Tag: Onu

Idioti transoceanici

Anche a Kandahar arriva l’onda di odio anti-occidentale che sta scuotendo l’Afghanistan. Una decina i morti, diversi i feriti, i giornalisti aggrediti e tenuti a distanza dal corteo che stamane ha attraversato la città patria del movimento talebano. Una nuova, probabilmente non l’ultima, manifestazione islamista come quella di ieri a Mazar-i-Sharif una delle città più tranquille dell’Afghanistan dove pero’ la folla inferocita ha dato l’assalto alla locale sede dell’Onu, quattro guardie – esperti gurka nepalesti – travolti dai dimostranti, uccisi come i tre funzionari delle Nazioni Unite, un norvegese, un romeno, uno svedese. La polizia che spara sulla folla e fa altre vittime, almeno cinque e diversi feriti. E’ il peggior attacco di sempre contro l’Onu in Afghanistan, persino peggiore dell’attacco alla foresteria di Kabul nell’autunno del 2009.

A scatenare questa violenza la notizia di un pastore americano, esponente di una chiesa minore (fatta in casa – in America si può), che sulla scia degli annunci fatti dal pastore Terry Jones in settembre, ha processato, condannato e bruciato una copia del Corano. E a chi lo accusa di aver causato quelle vittime oggi Jones risponde, non è colpa mia ma solo dello spirito violento della religione islamica.
Una storia che ci conferma come la stupidità bigotta che abita nella più remota provincia americana possa fare danni incalcolabili anche oltreoceano, a migliaia di kilometri. Ci dice anche un’altra cosa: fermo resto che la dinamica dell’assalto mi sembra ancora molto strana e che ci potrebbero essere stati errori nella sicurezza del compound Onu, se fosse vero che i talebani hanno agito mescolandosi alla folla si confermerebbe la loro ormai ridotta capacità di colpire obiettivi militari limitandosi a “soft target”. Stamane, inoltre, hanno provato a colpire camp Phoenix, la base americana nella città di Kabul, con un commando suicida vestito in burqa. Assalto fallito.

Attacco ad Herat, perchè preoccuparsi

Cinque kamikaze; indosso il burqa a coprire la cintura esplosiv; l’ormai classica tecnica del primo che si fa esplodere per aprire la strada agli altri che irrompono sparando; la reazione delle guardie della sicurezza che riesce a fermarli, uccidendoli. Secondo le ultime ricostruzioni, sarebbe questa la dinamica dell’attacco di stamane alle sede Onu di Herat. Un’attacco che, per fortuna, è andato a vuoto. Oltre agli attentatori, ci sarebbero solo un paio di guardie ferite, il personale delle Nazioni Unite è riuscito a rifugiarsi nella “strong room” dell’edificio, al sicuro. Nel pomeriggio sarà poi evacuato nella vicina base italiana, Camp Arena, all’aeroporto di Herat, dove passerà la notte.

Nonostante sia fallito, l’attacco di oggi è preoccupante. Se nell’ottobre del 2009, poco prima del (poi cancellato) ballottaggio delle elezioni presidenziali, a Kabul era stato colpita una guest house utilizzata dalle Nazioni Unite, uccidendo sei funzionari di Unama, è la prima volta che si colpisce una sede ufficiale della missione – un salto “mediatico” di qualità. Ed è la prima volta che un attacco così massiccio e potenzialmente devastante, viene condotto ad Herat che sin’ora – nonostante il peggioramento degli ultimi mesi – è stata considerata una città sicura per gli standard afghani. Del resto la responsabilità della sicurezza nell’area urbana potrebbe essere presto passata formalmente alle forze di sicurezza afghane, in quel processo (in parte sostanziale, in parte simbolico) che vuole dare “visibilità” al disimpegno delle forze Isaf. 

Più che la rivendicazione talebana, fatta pervenire all’agenzia AFP, in realtà è la dinamica a portare la firma degli studenti coranici, in un ‘area dove si intrecciano interessi di potenti locali e dei potenti vicini iraniani e dove quindi è facile equivocare l’origine di certi fenomeni. Che cosa possa significare questo attentato è presto per dirlo. Come l’attacco alla sede di UsAid (la cooperazione statunitense) di quest’estate in un’altra ex-area sicura, Kunduz, potrebbe però essere un nuovo segno della strategia della guerriglia di espansione dell’area di operazioni. L’obiettivo è sempre più di portare il terrore in tutto il Paese, in maniera più diffusa e più omogenea guardando la mappa. E’ una risposta mediatica, strategica e logistica alle offensive Isaf in aree come l’Helmand e Kandahar (vedi questi aggiornamenti dal campo pubblicati da NY Times e AFP nei giorni scorsi) che stanno spingendo i guerriglieri a lanciare attacchi nel resto del Paese, perchè per loro è impossibile fronteggiare direttamente le truppe organizzate di un potente esercito regolare come quello americano ma è molto facile diffondere il terrore, destabilizzare altre aree e “fare notizia”. Devono inoltre, spesso, spostarsi per trovare rifugio e per cercare aree dove è più facile colpire, “sbilanciando” le truppe straniere ormai sempre più concentrate sul sud.

Non è ancora chiaro se l’attacco di Herat di oggi faccia parte di questa strategia, di certo è un segnale da tenere sotto controllo con grande attenzione. Dopo la “caduta” del Nord-Est (ormai segnato da una fortissima presenza di guerriglieri, afghani e non), il nord-ovest con l’eccezione di alcune sacche (come l’ “italiana” Bala Morghab) è ancora parzialmente stabile. Il che vuol dire che potrebbe essere il prossimo bersaglio di una campagna di attacchi dall’alto profilo mediatico, come avrebbe potuto essere quello di oggi, e di terrore a vasto raggio per destabilizzare le autorità localo. In questo le province nord-orientali di Taqar e Kunduz offrono un copione almeno in parte, tristemente, replicabile.

Lo stallo

Karzai al voto - copyright np 2010
Karzai al voto - copyright np 2010

La guerra dei numeri è già cominciata e durerà a lungo. Almeno l’anno scorso per le presidenziali, Karzai emise un bando governativo sulla diffusione delle notizie di attacchi durante il giorno delle elezioni.

Quest’anno invece, nel dopo-elezioni parlamentari, stiamo assistendo al balletto dell’interpretazione delle cifre, forse volto a guadagnare un po’ di tempo per capire davvero com’è andato questo voto. Ho letto una nota Isaf questa mattina che notava come il numero degli attacchi nella giornata elettorale è stato sì maggiore del 2009 ma con meno vittime. In realtà anche il numero delle vittime è in dubbio (21 secondo il ministero degli interni, 7 secondo Isaf senza contare anche i militari stranieri), esattamente come quello dell’affluenza (stimata ottimisticamente al 40%) la cui base di calcolo non appare chiara (17 milioni di tessere elettorali diffuse dal 2005? 12,5 milioni di elettori registrati?).

Quello che conta di queste elezioni non sono i risultati (i candidati si presentano individualmente, non in una lista di partito e il parlamento tutto sommato non conta che pochissimo nel sistema iper-presidenziale afghano) ma la portata dei brogli che ci sono stati di sicuro (episodi fisiologici, perchè siamo pur sempre in Afghanistan? Oppure frodi massicce, sistematiche e organizzate come un anno fa?) e appunto la partecipazione al voto che è direttamente collegata a violenze e disillusione degli afghani. Insomma queste elezioni contano in quanto prova d’appello per la credibilità della democrazia afghana, dopo la truffa delle presidenziali. Credibilità nei confronti degli afghani e soprattutto degli alleati stranieri (o meglio delle relative pubbliche opinioni). E’ ancora presto per esprimersi su questi punti ma i primi indizi sono più che negativi, di certo è apprezzabile la cautela dell’inviato dell’Onu, De Mistura, il quale afferma che è troppo presto per definire queste elezioni un successo. Domani la Fefa, la fondazione che autonomamente monitora le elezioni, in una conferenza stampa potrebbe emettere un giudizio drasticamente negativo, aspettiamo. In quanto alle violenze, il punto di tutta questa vicenda non è il numero di incidenti secondo me, ma il fatto che questa volta non si siano concentrati solo nel sud e nell’est ma si siano verificati in tutto il Paese. Notevole invece che a Kabul sia tutto filato liscio come l’olio, segno che il nuovo sistema di check point (ring of steele, di memoria nord-irlandese) ha funzionato. L’affluenza (per ora stimata a 4 milioni) di certo è inferiore a quella delle presidenziali, quando votarono 6 milioni di elettori sulla carta da cui detrarre un milione e mezzo di false schede e relativi elettori.

Se è un miracolo
che le elezioni si siano svolte nell’Afghanistan di oggi, è altrettanto chiaro che la guerriglia si è fatta sentire e non poco. Ma se i talebani non riescono a boicottare in pieno le elezioni, il governo non riesce a difenderle fino in fondo. Un altro segno dello stallo che sta vivendo questo paese. Una guerra che nessuno può vincere, nè gli uni nè gli altri. Quale sia la via d’uscita da questo “stand off” è difficile persino immaginarlo anche se Karzai domani presenta il suo “consiglio” per la pace…

Mistero Afghano

Era il 16 febbraio del 2006 e il ritrovamento dei due cadaveri in una guest-house di Kabul veniva raccontato (vedi per esempio la BBC) come un banale incidente per una stufa maneggiata male. Quei due corpi erano di Stefano Siringo e Iendi Iannelli, due cooperanti italiani impegnati in Afghanistan con l’Onu e l’Idlo (l’International Development Law Organizzation, una ong dedicata allo sviluppo dei sistemi giudiziari nei paesi poveri). Successivamente si parlò di una morte per overdose, droga purissima. “Il manifesto” in edicola oggi racconta un’altra storia, quella di un mistero sul quale purtroppo sta per calare il drappo nero dell’archiviazione. L’inchiesta, firmata da quel cronista di razza che è Carlo Lania e dall’inviata di esteri Giuliana Sgrena, delinea un quadro inquietante sul quale i parenti chiedono si faccia luce. In pratica i due italiani avrebbero scoperto un giro di fatturazioni false per un milione e mezzo di euro all’interno del progetto Onu e la circostanze della loro morte fanno pensare ad un’esecuzione, con la droga iniettata all’inguine. Movente, la necessità di mettere a tacere due testimoni scomodi.
L’articolo potete leggerlo qui…questa la sua conclusione:

Immunità diplomatica
Un aiuto prezioso all’accertamento della verità potrebbe fornirlo l’Idlo, accettando di mostrare i bilanci alla magistratura. Fino a oggi, però, ogni richiesta in tal senso avanzata dalla procura di Roma è stata respinta dall’organizzazione, che prima si è detta disposta a presentare i bilanci poi, si è avvalsa dell’immunità diplomatica. A una richiesta di intervista da parte del manifesto, la risposta dell’ufficio stampa dell’organizzazione è stata netta: «Idlo non ha nessun commento da fare sulle vicenda oltre a confermare che ha risposto e continuerà a rispondere a ogni richiesta pertinente che provenga dalle autorità competenti». A novembre dell’anno scorso, dopo che alcuni articoli di stampa erano tornati a parlare della strana morte di Siringo e Iendi, da parte dell’Idlo c’è stata infatti una nuova disponibilità a fornire la documentazione richiesta al magistrato, a cui però ha fatto seguito un ripensamento. «Fino a data odierna», scrivono l’11 marzo scorso i carabinieri del Nucleo investigativo al pm Palamara, non è stata ricevuta alcuna comunicazione/documentazione né direttamente dall’Idlo, né per il tramite del Ministero Affari Esteri, nonostante le reiterate richieste effettuate per le vie brevi presso gli uffici preposti».

Presidente del “posto peggiore dove nascere”

Kabul dall'alto np©09
Kabul dall'alto np©09

Non ha rinunciato alla sua chapan, la stola di Mazar-i-Sharif a righe verdi e blù che lo fece definire l’uomo più elegante del mondo, ma ieri l’atmosfera per il secondo giuramento da presidente di Hamid Karzai era ben diversa rispetto a cinque anni fa quando gli occidentali lo adoravano. Oggi invece sostanzialmente non riescono a liberarsene e (purtroppo per tutti) nemmeno ad ammettere che è l’unico presidente possibile per l’Afghanistan, ovvero quello con il quale dovrebbero lavorare insieme.

Karzai ieri ha giurato
, entrando così nel suo secondo quinquennio da presidente. Il suo discorso probabilmente verrà ricordato come quello delle promesse impossibili o almeno di una in particolare, quella di “afghanizzare” il conflitto entro cinque anni ovvero di affidare all’esercito ed alla polizia afghana i compiti di sicurezza e di lotta ai talebani. In pratica il compimento della exit-strategy a cui pensano gli occidentali. Una promessa impossibile da realizzare fosse solo per l’impossibilità in cinque anni di rimettere in piedi l’aviazione afghana che solo ora sta muovendo i primi passi e che è indispensabile per tutte le operazioni militari (oggi, tanto per fare un esempio, il presidente afghano si sposta all’interno del proprio paese a bordo di aerei della guardia nazionale degli Stati Uniti).

La seconda promessa di Karzai è quella di battere la corruzione, tanto che organizzerà – promessa nelle promessa – anche una Loya Girga, una grande riunione tribale per affrontare il problema. Non so se questa è una promessa irrealizzabile al cento per cento nel paese del Bahkshish (il regalino, la mancia, la mazzetta), ma per valutare la serietà delle intenzioni su questo tema come su tutti gli altri impegni assunti da Karzai, non resta che aspettare la lista dei ministri. La composizione della stessa lista probabilmente è il peggior grattacapo che Karzai abbia mai avuto nella sua vita vista la pioggia di compromessi che ha sottoscritto in questi anni di governo e in campagna elettorale.

Al suo fianco, a giurare sul corano, c’era anche Mohammad Qasim Fahim, signore della guerra, sospettato di aver trafficato droga durante un suo viaggio ufficiale in Russia quando era ministro della difesa, e vicepresidente designato durante la campagna elettorale da Karzai. Per la verità si era sperato (mi riferisco agli occidentali) che il diabete di cui Fahim pare soffrire in maniera grave (e che gli avrebbe impedito di partecipare alla campagna elettorale) risolvesse la palese “incompatibilità”, ma la sua presenza alla cerimonia ha smentito i menagrami.

In sala, c’era però anche l’altro peso sullo stomaco
della comunità internazionale nonchè macigno sulla strada di un paese senza (o con un po’ meno) corruzione, ovvero Rashid Dostum, uzbeko signore della guerra e massacratore di talebani (e non) che dopo un periglioso percorso dovrebbe tornare nell’esecutivo o comunque aspetta un ricompensa visto che nella sua provincia (Juzjan) Karzai ha conquistato oltre il 65% contro il 25 di Abdullah, risultati ben superiori alla media del nord afghano.

Nell’attesa della lista dei ministri, vista anche la centralità del governo (o meglio di un governo credibile) un’analisi dell’agenzia AP ci fa sapere che l’amministrazione Obama avrebbe già risolto il problema ovvero stabilendo dei canali diretti di aiuto e finanziamento a clan, villaggi, distretti ecc. ecc. scavalcando il governo di Kabul. Una mossa che di sicuro risponde alla logica frammentata della società afghana ma che, se non maneggiata con cura, potrebbe finire con l’indebolire ulteriormente ogni speranza di restituire al paese un governo centrale .

Intanto ricordiamo a tutti (o meglio ai pochi dubbiosi) che l’Afghanistan è il posto peggiore dove poter nascere, lo hanno sancito oggi le Nazioni Uniti con uno di quegli studi della serie “mai più senza…”. Che sia un utile lettura almeno a Washington e nelle principali capitali europee?

“Rispondente agli standard di sicurezza Onu”

“Un security approved” e’ la scritta che compare sulle brochure delle migliori guest house e dei principali alberghi di Kabul, la lista dei posti dove poter alloggiare “rispondenti agli standard di sicurezza Onu” viene aggiornata ogni mese e resa pubblica. In questi giorni suona come un altro degli amari paradossi afghani. Le Nazioni Uniti si apprestano a rimpatriare o rilocalizzare (pare a Dubai) buona parte del proprio staff internazionale, circa 600 unita’ su 1100-1200 funzionari. In totale sono quasi 6000 gli operatori Onu in Afghanistan, in buona parte locali. Una decisione presa proprio di fronte al peggiorare delle condizioni di sicurezza nel Paese ma soprattutto dopo l’attacco taleba alla guest house dove c’erano diversi membri dello staff internazionale, cinque dei quali sono stati uccisi (tra le altre vittime). In pratica l’Onu, con la decisione di ieri, sta dichiarando di non essere in condizioni di garantire la sicurezza del proprio personale. Del resto che la situazione, con queste due fiammate elettorali, sia peggiorata l’ho capito notando come la casa del Dr. Abdullah sia stata circondata da t-wall (ovvero muri anti esplosione prefabbricati) e l’ex-sfidante di Karzai ormai anche in casa sua si faccia seguire da un panshiro alto due metri.

Alloggiare a Kabul per gli “internazionali” sta diventando sempre piu’ un problema, gli standard onu si sono ridotti ad una barzelletta e quindi non sono piu’ una guida utile o meglio sono solo un riferimento di massima, altri posti come l’hotel Serena (il principale albergo della capitale) sono obiettivi per definizione e quindi e’ il caso di evitarli (nonostante – devo dire – siano estremamente confortevoli visto il contesto). In realta’ non esiste una scelta ideale, di questi tempi, bisogna cercare un compromesso. Questa volta, per esempio, ho deciso di dormire nella guest house che ospita il punto di riversamento satellitare che usiamo per le dirette e l’invio di servizi in Italia. Ho preferito evitare di dover attraversare mezza citta’ alle tre di notte (colpa del fuso orario!) come capitato ad agosto e settembre per poter raggiungere il satellite dal mio albergo. Il rischio di sequestri di occidentali si e’ innalzato troppo negli ultimi tempi.
La mia guest house e’ quindi una buona soluzione se non fosse che ospita anche un top target, ovvero l’ufficio di corrispondenza di una grande tv americana. Compromessi appunto, compromessi tra il rischio di essere sequestrati di notte e quello di vedere i talebani attaccare un network americano. Questa guest house non e’ gestita da locali ma da un gruppo di security contractor, chiamateli mercenari o guardie private se volete (il dibattito e’ ancora aperto). Devo dire che normalmente non mi sono simpatici ma questi hanno il grande merito di non farsi vedere armati anche quando vanno in bagno e non di portare fucili d’assalto con lanciagranate a colazione, mi sembrano piu’ concentrati sul versante “intelligence”, anche in senso letterale.

Al mio arrivo mi hanno consegnato il modulo di registrazione degli ospiti, il piu’ strano che abbia mai visto. Dopo i dati anagrafici e quelli del passaporto, c’era la sezione sui segni di riconoscimento (tatuaggi, cicatrici) con notizie sanitarie varie…a concludere la sezione “proof of identity” le domande chiave da usare in caso di sequestro per dare ai negoziatori la prova che al telefono stiano parlando proprio con te. Il cocktail di benvenuto non era compreso nel prezzo ma gli ospiti della guest house sono simpatici, giornalisti e tecnici anglo-americani, mentre tanti europei arrivano a riversare i propri pezzi al satellitare; almeno cosi’ ci si ride un po’ sopra.

Nuova escalation a Kabul

Se con l’attentato del 15 agosto contro l’Isaf, i talebani hanno dimostrato di poter colpire anche sin davanti la porta di casa della missione militare internazionale in Afghanistan, se con quello del 17 settembre, che ha visto morire sei militiari italiani, hanno dimostrato di poter portare un’inedità quantità di esplosivo nello stesso super-sorvegliato quartiere della città; gli attacchi di oggi segnano una nuova escalation nell’offensiva talebana sulla capitale, ma questa volta significativa non tanto per la loro capacità militare (ormai appurata) quanto per la natura dei bersagli.

A venir colpiti sono stati due obiettivi “civili” , il messaggio chiaro è che non ci sono più zone franche a Kabul e che (come annunciato dai talebani nel loro proclama anti-elettorale) sono un obiettivo tutti coloro che collaborano alle elezioni, in primis quindi gli occidentali che – per motivi di competenze – hanno un ruolo centrale nel processo. Non esistono più zone franche se si considera che la guest house (una sorta di bed&breakfast – nella capitale ce ne sono tantissimi) per il personale Onu attaccata oggi è in una zona notoriamanete controllata dai signori della guerra, dalla mafia dei nuovi ricchi che dopo il 2001 ha preso quell’area con la forza per poi costruirci sopra case in stile pakistano da affittare a cifre astronomiche. Una zona, il distretto di Sherpur, nella quale non c’erano di fatto mai stati attacchi e che è piena di guest house, di case di diplomatici e di uffici di media internazionali.

Al riguardo vedi per esemio questo video dell’attacco, girato da una delle case vicine dall’operatore Craig Johnston. Precisamente Craig l’ha girato da una delle postazioni live usate da molte tv internazionali per le dirette (Tg3 incluso), qualcuno rinoscerà lo sfondo che, per esempio, mi ha “accompagnato” durante le elezioni che i giorni della strage del 17 settembre.

Il Serena Hotel, l’altro obiettivo colpito, è una sorta di consiglio di sicurezza onu in sede periferica; battute a parte, si tratta di un albergo di lusso dove trovano posto tantissimi diplomatici, esperti di ricostruzione, consulenti, giornalisti e umanità varia. Quindi, di nuovo, quasi in contemporanea colpito un altro “legame” tra occidentali e processo elettorale afghano. C’è da notare che il Serena viene colpito con razzi (pur insolitamente precisi, a riprova che i talebani hanno più tempo per lanciarli sono quindi più sicuri sul campo) non con un attacco “di terra” come avvenuto invece nell’inverno 2008.

Armi “smarrite” e lo spettro delle milizie locali

Come accaduto in Iraq, anche in Afghanistan si sono “perse” migliaia di armi destinate all’esercito (ANA) e alla polizia (ANP) che sono molto probabilmente finite nelle mani della guerriglia. Lo si scopre grazie al rapporto di una commissione governativa (statunitense) di controllo (qui per leggerlo in versione integrale). Per la precisione si è persa traccia di oltre 220mila armi, in prevalenza armi leggere ma anche mortai.

Della loro distribuzione era incaricato l’esercito americano (caricato dell’ennesimo compito non-combat, al quale evidentemente non era preparato).

 

Metto questa notiziainsieme  ad un’altra, quella della formazione delle milizie locali, che tante preoccupazioni sta scatenando in Afghanistan, perchè mi sembra evidenzi bene le insidie che si nascondono dietro la formazione di forze di sicurezza ufficiali, figuriamoci di quelli “informali”. L’idea della Afghan Public Protection Force, sostenuta e finanziata dagli americani (che si occuperanno di divise e di…armamento), è stata presentata qualche giorno fa dal Ministro degli Interni a Kabul. E’ evidentemente il tentativo di esportare in Afghanistan, il modello degli “awakening councils” iracheni che tanta parte hanno avuto, per esempio, nella stabilizzazione del “triangolo sunnita”. Un’idea non casualmente supportata per l’Afghanistan dal generale Petraeus che della strategia irachena è stato protagonista.

 

In un territorio vasto, orograficamente difficile e privo di infrastrutture di comunicazione come quello afghano, semplicemente, ci troppo pochi poliziotti e militari per difendere i villaggi e le zone rurali. Da qui l’idea di affidarsi a milizie locali, leggasi tribali che di per sè sono stanziali sul territorio. Perchè questa idea fa paura? Perchè le aree dove la sicurezza è più critica sono quelle dominate dall’etnia Pashtu (tra le cui fila è nato e si è radicato il movimento Talebano), armare milizie pashtu significherebbe creare le condizioni per una nuova guerra civile, lungo le faglie delle divisioni inter-etniche. Tra l’altro c’è da ricordare (i precedenti in questo articolo della BBC) che già i sovietici provarono a servirsi delle “arbakai” le milizie pashtu, a risultati inizialmente positivi seguirono poi effetti decisamente negativi.


L’Afghanistan è già di per sè, un paese già inondato di armi che – per orografia e condizioni generali – sono patrimonio di ogni famiglia e dove grazie ai profitti dell’oppio e alla vicinanza di fornitori (“imitatori” cinesi e pakistani) sempre più armi stanno arrivando negli ultimi anni. Immetterne di nuove in questo circuito significherebbe esporsi al rischio di ridare fiato ai signori della guerra e alla certezza di smentire i programmi di disarmo che l’Onu dopo il 2001 ha portato avanti faticosamente e grazie ai finanziamenti della comunita’ internazionale.

Rifornimenti, aumento delle truppe, miliziani, vittime civili e…

Il-logistica
Un convoglio di camion rimasto bloccato lungo la strada tra il passo Khyber e l’Aghanistan (interrotta dopo che i talebani hanno fatto saltare uno dei suoi ponti) è stato attaccato questa mattina dai talebani pakistan, che bruciandone dieci hanno così ulterirormente ricordato ai comandi militari occidentali che la rotta dal porto di Karachi e attraverso la frontiera “Pak-Af” è ormai del tutto impraticabile peccato che garantisca il 75% dei rifornimenti alle truppe straniere nel paese. In un post di ieri l’inquadramento di una questione apparentemente solo tecnica ma che è cruciale e politica, questione aggravata dalle recenti decisioni del governo del Kyrgyzstan. Per approfondirla si può leggere questo Op-Ed del New York Times di oggi, firmato da George Friedman del gruppo di analisi Stratfor, che evidenzia come la questione si giochi tutta nei rapporti sull’asse Washington-Mosca via Nato. Dell’articolo non condivido le conclusioni (What we need in Afghanistan is intelligence, and special operations forces and air power that can take advantage of that intelligence), rimaste al 2001, alla prima enduring freedom. Nel frattempo la strategia della Economy of Force si è dimostrata fallimentare sia in Afghanistan che in Iraq.

Obama, l’aumento delle truppe e…il Pakistan
Mentre continua ad essere dato per imminente (domenica?) l’annuncio del Presidente Obama sull’invio di 3 nuove brigate in Afghanistan (circa 15mila uomini in più) ma evidentemente, il complicarsi del quadro “logistico” (e gli inciampi di Obama nel suo staff ministeriale) non aiuta queste decisioni, la testata on line statunitense Politico.com rivela in questo articolo esclusivo che al Presidente è stato consegnato un memorandum del Joint Chiefs of Staff. I più sono stati colpiti dal fatto che questo memorandum invita, di fatto, ad allargare l’area delle operazioni militari americane alle aree tribali del Pakistan (dove fin’ora hanno operato solo aerei senza pilota e i loro missili “hellfire” a caccia dei capi di Al Qaeda), aspetto sul quale Obama si è più volte detto d’accordo in campagna elettorale. Quello che mi ha colpito del documento, per la verità, è il fatto che definisce come troppo vasti gli obiettivi nel Paese dell’amministrazione Bush e piuttosto che puntare a fondare una democrazia islamico-moderata di stile occidentale in Afghanistan (obiettivo di lungo periodo) invita a concentrarsi sull’eliminazione di Al Qaida e delle sue basi, in altre parole di evitare che i due paesi (Afghanistane e Pakistan) tornino ad essere utilizzati come basi per nuovi attacchi contro l’America come accaduto in passato.

Vittime In-Civili

Sono 2.100 i civili uccisi in Afghanistan nel 2008 in relazione ai combattimenti in corso, il 40% in più rispetto al 2007 (1523 le vittime due anni fa). Il dato viene calcolato da un rapporto delle Nazioni Unite (che hanno una missione nel paese chiamata Unama – il rapporto in questione è però da attribuire ai funzionari del dipartimento diritti umani) ancora in una sua versione non definitiva. Delle 1800 vittime civili (conteggiate fino alla fine di ottobre) 1000 sono da attribuire a Talebani e signori della guerra locali, 700 alle truppe occidentali (455 delle quali uccise in raid aerei), 100 vittime sono ancora da “attribuire”. Gli operatori umanitari uccisi nel corso dell’anno sono stati 36, 96 quelli rapiti nei primi dieci mesi del 2008.

La spia “buona”
Il MOD, il ministero della difesa britannico, ha confermato le indiscrezioni di stampa circolate in questi giorni, secondo cui un ufficiale (un colonnello) dell’esercito di Londra è stato arrestato in Afghanistan, dov’era di stanza, perchè sospettato di aver diffuso dati segreti. Non è la prima volta che accade (un soldato-interprete di un alto ufficiale è stato condannato a dieci anni di carcere perchè considerato spia iraniana) ma questa volta i dati “sensibili” che sarebbero stati “spiati” sono quelli delle vittime civili, passati – questa l’accusa – ad organizzazioni per i diritti umani.

Miliziani
Mentre montano le perplessità sul progetto americano di impiegare milizie locali al fianco dell’esercito regolare (ne parleremo nei prossimi giorni), oggi il Ministro alla Difesa ha parlato di altri miliziani. In una conferenza stampa a Kabul ha dichiarato che molti combattenti integralisti si stanno spostando dall’Iraq per arrivare in Afghanistan ed unirsi ai Talebani (che vengono stimati in 15mila unità). Nel corso degli scontri dell’ultimo anno, secondo il ministro Rahim Wardak il 60% dei combattenti talebani era composto da stranieri.