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Corrispondenze Afghane – Il libro

Il mio prossimo libro sull’Afghanistan è pronto e sta per essere spedito a chi lo ha preacquistato mentre si prepara un lungo book tour in giro per l’Italia (qui per le prima date). Nell’attesa che arrivino le prime copie dalla tipografia vi anticipo il titolo e altre informazioni utili:


CORRISPONDENZE AFGHANE
Storie e persone in una guerra dimenticata Continua a leggere “Corrispondenze Afghane – Il libro”

Che cos’è la guerra?

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KABUL – Se volete rispondere davvero a questa domanda – che cos’è la guerra – questa volta potete farlo senza grosse difficoltà, senza dovervi sorbire gli esperti di turno o leggere qualche impegnativo saggio. Guardare questi tre bambini, sono tra le dozzine di feriti arrivati oggi all’ospedale di Emergency a Kabul. Li ho seguiti da quando sono entrati attraverso il “main gate”, l’ingresso dove arrivano taxi carichi di feriti, ambulanze e dove si accalcano i parenti, feriti, una folla a volte persino feroce; l’ingresso dove stamattina un agente dell’NDS (i servizi afghani) mi ha chiesto di togliermi da lì perché aspettavano che l’attacco di un kamikaze un giornalista che faceva riprese avrebbe “incentivato” l’azione, alzano il valore del target colpito. Continua a leggere “Che cos’è la guerra?”

Le storie degli altri

Chi fugge da un luogo pericoloso, dalla guerra, dalla pulizia etnica, da una faida tribale, dalla persecuzione etnico-religiosa, crea una distanza fisica dal suo passato ma è destinato a portasi dietro la propria storia, per sempre, anche se riuscirà “altrove” a ricostruire per sé un’apparente dimensione di vita.
La diffidenza, l’ignoranza e le generalizzazioni (di ogni segno, comprese quelle sull’accoglienza “esibita”) ci impediscono di capire le storie di chi fugge e di comprendere come il suo passato, troppo spesso, sia destinato a tornare nel presente perchè chi se ne è allontanato, l’ha potuto fare solo in termini di coordinate geografiche.
Si tratti di un parente ammalato, di un amico in pericolo, di un’estorsione, di un ricatto o della richiesta di un favore a cui non puoi opporti, il passato ritorna sempre o quasi, è statistico ; sempre o quasi attraverso quei cari che ti sei lasciato alle spalle e che ti hanno aiutato a fuggire.
Presentato oggi alla stampa alla Casa del Cinema (dal 20/9 nelle sale), il film di Costanza Quatriglio “Sembra mio figlio” ha il merito di aprire un varco nella barriera “invisibile” che separa noi dalle storie di rifugiati e migranti. Ha il merito di mostrarci uno spaccato che è specifico, dettagliato, individuale: una storia vera, di certo verosimile ma non per questo “universalizzabile”, categoria che , in un modo o nell’altro, finisce sempre per sminuire il dramma del singolo.
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Il sapore della vittoria

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War Machine è un film straordinario, “purtroppo” disponibile solo su Netflix perché meriterebbe – anche in Italia – un pubblico più vasto. Racconta – pur non citandolo direttamente – della storia del generale McChrystal incaricato da Obama (con il quale mai ebbe buoni rapporti o rapporti del tutto) di rivedere lo sforzo bellico americano in Afghanistan e raggiungere la vittoria. Storia raccontata dal punto di vista di Michael Hastings, il giornalista di Rolling Stones che – tra determinazione e fortuna, sotto forma di un vulcano dal nome impronunciabile – riuscì ad avere un “accesso” senza precedenti al generale e al suo staff, per un racconto che lo porterà poi alle dimissioni. Hastings morirà poi in circostanze ancora oggi considerate misteriose ma lascerà un volume, The Operators in cui la storia scritta per RS si espande e guadagna dettagli.
Il film scarnifica senza pietà i motivi della sconfitta afghana, caricaturizza McChrystal se non fosse che fa emergere l’ingenuità di un personaggio chiamato a confrontarsi con una corte di politici, diplomatici e cooperanti piuttosto che con una missione solamente militare e “combat”. Se l’ambientazione di Marjà (l’ulcera sanguinante, come venne definita all’epoca la località nell’Helmand) è terribile, la scena dell’incontro con i civili e della reazione all’imboscata con l’uccisione di un bimbo, contribuiscono a completare quello che è un ciclo di affreschi o di “stencil murali” sulla guerra più lunga. Buona visione.

Troppo pochi

La guerra in Afghanistan ricomincia, verrebbe da dire, se non fosse che non è mai finita. Diciamo che ricomincia per l’America, che già spende 23 miliardi di dollari l’anno per la missione afghana con un dispiegamento di circa 8000 unità. L’amministrazione Trump si prepara a mandare altri 3000 uomini. a tagliare i caveat al loro utilizzo al fianco delle truppe afghane (“taglio” delle restrizioni già cominciato con Obama) e a cancellare i limiti all’uso dei bombardamenti (l’indiscrezione poi confermata, è del WP). La decisione finale è attesa dopo il summit della Nato del 25 maggio, ma è evidente che Washington si aspetta un aiuto dagli alleati. Solo per la cronaca ricordiamo che l’Italia è il secondo Paese contributore alla missione “Resolute Support”, missione che formalmente ha compiti di addestramento delle forze di sicurezza afghane.

La svolta matura in un quadro complesso, del quale sono pubblici sostanzialmente solo due elementi: le altrettante richieste dei vertici militari (il capo della missione afghana e il generale che guida il comando delle forze speciali) di avere più truppe sul campo.
Gli elementi da valutare sono però molteplici:  Continua a leggere “Troppo pochi”

Ci siamo (in libreria)

Ci siamo (in libreria)

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Da venerdì scorso 25 novembre “Afghanistan Missione Incompiuta” è in libreria, sia nei negozi “fisici” che su quelli virtuali (come Amazon, Feltrinelli, Mondadori).  Se la vostra libreria di fiducia non ce l’ha disponibile può ordinarlo attraverso il principale (e ormai unico) distributore italiano, Messaggerie.

Per il periodo natalizio il libro potrà essere acquistato anche negli “spazi di Natale” di Emergency e una quota del prezzo di copertina verrà devoluta all’organizzazione di Gino Strada (Ecco l’elenco dei “mercatini” – occhio all’elenco e alla distinzione tra spazi e punti, dalla distribuzione del libro sono esclusi i “punti natale”)

In realtà, il libro è in circolazione dal giugno scorso quando è stato consegnato ai crowdfunder, è poi cominciato il ciclo di incontri e presentazioni (spesso incrociato con la proiezione del documentario Killa Dizez). Da quel momento sono state vendute circa 1200 copie, una risposta chiara a chi continua a pensare che “alla gente temi come l’Afghanistan non interessano” (e lo pensa o per errore o per malafede).

 

Ci vediamo il 16 giugno!

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Ci siamo: Il libro è in stampa, tra pochi giorni lo riceveremo dalla tipografia. Le copie dei crowdfunder verranno personalizzate e spedite ma chi vorrà potrà ritirarle di persona allo spazio Lantanta in via dei Fienaroli 31 a Trastevere (Roma) il prossimo 16 giugno, dalle 18.30 alle 21.
Vi aspettiamo per un piccolo brindisi (siamo pur sempre un progetto indipendente quindi non vi aspettate il buffet di rito!), per conoscerci e/o per rivederci.
Sarà anche possibile acquistare copie del libro ad un prezzo più basso di quello di copertina, ovviamente il prezzo scontato del crowdfunding non sarà mai più ripetuto anche per una questione di rispetto verso chi ha creduto nel progetto sin dal primo momento.
Intanto eccovi la copertina del libro…che arriverà in libreria solo a settembre per via del complesso sistema della “cedole” che regola l’uscita e la distribuzione dei nuovi titoli. Chi intanto volesse comprarne una copia può farlo qui.
Chiunque fosse interessato ad organizzare una presentazione attraverso istituzioni, librerie, associazione, biblioteche e così via…puoi contattarmi qui.

PS: per chiarezza l’evento del 7 giugno è stato annullato, ci vediamo direttamente il 16/6

Fuoco indiretto

E’ un rumore sordo, quasi ovattato, che echeggia da lontano, è un colpo “incoming”. Significa che a sparare non sono i “nostri” mortai, quelle dell’Isaf, ma i “loro” quelli della guerriglia. Nel linguaggio militare che riesce, brillantemente, a sterilizzare qualsiasi parola che possa evocare paura, viene definito “tiro indiretto”, c’è chi parla anche di “fuoco indiretto”. I mortai, come i razzi, arrivano a parabola, salgono in cielo e poi ricadono, anche a chilometri di distanza, quasi mai prendendo il bersaglio, arrivandoci vagamente vicino salvo il caso in cui al tiro ci sia un esperto “calcolatore”.

In Afghanistan attacchi del genere nemmeno si contano, sono all’ordine del giorno. Se parla solo quando costano la vita chi li subisce, come accaduto purtroppo sabato al sergente Michele Silvestri, mentre altri cinque soldati italiani hanno riportato ferite. Almeno due di loro verranno segnati da quell’attacco per il resto della loro vita (per inciso, stanno per essere trasferiti al centro medico americano di Ramstein in Germania).

Gli afghani
riescono a muoversi agevolmente sulle loro aspre montagne, riescono a portarsi dietro un mortaio che pesa diverse decine di chili e un massimo di tre colpi, lo sistemano alla buona (altro che messa “in bolla” o calcoli di trigonometria) e sparano in rapida successione sul bersaglio per poi sparire tra le rocce. Il bersaglio sono quasi sempre le evidentemente immobili basi occidentali, soprattutto quelle fob, quei fortini assediati dalle montagne come la base italiana “Ice” in Gulistan, provincia di Farah. L’area nella quale, a tutt’oggi, si contano più caduti italiani. 

I guerriglieri vanno per tentativi, a occhio,
 per questo anche solo per avvicinarsi al bersaglio ci vogliono almeno un paio di “sortite”. Quando i colpi di mortaio arrivano sul bersaglio, in Afghanistan le truppe occidentali, di solito, pensano a combattenti stranieri, come ai “leggendari” ceceni di cui gli americani favoleggiano nella provincia di Logar.
In risposta partono colpi di mortaio che spazzano le alture ma quasi mai riescono a fermare gli attacchi o – per usare il linguaggio ufficiale dell’esercito italiano – a “neutralizzare” gli aggressori (leggi: farli a pezzi).

Mi è capitato diverse volte di trovarmi in una base sottoposta ad attacchi del genere, la prima “mortaiata” ti spaventa, le altre sembrano lontane, poi ti ci abitui e quasi non ci fai più caso nemmeno quando parte la “serie” di colpi di risposta, un boato vicino che invece si squassa dentro.
E’ la routine del conflitto afghano, quella nel mezzo della quale vivono migliaia di soldati occidentali e molti più civili che hanno la sfortuna di ritrovarsi ad abitare nel posto sbagliato. Una routine di cui sarebbe giusto parlare più spessi, descriverla, per far capire quanto complesso sia quel conflitto, quanto pericoloso, quando assurdo nella sua logica di combattimento.
E  anche per non meravigliarsi quando arriva un tragico pomeriggio in cui uno di quei colpi di mortaio cade sul bersaglio, utilizza un cortile per amplificare la sua onda d’urto, spara schegge, sassi e ogni genere di frammento in un ciclone di morte che raggiunge persino le case italiane a migliaia di chilometri di distanza.

Qui Base Afghanistan

La grande assemblea tribale convocata dal presidente Karzai si è conclusa dopo tre giorni di lavori, dei quali gli osservatori occidentali hanno capito molto poco. I meccanismi del potere che si irradiano nella società afghana sono troppo complicati per i non afghani e presuppongono una conoscenza di quel contesto che nessuno (in quest’altra parte del globo) sembra possedere. Per esempio non abbiamo ancora capito se gli anziani, i capi tribali, le donne, gli ex-combattenti e quant’altro chiamati sotto la grande tenda fossero davvero uno spaccato della comunità afghana o solo amici dei Karzai a cui è stata concessa una vacanza a Kabul. Diciamo che (per aggiungere una nota di colore) non sappiamo nemmeno da dove nasca il mito del 39, numero saltato nelle quaranta commissioni della Jirga, perchè in Afghanistan da qualche anno è considerato il numero del “lenone”.

Senza sapere se la Jirga sia stata o meno legittimata a predendere le decisioni che ha preso, non sappiamo quanto gli atti conseguenti che prenderà Karzai saranno davvero condivisi dal popolo afghano.
Di certo Washington è stata accontentata: a condizioni da definire (alias i soldi che la Casa Bianca verserà nelle casse afghane) gli americani potranno restare nel Paese fino al 2014, l’Afghanistan diventerà la più importante base statunitense in questo pezzo di mondo. Posizione strategica per colpire l’Iran, fare paura alla Cina, controllare la “bomba” pakistana. Fanno poco testo le parole di Karzai che, in chiusura di lavori, ha detto che “mai il territorio dell’Afghanistan sarà fonte di minaccia per altre nazioni”.

Del resto Karzai sa che rischia di fare la fine di Najibullah, l’ultimo presidente filo-sovietico, capace di resistere dopo il ritiro dell’armata rossa (l’Isaf si ritira nel 2014) solo grazie agli aiuti militari di Mosca e solo fino a quando quegli aiuti arrivarono. Karzai senza gli Stati Uniti (soldi e potenza di fuoco) a Kabul resterebbe per molto poco.

L’assemblea ha anche “benedetto” (non ha poteri decisionali) la decisione, già presa da anni, di trattare con i talebani. La guerriglia ha già fatto sapere che la Jirga non era altro che una riunione di dipendenti del governo, respingendone le conclusioni.

Effetti Collaterali

Il sei novembre è stata celebrata – nel silenzio generale – la giornata dedicata ad una particolare vittima di guerra: l’ambiente.
Una vittima silenziosa e di cui si parla pochissimo. Qualche giorno dopo quello in cui il calendario registrava “the International Day for Preventing the Exploitation of the Environment in War and Armed Conflict” (forse celebrato poco anche per via di un nome tanto lungo…), è arrivata una notizia dalla Libia che conferma quanto alta possa essere la posta in gioco per l’ambiente in caso di un conflitto.

Non parliamo di armi chimiche e nucleari (sulle quali pure si è sbilanciato il governo libico di transizione, senza offrire però conferme e dati di fatto) ma parliamo dell’oro rosso del Mediterraneo che non è più l’ormai raro corallo ma bensì il tonno che si candida, suo malgrado, a diventare parimenti raro.

Stando ai segnali radio captati durante il conflittoriferisce la Bbc – nel Golfo della Sirte è stata individuata una forte concentrazione di tonnare “volanti”, quel tipo di barche che riescono ad allestire “camere della morte” in alto mare per cacciare i banchi di tonni; banchi che arrivano in Mediterraneo per compiere quel processo riproduttivo, impossibile in Atlantico.
Su quelle barche viene montato, per disposizione della Ue, un Vessel Monitoring System, in pratica una sorta di scatola nera.

Da quando la Sicilia (e le sue tradizionali tonnare “a terra”) è stata tagliata fuori dalla pesca perchè ai banchi viene dato l’assalto in alto mare, è proprio la Libia quella parte di Mediterraneo dove la pesca al tonno riesce meglio (tra l’altro le condizioni di pesca sono più favorevoli che nel “duro” mar Egeo).
Oltre ai segnali radio, nel dossier che verrà presentato al prossimo meeting dell’ICAAT (l’ICAAT è la poco efficace “The International Commission for the Conservation of Atlantic Tunas”) c’è anche la lettera a Wwf e GreenPeace di una “gola profonda” dell’industria ittica che fa accuse (ed è un fatto rarissimo in un settore chiuso a riccio) precise sulle violazioni compiute dalle flotte tonniere.
I dettagli sono ben graditi ma c’è poco da meravigliarsi se si considera un rapporto del mese scorso – citato dalla Bbc – secondo cui è stato messo in vendita sul mercato tonno del Mediterraneo pari al 140% di quanto “legalmente” pescato.