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One shot

Gli unici dettagli sulla dinamica li conosciamo dal portavoce del governatore della provincia di Maidan-Wordak: “i talebani hanno sparato un razzo e hanno abbattuto l’elicottero”. Nella cautela di una circostanza del genere, l’Isaf ammette la presenza di “enemy fire” nell’area, insomma si stava combattendo.
Secondo i primi dettagli emersi, l’elicottero si stava alzando in volo dopo aver recuperato una squadra delle forze speciali, mista americano-afghana, durante un’operazione notturna contro un gruppo di talebani…poi lo schianto.

A morire sono stati 38 uomini, 31 americani e 7 afghani. Il peggior bilancio di sempre per numero di caduti (per le truppe straniere) in un singolo incidente, dal 2001 ad oggi.
Il 2011 si avvia a togliere il primato al 2010 come numero di militari stranieri caduti (sui civili ammazzati siamo già al record).

Maidan-Wardak è una provincia in mano ai talebani, un corridoio verso Kabul, sulla quale gli americani stanno lavorando da ben prima della “surge” (l’aumento delle truppe) voluto da Obama. L’incidente di ieri notte sarebbe potuto capitare in qualsiasi altro momento, un colpo “fortunato” nella macabra contabilità della guerriglia, ma accade proprio ora che l’occidente ha avviato la fase di transizione, il passaggio della responsabilità della sicurezza da forze occidentali a forze afghane. L’operazione che dovrebbe portare nel 2014 al ritiro delle forze straniere. Questo episodio diventa così l’ennesimo evidente segno che la situazione in Afghanistan sta precipitando di giorno in giorno e ai progressi militari nel sud degli americani, la guerriglia risponde portando caos, terrore e morte in giro per l’Afghanistan.

Dell’episodio di ieri notte (la cui notizia è stata diffusa da Karzai attraverso una nota di condoglianze) c’è ancora molto da sapere, sono convinto che verranno fuori in futuro notizie interessanti anche sull’operazione stessa, così tragicamente conclusasi. Resta un dubbio “tecnico” ovvero l’arma usata dai talebani, se si è trattato di un “classico” rpg sovietico non cambia nulla, è stato un “gran” centro (balisticamente parlando), ma resta l’ipotesi che armi più precise e con vocazione “anti-aerea” siano state nelle mani del gruppo, un dato non secondario per gli occidentali che nel controllo dei cieli trovano un elemento di superiorità tecnologico-militare decisivo verso ribelli che meglio conoscono il terreno e sono in numero superiore.

Ma questi sono aspetti che si chiariranno in futuro, per ora resta lo shock dell’America in un mondo mediatico dove lo stillicidio quotidiano di vite – anche se il totale è tristemente lo stesso – fa meno notizia di 38 vittime in un colpo solo.

La ‘badar’ contro gli italiani

Negli ultimi trent’anni di conflitti in Afghanistan, la primavera ha sempre sancito l’inizio della stagione dei combattimenti, con i rinforzi per i ribelli (mujaheddin ieri, talebani oggi) in arrivo dalle basi del vicino Pakistan attraverso le montagne finalmente sgombre dalla neve. Ma quest’anno i talebani l’offensiva di primavera l’hanno annunciata formalmente, con inizio il primo maggio, denominandola Badar, come una storica battaglia contro gli infedeli.
L’ultimo mese in Afghanistan è stato segnato da attacchi clamorosi come i due giorni di combattimenti a Kandahar, l’attacco all’ospedale militare di Kabul e l’ultimo attentato suicida nel nord del Paese che ha gravemente ferito il capo delle truppe tedesche e ucciso il locale capo della polizia. Un tour dell’orrore, partito dal sud e che – con l’attacco di oggi ad occidente – ha praticamente colpito tutti i quadranti del Paese.

E’ in questo contesto che si inserisce l’attentato di oggi contro la città di Herat, una città relativamente tranquilla rispetto al resto del Paese tanto che è previsto a brevissimo il passaggio di consegne tra militari italiani e forze di sicurezza locali. La prima tappa nel percorso previsto dalla coalizione Isaf che dovrebbe portare entro il 2014 gli afghani ad essere responsabili della sicurezza nel loro Paese, con il ritiro degli occidentali. Per questo l’attacco di oggi ha un particolare valore simbolico

I talebani hanno colpito la base del Prt, il provincial recostruction team ovvero l’unità della missione italiana che si occupa della ricostruzione, degli aiuti ai civili, e che in questo semestre è gestito dal 132esimo reggimento della Brigata Ariete. Una base nel cuore della città, stretta tra gli edifici, intitolata al Capitano Vianini, che morì in un incidente aereo nella missione di ricognizione che portò poi alla creazione del Prt italiano. Una base particolarmente vulnerabile, adatta alla tecnica dell’esplosione kamikaze e poi dell’irruzione del commando armato, grazie proprio alle case vicine ed elevate dove – pare – siano rintanati alcuni ribelli, stando alle prime frammentarie ricostruzioni. Un obiettivo scelto anche per questo rispetto al super protetto Camp Arena la base principale italiana e multinazionale nei pressi dell’aeroporto di Herat.

Sabbia rossa

Operazione Sabbia Rossa ©Isaf 2011

E’ arrivata la primavera ma in Afghanistan non è solo una questione climatica, in luoghi come Bala Morghab (luoghi resi inaccessibili dalla neve in inverno) è l’inizio della stagione dei combattimenti. Puntuale è arrivata l’operazione Red Sand (sabbia rossa) condotta da uomini del 10mo cavalleria dello US Army, con il supporto dell’aviazione americana e degli italiani con compiti di osservazione, ovvero supporto agli scouts del Red Platoon nell’individuare i movimenti nemici. L’operazione, come raccontano le fotografie, è stata “pesante” soprattutto per quanto riguarda il supporto aereo, sono stati sganciate bombe GBU-38 (da 250 chili) e aerei B-1, bombardieri d’alta quota. Ed è consistita nell’uscire dalla cosiddetta bolla di sicurezza, l’area ritenuta sotto controllo da parte delle truppe occidentali, intorno alla Fob Columbus, fino a raggiungere una base talebana dove si producevano ordigni ied – racconta la nota dell’ufficio stampa Isaf. Diversi guerriglieri sono stati uccisi.

Al di là di come si sia svolta l’operazione (nella remota provincia di Badghis mancano fonti indipendenti), è evidente che ci

bombardamento sul bunker talebano ©isaf 2011
bombardamento sul bunker talebano ©isaf 2011

dice una cosa non secondaria, ovvero che (bolla o non bolla) la situazione nella valle del fiume Morghab resta ancora fuori controllo a quasi tre anni dall’arrivo della prima presenza stabile di militari occidentali. Bala Morghab è il fronte italiano più caldo, o almeno caldo come quello nell’ex-opbox Tripoli, a sud, sull’altro versante dell’area di operazioni Rc-West, a comando italiano. Nelle prossime settimane anche nella zona si completerà il dispiegamento della Folgore e vedremo altre operazioni del genere.


L’anno peggiore

Lo schianto è avvenuto nella provincia di Zabul, nel sud talebano, nove i morti: tutti americani (lo anticipa la Fox). Si portano dietro un triste primato, secondo conteggi indipendenti (iCasualties e Kabul Pressistan) con queste vittime, il numero dei caduti occidentali nel paese arriva almeno a quota 529. Anche se mancano tre mesi alla fine dell’anno, il 2010 è già il peggiore dalla caduta dei talebani. Segno di quanto infuri la battaglia in Afghanistan e di quanto sia difficile.

Altri numeri oggi arrivano dalla commissione elettorale che fissa al 47% l’affluenza alle urne, contando 4,3 milioni di elettori effettivamente presentatisi ai seggi. La base è al solito ballerina e si arrivà così a questa percentuale così alta che in realtà è riferita al più basso numero di elettori delle 4 consultazioni svolte sin’ora. La Fefa, organismo indipendente afghano che ha monitorato le elezioni (pochissimi gli osservatori internazionali) annuncia un vasto quadro di irregolarità (qui per una sintesi) anche se preferisce non pronunciarsi ancora sulla questione chiave: ovvero la portata dei brogli. In Afghanistan non potrebbero non esserci brogli, fisiologici per mille motivi (dall’assenza di sicurezza alla fragilità dell’apparato statale), il punto è capire se qualcosa è migliorato o no rispetto al quadro dei brogli sistematici e “di Stato” delle presidenziali del 2009. Sembrerà un dato per “intenditori” e appassionati della materia, ma da questo dato dipende la posizione degli alleati. Sarebbe sempre più difficile per l’occidente continuare a sostenere un governo tanto privo di credibilità.

Svolta in Afghanistan

Da dicembre 55 soldati dell’esercito nazionale delle isole Tonga verranno schierati in Afghanistan, prima parte di un contingente che in totale arriverà a 275 unità (sempre in turni di 55). Il parlamento ha votato il loro dispiegamento con 22 voti a favore e nessun contrario, giustificando la risposta alla chiamata del governo britannico con la necessità di rispondere al problema della disoccupazione. I soldati di Tonga guadagneranno 30 sterline al giorno e verranno impiegati in compiti di force protection, ovvero sorveglianza della principale base britannica, Camp Bastion nell’Helmand. Un impiego che ha fatto giudicare la missione più sicura di quella svolta in Iraq nel dopo-2003. Qui la notizia dal Matangi on line. Qui dal britannico daily telegraph. Tonga ha solo 100mila abitanti, quindi è il Paese che in assoluto contribuisce alla missione Isaf col maggior numero di truppe in rapporto alla popolazione. Il titolo ironico non è dovuto alla qualità dei soldati di Tonga, quanto al fatto che il loro dispiegamento in Iraq sollevò clamore perchè fu la riprova che la coalizione di George Bush in realtà non era che un monocolore americano. Se oggi il governo britannico deve spendere 2.6 milioni di sterline (dai trasporti alle divise) e occuparsi anche dell’addestramento per dare un po’ di fiato al suo malandato esercito, messo alle corde dalla missione afghana, beh non è davvero un buon segno.

Fare Scuola

Posa della prima pietra - Scuola "Ramadù - Pascazio"
Posa della prima pietra - Scuola "Ramadù - Pascazio"

Mentre, lunedì, a Bala Morghab il convoglio italiano finiva sotto attacco, più a sud nella provincia di Herat, quasi in contemporanea, il Prt italiano posava la prima pietra di una scuola. Verrà intitolata al sergente maggiore Massimiliano Ramadù e al caporal maggiore scelto Luigi Pascazio, i genieri della brigata alpina Taurinense uccisi proprio in quell’attacco. La notizia è arrivata dal comando italiano, poco dopo la fine dei funerali dei due caduti. Gli americani di solito intitolano ai caduti le loro basi (Fob Tillman, Camp Blessing…), gli italiani hanno scelto una scuola – mi sembra una differenza non da poco, al di là della retorica della missione di pace a cui ormai non crede più nessuno. Un gesto che, tra l’altro, forse contribuirà anche a dare un po’ di sollievo a famiglie dei due alpini, il cui dolore sarà comunque incancellabile.
Mi ha fatto piacere leggere quel comunicato – subito dopo, però, ho provato a guardare al 2020 o forse solo al 2015. Mi sono chiesto che cosa sarà di quella scuola tra dieci anni? Qualcuno in Afghanistan proverà a leggere quei due cognomi stranieri pensando a quello che hanno contribuito a fare per il loro paese o il tempo, la guerra, il caos avranno intanto cancellato tutto? Insomma mi chiedo quanto durerà la guerra e cosa resterà di quello che gli occidentali stanno facendo, nel bene e nel male, in Afghanistan. Sarà il dolore per queste due nuove vittime italiane, per gli altri occidentali che continuano a morire in giro per il paese, per le tante vittime afghane che “non fanno notizia” ma ogni giorno è sempre più difficile credere che il 2013 sia un obiettivo realistico per la fine della guerra.

Tutti a casa (2)

Piro e Botta a Korengal np©08
Piro e Botta a Korengal np©08

La valle non è più la “maledetta valle”. Come racconta questo resoconto del NY Times l’esercito americano ha abbandonato Korengal, una spaccatura in mezzo a montagne di tremila metri coperte di foreste (quantomeno) secolari, nella provincia di Kunar, al confine con il Pakistan, che molti ricordano come la “maledetta valle” o la “valle della morte”. Nel gergo tecnico che i militari tanto amano e che, forse, serve loro a non spaventarsi quando si parla di vita o di morte, Korengal era il posto più cinetico di tutto l’Afghanistan, traduco: quello dove si spara e ti sparano dalla mattina alla sera. A rendere famosa la valle ci hanno pensato questa sua qualità, le vittime militari, quelle civili e alcuni giornalisti come Tim Heterrington (che ci ha vinto il world press award del 2008) e poi con lui Sebastian Junger, co-autore del documentario Restrepo che ha vinto il Sundace ed è da poco in circolazione (ecco il suo editoriale sul NY Times). La chiusura di KOP è uno di quegli argomenti polarizzanti che i militari americani discuteranno per anni e che forse finirà in un film (un primo “filmino” ce l’hanno già girato i talebani). Della chiusura di Kop (l’unica doccia al mondo dove l’aereazione era fornita dai buchi di una sventagliata di mitragliatrice) ha scritto anche l’analista militare Gianandrea Gaiani sul Sole24Ore che tra l’altro (e lo ringrazio) mi cita per i miei reportage dalla valle. La foto pubblicata sopra mi ritrae con Gianfranco Botta del Tg3 prima della partenza dal Kop, da qui anche la risata liberatoria di entrambi. Insieme vinceremo poi il Premio Alpi proprio per un pezzo girato lì.

Non vorrei fare un’analisi militare e strategica sulla chiusura di Korengal, anche perchè ne ho già parlato mesi fa in questo post, anticipando proprio la chiusura di quel “fortino”. Vorrei solo fare delle considerazioni assolutamente personali. La valle non è più maledetta perchè i militari l’hanno lasciata, chi è riuscito a lasciarla tutto di un pezzo può essere felice. Saranno felici anche gli abitanti dei piccoli villaggi di quella spaccatura nella roccia che continuiamo a voler chiamare valle, un pezzo di medioevo nel terzo millennio; forse ora potranno dimenticare il lato orribile della tecnologia che abbiamo portato lassù come gli AC-130 e i missili hellfire. Korengal è l’icona dell’assurdità della guerra. Per chi crede in questo valore, è anche un monumento all’eroismo, inteso come sacrificio fine a se stesso e senza farsi troppe domande. Pensare che Kop non ci sia più, fa venire un senso di desolazione: a che sono serviti anni di combattimenti, vite perse e tonnellate di bombe? A nulla, è la risposta. L’unico conforto può venire da una speranza, quella di tornare a vedere quelli che sono tra i paesaggi più belli del mondo, senza giubotto antiproiettile e un Apache pronto a tirarti fuori dai guai. Forse capiterà, un giorno.

Prove di autodifesa

Cerimonia di fine addestramento Kabul 22 nov 09 (foto USFA)
Cerimonia di fine addestramento Kabul 22 nov 09 (foto USFA)

Mentre a Kabul si inaugura il nuovo centro per la formazione delle truppe afghane e il programma di addestramento accelerato per i soldati dell’Ana dà i suoi primi frutti (obiettivo 138mila unità entro il 2010), da Kunduz e da Nangharan arrivano notizie su iniziative di autodifesa “popolare”. Iniziative che potrebbero essere una speranza quanto una catastrofe per l’Afghanistan in preda al caos della guerriglia (purtroppo nel paese le alternative sono sempre estreme).

Nel nord del paese, si segnala (vedi questo lancio della Afp) la nascita di milizie spontanee, al solito su base di villaggio od etnica, per contrastare quello che è il nuovo fronte talebano che punta a bloccare la rotta logistica (i flussi di rifornimenti per le truppe occidentali dalle ex-repubbliche sovietiche) e che ha trasformato la un tempo (pochi mesi fa) pacifica provincia di Kunduz in una “no-go zone”. L’esperimento sta riuscendo bene dal punto di vista del contenimento dei talebani, male per le sue conseguenze (in pratica stanno nascendo nuovi signori della guerra che battono cassa sulla popolazione e i transiti) come spiega questo articolo del NyTimes.

In realtà l’articolo del quotidiano americano descrive principalmente un’altra micro-storia ma che potrebbe essere molto interessante, quella degli anziani della valle di Shinwari, nel distretto di Achin (sud-est al confine con il Pakistan). Anziani che dopo una lite con i talebani hanno preso le armi e (all’afghana) hanno organizzato i compaesani per difendersi. Un caso locale che ha spinto le forze speciali americane a pensare globale e ad intervenire locale fornendo approvigionamenti alla milizia che in futuro dovrebbe essere addestrata e dotata di radio.

La storia è emblematica perchè nella remota valle non c’è presenza del governo afghano (nè polizia, nè esercito ed è immaginabile che se ci fossero truppe straniere, la loro presenza scatenerebbe nuovi conflitti) ed è immaginabile che non ci sarà per anni visto che, in particolare la polizia, è indietro con l’addestramento delle nuove unità. E’ emblematica per la sua natura “micro”, iperlocalistica. In Afghanistan non ci sono tribù centralizzate come quelle sunnite in Iraq e quindi non basta un accordo per pacificare un’area, a volte ce ne vogliono centinaia.
Inoltre è evidente che la piccola dimensione può aiutare a non distogliere truppe per controllare aree inaccessibili e dal terreno montagnoso (che a parità di superficie moltiplica le forze necessarie) e soprattutto può evitare che crescano nuovi signori della guerra.

Ricordiamo che il generale McKiernan, precedente comandante delle truppe americane ed Isaf nel paese, aveva lanciato un progetto del genere (tra grandi polemiche e discussioni) nel gennaio scorso nella provincia di Logar, esperimento di cui si è persa traccia.