicenda e per dettagli sulla polemica vedi gli articoli di Repubblica e quelli del Corriere (che tra l’altro ha diffuso in anticipo la notizia dell’articolo in via di pubblicazione). Per un ricostruzione dell’imboscata di Sorobi e soprattutto del dopo, vedi questa voce di wikipedia (in francese) con una lunga lista di fonti.

Anche se il London Times è uno dei quotidiani più prestigiosi del mondo e l’articolo (al contrario delle polemiche francesi dell’anno scorso) pare poggiare su fonti e dettagli specifici, c’è da dire che la vicenda resta ancora poco chiara e tutta da provare, anche perchè si tende a scindere la responsabilità dei militari da quella dei servizi, rendendo il quadro ancora più confuso. Pur essendo stato (e non senza grossi rischi e difficoltà, con il collega Gianfranco Botta del Tg3) a Sorobi, non sono in grado di esprimermi su questa storia. Mi sembra però utile, al fine di meglio inquadrare la vicenda, fornire un po’ di dettagli sullo “scenario”.

La zona di Sorobi è un’area non in mano ai talebani ma agli uomini di Hekmatyar, è un’area ad alto rischio sulla quale – durante il turno di dispiegamento degli italiani – si sono concentrate grandi attenzioni perchè all’epoca si temeva che la capitale Kabul potesse “cadere” in mani talebane (di lì a pochi mesi gli americani avrebbero schierato forze massicce nelle vicine province di Wardak e Logar). Sorobi si trova ad una trentina di chilometri di distanza dalla capitale ma soprattutto lungo la Jalalabad road, la strada lungo la quale arrivano a Kabul la maggior parte delle merci e soprattutto i rifornimenti Nato dal Pakistan.

Una storia di successo. Il caso di Sorobi è stato a lungo considerato presso il quartier generale della Nato, un caso di successo citato persino dal generale McChrystal. Gli italiani riuscirono a tenere sotto controllo la situazione in un’area esplosiva con la tecnica del “bastone e della carota” ovvero con massicci aiuti umanitari e progetti di ricostruzione legati però alla lealtà della popolazione locale, della serie “se mi aiuti, se mi fai scoprire depositi di armi e droga, se mi segnali i movimenti della guerriglia, noi aiuteremo te”. Una strategia non costata poco agli italiani, nel senso che i nostri militari hanno spinto sul pedale della sicurezza per la popolazione civile garantendo una “reperibilità” 24 ore su 24 ai loro contatti sul territorio, in primis agli anziani dei villaggi leali all’Isaf. In pratica sono sempre stati pronti ad intervenire quando squillava il telefonino, persino a notte fonda, per garantire la sicurezza di chi stava con loro, una versione “anticipata” della dottrina McCrhystal.

I combattimenti. Tra l’altro – pur nel silenzio “voluto” dal Ministero alla Difesa alla vigilia delle elezioni e nella lunga preparazione elettorale – gli italiani sono stati spesso impegnati in combattimenti, non semplici e spesso durati ore. Quelle impegnate nella zona non erano, tra l’altro,  truppe qualsiasi; si trattava in buona parte di rangers, i parà degli alpini, e di unità selezionate della Folgore. Per un racconto di quegli scontri, si veda in particolare “Afghanistan, ultima trincea” di Micalessin e Biloslavo.

L’imboscata di Sorobi verrà tra l’altro ricordata per le critiche ricevute all’organizzazione dei militari francesi. Pur nel rispetto della tragedia umana subita dalle forze armate transalpine, bisogna ricordare che diverse fonti concordano che le unità coinvolte nella battaglia vennero colte chiaramente di sorpresa su un terreno orograficamente ostile (tanto ostile che erano dovuti scendere dai mezzi e stavano procedendo a piedi), senza armamento pesante, senza munizioni e radio a sufficienza, senza supporto aereo e per giunta a metà giornata (quindi solo con poche ore di luce davanti a loro, non a caso i combattimenti terminarono a notte fonda). A rendere le dimensioni della tragedia ci pensò una grande e giovane fotogiornalista francese che scatenà una polemica nazionale sull’opportunità di pubblicare le sue immagini, polemica che a tutt’oggi trovo incomprensibile quanto fastidiosa per la libertà di stampa. Veronique de Viguerie fotografò i talebani autori dell’imboscata con indosso l’equipaggiamento tolto ai caduti (del servizio non trovo più traccia nell’archivio di ParisMatch, ma ne ho recuperato l’immagine simbolo qui). Immagini che testimoniarono quanto ravvicinati fossero i combattimenti (fatto raro in Afghanistan) e quindi quanto i militari francesi vennero presi di sopresa, alcuni dei quali pare uccisi e/o mutilati a colpi di pugnale, una volta rimasti senza munizioni. C’è da dire che il Times oltre ad utilizzare per il suo articolo di oggi proprio l’immagine simbolo della disfatta, ricorda chiaramente i limiti delle truppe francesi nell’occasione.

said one senior Nato officer. “They had no heavy weapons, no pre-arranged air support, no artillery support and not enough radios.”

Sono elementi questi innegabili che a seconda del versante della polemica possono essere utilizzati con finalità diverse, per sostenere che i comandi francesi hanno preso quella recon patrol alla leggera e che quindi hanno subito perdite per carenze organizzative e di pianificazione oppure che erano usciti in quel modo perchè gli italiani gli avevano detto che l’area era tranquilla (così sostiene il Times). Quando ho parlato con militari italiani presente all’epoca nell’area (l’ultima volta mi è capitato solo una decina di giorni fa) mi hanno sempre detto tutti la stessa cosa (mi riferisco a colloqui informali, non con fonti ufficiali), ovvero che i francesi si erano avventurari in quel pattugliamento convinti che si potesse fare così perchè “se lo fanno gli italiani, lo possiamo fare anche noi…” ma senza contare sull’organizzazione delle nostre truppe nè su i loro legami con le fonti sul territorio. Del resto i francesi in quell’area erano appena arrivati.

In sintesi, fermo restando il peso specifico dell’articolo del Times e la necessità di fare luce su queste accuse perchè senza chiarezza la credibilità di alleati dei militari italiani verrebbe minata, il racconto dei nostri soldati che hanno tirato a campare a Sorobi e di pagamenti che gli avrebbero spianato la strada, confligge con la storia sul campo fatta di sacrifici, combattimenti, rapporti con la popolazione locale e – non dimentichiamolo – con la perdita del primo Maresciallo Giovanni Pezzulo (vedi qui e qui) ucciso in un’imboscata avvenuta durante una distribuzione di aiuti umanitari.

La battaglia di Parmakan

Il link all’edizione integrale del Tg3 delle 14.20

Il link al servizio ripreso da Repubblica.it

Il link al servizio ripreso da Corriere.it

Il servizio dal sito del Tg3

Al Tg3 delle 14.20 di oggi è andato in onda un mio pezzo realizzato da Herat nei giorni scorsi con immagini esclusive da me ottenute da fonti non ufficiali. Le immagini documentano la battaglia del 23 e del 24 settembre scorsi nella Zyrko valley, distretto di Shindand, la parte più meridionale e più rischiosa della provincia di Herat. Una battaglia avvenuta in episodi distinti, sostanzialmente nella zona del villaggio di Parmakan e che ha visto impegnati i parà della folgore.

Nella valle si produce la maggior parte dell’oppio dell’Afghanistan occidentale (che è sostanzialmente una regione poppy-free), la Zyrko valley è inoltre una zona di etnia pasthu, tra le cui file la guerriglia è molto radicata. Una valle dove sin’ora non si avventuravano che le forze speciali, soprattutto americane. Nella zona, tra l’altro, da oltre due anni, si prova a costruire un ponte che sarebbe strategico per la mobilità nell’area.

Da luglio  il generale Castellano, con l’obiettivo di portare la presenza del governo di Kabul nell’area (dove tra l’altro a breve si rafforzerà la presenza militare italiana e non, vedi questo post di qualche giorno fa) vi ha schierato la task force elettorale, un pugno di uomini e donne che stanno lavorando intensamente nell’area al comando del Tenente Colonnello Alessandro Abamonte.

Le immagini mostrano la risposta al fuoco, con le mitragliatrici dei Lince, i fucili d’assalto in dotazione personale ma anche con panzer faust (una sorta di rpg) e mortai; si concludono con alcune scene dell’evacuazione medica dei feriti in elicottero.


AFGHANISTAN: SUL TG3 LA BATTAGLIA DEGLI ITALIANI A PARKAMAN

(ANSA) – ROMA, 6 OTT – Militari italiani in battaglia in Afghanistan. Il Tg3 ha mandato in onda un servizio con immagini
esclusive, ottenute da fonti non ufficiali, dei combattimenti che i parà della Folgore hanno sostenuto il 23 e il 24
settembre nella Zirko Valley, nel distretto occidentale di Shindand.
Il filmato, in particolare, è stato girato il 23 nei pressi del villaggio di Parmakan, dove gli italiani sono finiti sotto
attacco. Si vedono i blindati Lince fermi ai margini di un pianoro. Dall’altra parte un nemico invisibile, nascosto tra la
vegetazione, ma che spara con tutti i mezzi a disposizione: kalashnikov, razzi rpg, mortai.

Gli italiani rispondono e il crepitio degli spari è la colonna sonora del video. Quella battaglia, in un’area dove si
produce la maggior quantità di oppio dell’Afghanistan occidentale, dura due ore.
Sparano i mitraglieri sulle torrette dei Lince, sparano i loro compagni a terra con i ‘panzerfaust’: non c’é rischio di
fare vittime civili, la zona lì intorno è disabitata.
In quei due giorni di combattimenti nella Zyrko valley tre militari italiani sono rimasti leggermente feriti: uno il 23,
colpito a un gomito mentre si trovava al suo posto di mitragliere in ralla, e due il 24, uno ferito a una mano e
l’altro al collo. Nel servizio di Nico Piro si vede anche l’evacuazione di questi parà in elicottero, tra una nuvola di
polvere e sabbia.

APCOM Afghanistan/ Tg3 manda in onda battaglia della Folgore a Parkaman

Attacco talebano con razzi e lanciagranate, evacuazione feriti

Roma, 6 ott. (Apcom) – Una vera e propria battaglia fra parà della Folgore e talebani nel distretto di Shindand, la parte più pericolosa della provincia di Herat in cui è schierata la maggior parte dei militari italiani: è l’esclusiva del Tg3 mandata in onda oggi e relativa a combattimenti dello scorso 23 settembre.

Le immagini del servizio di Nico Piro, girate nei pressi del villaggio di Parkaman, sono state ottenute da fonti non ufficiali: i paracadutisti vengono attaccati dai miliziani con kalashnikov e razzi rpg e mortai in una zona stepposa, e si scatena una vera e propria battaglia. I soldati italiani sono costretti infatti a rispondere con mitragliatrici e anche con i lanciagranate ‘Panzerfaust’ e possono farlo senza rischi per la popolazione civile: la zona per fortuna è disabitata.

I militari italiani nei blindati lince combattono per circa due ore contro i nemici, e gli scontri si ripeteranno il giorno dopo: la zona, nota come Zirko Valley, è una delle più strategiche perché da qui viene la maggior della produzione di oppio dell’Afghanistan occidentale con cui i talebani si finanziano.
Per questo la coalizione Nato-Isaf sta cercando di ottenerne il controllo. E il generale Rosario Castellano, comandante della Regione Ovest Isaf sta utilizzando i parà della task force inviata per le elezioni.

Nei combattimenti di quei giorni vengono feriti tre parà italiani, per fortuna tutti in modo lieve: nelle immagini si vedono due di loro, colpiti alla mano e al collo, mentre sono evacuati in elicottero.