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Troppo pochi

La guerra in Afghanistan ricomincia, verrebbe da dire, se non fosse che non è mai finita. Diciamo che ricomincia per l’America, che già spende 23 miliardi di dollari l’anno per la missione afghana con un dispiegamento di circa 8000 unità. L’amministrazione Trump si prepara a mandare altri 3000 uomini. a tagliare i caveat al loro utilizzo al fianco delle truppe afghane (“taglio” delle restrizioni già cominciato con Obama) e a cancellare i limiti all’uso dei bombardamenti (l’indiscrezione poi confermata, è del WP). La decisione finale è attesa dopo il summit della Nato del 25 maggio, ma è evidente che Washington si aspetta un aiuto dagli alleati. Solo per la cronaca ricordiamo che l’Italia è il secondo Paese contributore alla missione “Resolute Support”, missione che formalmente ha compiti di addestramento delle forze di sicurezza afghane.

La svolta matura in un quadro complesso, del quale sono pubblici sostanzialmente solo due elementi: le altrettante richieste dei vertici militari (il capo della missione afghana e il generale che guida il comando delle forze speciali) di avere più truppe sul campo.
Gli elementi da valutare sono però molteplici:  Continua a leggere “Troppo pochi”

Ascesa e (mancata) caduta di Karzai

L’alleato di cui l’occidente non può fare a meno e che non può fare a meno di criticare. Ormai già da almeno due anni è questa l’immagine di Hamid Karzai ma i cablogrammi diplomatici riservati, diffusi da Wikileaks in una nuova ondata di rivelazioni, scolpiscono questa immagine con la spontaneità del linguaggio di chi scrive in segretezza. “Debole”, “Paraonico” sono solo alcuni degli aggettivi utilizzati per descrivere il presidente afghano.

Ma è la lettura cronologica dei dispacci diplomatici a colpire di più, la cronaca di un leader rispettato che aveva il privilegio di parlare ogni settimana con il presidente Bush diventato, man mano che la situazione precipitava in Afghanistan, invece un uomo inadeguato agli occhi dell’alleato americano. Incapace  Karzai, in primo luogo, di fermare la corruzione che prospera nel suo governo e si nutre dei finanziamenti occidentali. Dai cablogrammi emergono dettagli sul vicepresidente, il fratello di Massoud, trovato con oltre 50 milioni di dollari ad Abu Dhabi dove già questa estate erano stati trovati grossi investimenti immobiliari anche di uno dei fratelli di Karzai, da sempre accusato di essere un trafficante di droga – accusa ribadita nei dispacci.

Gli americani hanno perso sin’ora 1400 uomini in Afghanistan, oltre ottocento i caduti degli altri alleati internazionali compresi i 34 militari italiani morti in missione. Gli occidentali sanno bene che fin quando il governo sarà un oppressore, esattore di tangenti agli occhi ai danni cittadini afghani, questi non si schiereranno mai dalla sua parte e non sarà mai possibile vincere una già difficile guerra. Quello che non sanno è con chi sostituire Karzai.

Link a documenti e articoli:
New York Times – Corruzione
New York Times – Karzai
The Guardian – I 52 milioni di dollari del fratello di Massoud
L’archivio sui “cables” del Guardian
Il punto del Guardian su 5 giorni di rivelazioni

La guerra “prorogata”

Senza grandi clamori si sta consumando a Washington una svolta nella strategia afghana dell’amministrazione Obama che riguarderà, ovviamente, tutti gli alleati non solo le truppe americane. Se fossimo in Italia diremmo che la guerra è stata “prorogata”.

Quando Obama alla fine del 2009 aveva annunciato a West Point la sua “surge” afghana, l’aumento delle truppe americane in Afghanistan, aveva posto come data di inizio (e sottolineo inizio) del ritiro il luglio 2011. Una scelta onesta o politicamente ingenua, se volete, perchè il presidente avrebbe potuto scegliere una data successiva alla verifica elettorale, le presidenziali del 2012. Stupida secondo i Repubblicani e molti militari perchè poteva essere letta dai talebani come un “resistiamo per un anno e mezzo, tanto poi se ne vanno”. Alla conferenza di pace di Kabul del giugno scorso, Karzai però parla di forze di sicurezza afghane pronte a cavarsela da sole nel 2014, per la gioia di Petraeus. Ed ecco che lentamente nell’amministrazione Obama (visti anche gli scarsi progressi sul campo) si aggiorna il calendario, l’1 diventa 4 e si passa così al 2014. La svolta viene anticipata dal NY Times con questo articolo al quale segue l’anticipazione, pubblicata oggi, di un piano di passaggio dei compiti di sicurezza da truppe straniere ad ANA e ANP che verrà discusso nell’imminente summit di Lisbona. Se è la prima volta che il passaggio di consegne (requisito indispensabile per il ritiro) viene formalizzato e calendarizzato, si conferma in pratica che la guerra nella visione (inizialmente troppo ottimista, ora è certificato) di Obama durerà almeno fino al 2014. Tutto questo senza annunci, dirette televisive, titoloni. Sembra quasi che l’America sia sempre più contagiata dall’attitudine dei governi europei a stare in Afghanistan e far finta di non esserci.

Karzai e Petraeus. E’ su questo sfondo che l’altro grande quotidiano americano il Washington Post pubblica un’intervista a Karzai (qui il link) che ha fatto non poco arrabbiare il generale Petraeus (vedi qui le sue reazioni) chiedendo in pratica agli americani di ridurre l’intensità delle operazioni militari. In particolare, il presidente ha criticato i “night raids” che sono – per la verità – da sempre una delle attività che hanno scavato un solco tra la popolazione afghana e gli stranieri, che sfondano porte nel cuore della notte a caccia di talebani e spesso fanno vittime civili. C’è però da dire che i night raids negli ultimi mesi si sono fortemente concentrati sulla dirigenza talebana, in alcune aree letteralmente decimata, uno dei cambiamenti voluti da Petraeus (da qui la sua reazione negativa alle parole di Karzai). E’ chiaro che il presidente in un’intervista in buona parte condivisibile (se non avesse sbocchi irrealistici nell’Afghanistan di oggi) di fatto, visto anche il tempismo della sua uscita, manifesta la sua insofferenza per l’alleato americano e certifica come ormai i rapporti siano sempre più faticosi e poco recuperabili…insomma dalla vigilia della visita a Washington della primavera scorsa, poco è cambiato. Per non farci mancare niente, in un quadro sempre più complesso (all’afghana appunto), il mullah Omar si fa sentire e in un messaggio smentisce l’esistenza di colloqui di pace. Lo fa proprio all’inizio del periodo dell’haji, il pellegrinaggio a La Mecca, che già l’anno scorso era stata l’occasione per incontri tra il governo e i talebani. Perchè avremmo combattuto contro i russi, per lasciare posto agli americani? Si chiede il fondatore del movimento dei talib.

Una giornata qualunque

Ci tenevo ad essere a New York per questo nono anniversario dell’attacco alle torri gemelle e, seguendo le imprevedibili strade della vita, ci sono riuscito. Non è il mio primo anniversario, ero qui nel 2002 come nel 2006 e almeno un altra volta. Sono quindi in grado di fare qualche paragone.
Se non dimenticherò mai la New York de “un anno dopo”: città deserta, spettrale, ripiegata su se stessa e quasi risucchiata dalla paura, una città come forse mai la si era vista prima; con gli anni ho assistito ad una New York sempre più stanca di piangere, pronta ad applicare anche all’11 settembre quella voglia di cambiare, costruire e ricostruire che è nel dna della “grande mela”.

Nove anni dopo, la transizione mi sembra ormai completata, se nel 2010 il tempo era esattamente lo stesso che in quell’11 settembre del 2001, questa volta le famiglie erano tutte prese a fare acquisti per il “back2school”, i parchi pieni come la pista ciclabile lungo l’Hudson, lo shopping implacabile come sempre, non meno della vita nei ristoranti.  New York si è stancata di piangere, vuole guardare avanti, eppure – per questo motivo mi è venuta voglia di scrivere questo post – il dolore di New York viene usato dai non-newyorkesi per giustificare l’ “esistenza del nemico”. Dando un occhio, in contemporanea, agli schermi di FoxNews e alle strade di New York, si assisteva a questa straniante visione per cui calava il lutto in luoghi lontani mentre nel luogo-bersaglio di quel giorno che ha cambiato la storia recente del mondo, si preferiva pensare ad altro. I soliti liberali new yorkesi, avrà pensato più di qualche “red neck” tradizionalista.

Mi colpisce questa che è una risposta della gente alla politica, il coraggio di guardare avanti invece che “fossilizzare” il pur sacrosanto dolore per trasformarlo in strumento di nuovo dolore. Anche se guardiamo ai media, di questo nono anniversario si è parlato soprattutto per la scelta di un pastore “nazista” (chiamo così tutti quelli che vogliono bruciano libri, romanzetti “harmony” compresi) che nella sua Florida si era lanciato nella giornata del falò coranico. Se la bbc descrive Terry Jones, come un pastore la cui congregazione non riuscirebbe a riempire un autobus per quanti pochi fedeli ha, invece gli è ben riuscito di spargere odio e morte nel mondo. In Afghanistan (vedi anche qui per un quadro sulle prime manifestazioni), si sono contate già due vittime nei cortei anti-occidentali. Al reverendo dedicherò un pensiero speciale (scoprite quale) quando tra poche ore a Kabul camminerò per strada e la gente avrà un motivo in più per odiare gli “americani” ovvero gli stranieri tutti. Sono sicuro che molti occidentali che si muovono al di là del filo spinato in Afghanistan faranno lo stesso.

Diario minimo

Ho passato molte ore a leggere una parte, seppur minima, dell’enorme massa di informazioni messe ieri on line da wikileaks.org (qui il data base) con un’inedita collaborazione con tre diverse testate in altrettante giurisdizioni nazionali (per comprenderne il meccanismo si veda questo dettagliato articolo del Guardian) volta ad evitare che le “notizie” si perdessero in questo mare di file che, se stampati, probabilmente occuperebbero decine di scaffali.

La più importante delle rivelazioni contenute in questi documenti mi sembra essere quella sull’imprecisione della TaskForce 373 e sui dubbi di leggitimità sulla suo “scopo sociale” (uccidere capi talebani), per il resto è la conferma (“in the own words” dei militari) di tutta una serie di problemi e di fragilità, tutto sommato noti. Personalmente, tra quello che ho potuto leggere
mi ha molto colpito il diario “minimo” della guerra che emerge da molti di questi rapporti.  Si tratta di piccoli episodi, dai commenti sulla distribuzione di aiuti che entusiasma gli americani (convinti di poter ottenere il supporto della popolazione locale) allo stillicido di attacchi quotidiani che siano contro una scuola, una pattuglia di poliziotti afghani, un gruppo di guardaspalle di politici locali; i racconti dei tanti scontri a fuoco “minori” sino agli attacchi con razzi e colpi di mortaio contro le fob (basi operative avanzate) occidentali. E’ il racconto di una guerra la cui quotidianità, tra disattenzione dei media e le politiche propagandistiche degli uffici stampa militari, svanisce dalle cronache accessibili al pubblico. E’ così che alla gente (se volete ai contribuenti occidentali che questa missione pagano) non arriva che un racconto frammentario del conflitto; racconto che tocca i suoi picchi, sostanzialmente, in occasione di grandi massacri di civili, di vittime militari (soprattutto se della nazionalità di riferimento – quella di chi legge), di visite ufficiali di politici. Un problema generale di tutti i Paesi membri di questa missione (imbarazzante per troppi governi), problema che in un paese come l’Italia è particolarmente evidente. Lo è di meno in America – anche per la sua tradizione di cronaca militare. Anche per questo ho particolarmente apprezzato la scelta del New York Times di pubblicare una di queste storie minori, quella dell’outpost Keating (clicca qui per l’articolo) nell’inaccessibile provincia del Nuristan. Chiunque voglia capire che cosa sia la guerra in Afghanistan dovrebbe leggerlo. Personalmente, nei limiti dei mezzi dati, ho sempre provato a raccontare la guerra nella sua quotidianità, la vita ordinaria dei militari occidentali sul campo. Sono sempre stato convinto che siano queste storie “minori” molto più del giornalismo e dell’opinionismo militante (di ogni versante) a far capire alla gente che cosa sia davvero la missione Afghana e se valga la pena o meno di continuarla. Se navigate dentro i “war diaries” – magari alla caccia della grande notizia che per ora non sembra esserci – non trascurate questi brandelli di storie dal campo. Basta leggerne alcune per capire tutto.

Pietra Tombale

Sarà anche irresponsabile come dice la Casa Bianca pubblicare i 92mila documenti segreti come oggi hanno fatto il New York Times, Der Spiegel e il The Guardian, ma forse è ben più irresponsabile continuare a voler tenere il coperchio sulla pentola in ebollizione di una guerra che è sempre più ingestibile, arrivata com’è ai tempi supplementari, anche e soprattutto grazie alla magnifica strategia degli anni passati di Bush e Rumsfeld. Come è altrettanto irresponsabile, da parte delle fonti governative (americane e non), raccontare all’opinione pubblica internazionale che le cose vanno sì male ma poi non così male come invece si capisce, chiaramente, da questi documenti scritti dai militari in prima persona, ovvero da chi quella guerra combatte a rischio della proprio vita.
Soprattutto se si guarda alla scelta del New Times (ben descritta in questa nota ai lettori) di controllare in dettaglio i documenti, riscontrarne l’autenticità (che del resto il governo americano non mette assolutamente in dubbio in questi primi commenti) e soprattutto di non pubblicare dati sensibili ma non indispensabili a capire il contesto del “racconto” (come per esempio i nomi degli agenti segreti o degli uomini delle forze speciali che operano sul campo come quelli delle fonti afghane – proprio per non metterne in pericolo la vita) si capisce che poi di irresponsabile c’è ben poco.

I dati vengono dall’organizzazione wikileaks.com (vedi qui http://wardiary.wikileaks.org/) che in anticipo rispetto alla pubblicazione di oggi, qualche settimana fa, li ha forniti alle tre testate internazionali – proprio per consentire loro la rielaborazione giornalistica di materiali altrimenti indigesti per la loro enorme mole; farebbero parte dello stock di dati classificati trafugati da un giovane militare americano (attualmente agli arresti in Kuwait, per quanto se ne sa) servendosi semplicemente di un finto cd musicale (in realtà un disco riscrivibile). Dati poi passati – come il video del massacro iracheno dei due giornalisti Reuters e di diversi civili – proprio a wikileaks.org
A proposito se vi trovare a Londra, martedì 27 il fondatore dell’organizzazione sarà ospite del FrontLine Club per una conferenza che si preannuncia interessante. Julian Assange è stato per mesi in fuga in giro per il mondo, proprio per prepare la diffusione di questi documenti e di un’altra vasta quantità dei quali non si sa ancora nulla.

Non ho avuto ancora il tempo di leggere nel dettaglio almeno una parte dei documenti, delle fonti originali (che riserveranno probabilmente anche qualche commento e qualche notizia sull’attività dei militari italiani), ma le sintesi giornalistiche (qui il dossier del NY Times, qui quello del The Guardian, e quello di Der Spiegel – purtroppo per me solo in tedesco) sono molto interessanti ed utili per navigare nel mare magnum di questi rapporti classificati. Sostanzialmente, i filoni delle”rivelazioni” sono quattro e riguardano tutti i punti criciti della guerra in Afghanistan: le vittime civili; l’utilizzo modello far west delle forze speciali; il ruolo dei servizi segreti Pakistan; la guerra delle ied. A prescindere dal racconto che ne emerge (perchè a tratti si legge come un racconto fatto da inconsapevoli protagonisti) queste rivelazioni potrebbero essere ricordate più che per quello che rappresentano di per sè, come un colpo al governo americano già alle prese con non pochi problemi interni. Ovvero come una pietra tombale sull’idea che questa guerra si possa raddrizzare o come ritiene il generale Petraeus che la dottirna McChrystal sia sì buona ma applicata male sin’ora.
Resta ovviamente l’interrogativo sul che fare in Afghanistan, ma leggo in giro (come sul Financial Times di qualche giorno fa) che iniziano ad emergere soluzioni fantasiose come la scissione del sud, elemento base di un costituendo Pashtunistan. La confusione mi sembra essere l’unica certezza, ora che – applicata seppur parzialmente la nuova strategia di Obama – la situazione peggiora invece che migliorare e non c’è più nemmeno la speranza di un anno fa, ovvero che le nuove direttive, le nuove idee potessero capovolgere il quadro del conflitto.

Pietre (e teste) rotolanti

Sembra un dejavù, eppure è tutto vero. Era circa un anno fa quando dalla Casa Bianca arrivava la scelta di fare fuori il capo della missione militare in Afghanistan, il generale McKiernan dopo l’ennesima strage di civili (avvenuta nell’italiano comando di nord-ovest). Obama voleva cambiare pagina, voleva persone nuove al comando capaci di dare un segno di discontinuità e attuare una nuove strategia per l’Afghanistan, la sua – quella sbandierata in campagna elettorale. Ecco perchè decise di fare come Truman durante la guerra di Corea e sostituì, senza troppi complimenti, McKiernan con McChrystal (vedi qui). Oggi, tredici mesi dopo, è McChrystal ad essere rimosso o meglio a vedere accolte “le sue dimissioni”. Eccole nella lettera che il comando Isaf da Kabul si è affrettato a distribuire nel rispetto della forma ma di fronte ad una sostanza che è ben diversa:

Statement by General Stanley McChrystal

This morning the President accepted my resignation as Commander of U.S. and NATO Coalition Forces in Afghanistan. I strongly support the President’s strategy in Afghanistan and am deeply committed to our coalition forces, our partner nations, and the Afghan people. It was out of respect for this commitment — and a desire to see the mission succeed — that I tendered my resignation.

It has been my privilege and honor to lead our nation’s finest.

Il motivo della cacciata di McChrystal, che probabilmente lo porterà alla pensione visto che la sua carriera militare è virtualmente finita, è  in questo articolo (The Runaway General) pubblicato il 22 giugno dal magazine americano “Rolling Stones” dopo un mese trascorso al seguito del generale da Michael Hasting (suo il non-imperdibile libro autobiografico I Lost My Love in Baghdad: A Modern War Story). Un articolo che ha il merito di mettere tra virgolette, ovvero con citazioni testuali, le tensioni nel vertice che dovrebbe governare la strategia afghana alias le già note e/o sospettate tensioni tra McChrystal e il vicepresidente Biden, l’ambasciatore americano Eikenberger e Holbroke l’inviato di Obama per l’area Af-Pak. Cose intuite e intuibili da mesi ma è tutta un’altra storia leggerle in questa esclusiva corrispondenza dall’interno del ristretto gruppo di lavoro del generale più potente del mondo (ormai ex). Senza considerare l’aggiunta delle critiche al presidente (“comandante in capo” di tutti i militari americani, McChrystal incluso). I modi spicci e le frasi dove “shit” diventa il sinonimo pressochè di qualsiasi cosa, fanno parte della cultura dalla quale proviene McChrystal – quella delle forze speciali e – francamente – non mi fanno molta impressione anche se hanno sollevato il grosso del clamore negli Stati Uniti molto attenti alla forma quando è sinonimo di disciplina. Il punto critico dell’intera vicenda, a mio avviso, è quello di un quadro dove la Casa Bianca e i suoi uomini sono ridotti a controfigure (ben al di là dell’immaginabile) e “tutto il potere” è finito nelle mani di un solo uomo che lo utilizza con la spregiudicatezza di una “special op forces” ma senza la statura istituzionale dovuta alla gravità del caso.
Inattesa (vedi per esempio qui tra gli articoli della vigilia) ma inevitabile la rimozione di McChrystal da parte di un presidente mai apparso così debole (complice il caso BP e le passeggiate solitarie sulle spiagge del Golfo). Il punto però adesso è un altro ovvero cosa sarà della strategia afghana di McChrystal? Obama si è affrettato a dire che non cambierà (vedi qui) ma McChrystal non ha solo comandato la missione afghana come accaduto ai suoi predecessori, l’ha anche profondamente rimodellata nel bene e nel male. Per esempio, aumentando la presenza sul territorio e quindi i combattimenti, restringendo in maniera estrema le norme sui bombardamenti aerei e mettendo al centro di ogni azione, il ruolo della popolazione locale. Insomma, la sostituzione di McChrystal non è cosa facile anche se non è di certo di basso profilo la scelta del suo sostituto, il generale Petraeus, il re delle flessioni risbattuto da Tampa, Florida, nel mezzo di un nuovo caos come quello afghano ben diverso dal conflitto iracheno da cui era uscito “vincitore”. Petraeus è in parte ispiratore della strategia di McChrystal ma non sarà facile per lui indossare un abito su misura, cucito per qualcun altro. Tutto ciò non farà altro che sottrarre tempo a scelte cruciali che dovranno essere prese a breve, a cominciare da una valutazione obiettiva di questi mesi di aumento delle truppe e della presenza militare straniera, voluta proprio da McChrystal e in qualche modo estorta alla Casa Bianca con la vicenda di quel rapporto segreto del generale recapitato al Washington Post – vicenda che oggi assume tutto un altro valore.

La maledizione dell’Afghanistan sembra colpire ancora, qualunque Paese straniero si ritrova impegnato in quel Paese finisce con il ritrovarsi destabilizzato al suo interno

Un’ultima osservazione, il lungo articolo di RS merita di essere letto anche perchè racconta aspetti sin’ora inediti del personaggio McChrystal, della cui carriera si sa molto poco; carriera solitamente aggettivata come shady – per via del suo ruolo al vertice delle forze speciali – è in buona parte coperta da quello che in Italia chiameremmo segreto di Stato.

Karzai, l’americano

Con la conferenza stampa di oggi alla Casa Bianca, dove persino le bandiere afghane sembravano più grandi o meglio illuminate, di quanto accade di solito in questi incontri, ha toccato il suo apice l’operazione mediatico-diplomatica voluta dall’amministrazione Obama in occasione della visita del presidente Karzai. In realtà gli americani sono preoccupati di ben altro che della visita del presidente afghano nel loro Paese (altro a cominciare dai disastri dei petrolieri), l’operazione di cui sopra è tutta rivolta a Karzai, a rassicurarlo, a mostrarlo in patria saldamente in sella, ed a ricucire legami sfilacciati dagli interventi maldestri degli americani da quando George W. Bush ha lasciato lo studio ovale.

Un’operazione che ha tanto di “afghano” nello stile cortigiano. Ad accompagnare il presidente in America, è stato l’ambasciatore americano a Kabul l’ex-generale Eikenberry, che aveva accusato Karzai di essere un alleato inaffidabile. Ad aspettarlo all’aeroporto c’era invece l’inviato speciale per l’Afghanistan, Holbroke, che nell’agosto scorso si era alzato da tavola durante una “colazione di lavoro” con Karzai lasciando dopo una furibonda lite sui brogli elettorali. Persino Eikenberry e il generale McChrystal, capo della missione militare occidentale in Afghanistan, si sono pubblicamente ossequiati anche se su molte cose del “programma” afghano la pensano diversamente. Prossima tappa del tour di Karzai, l’incontro privato con la Clinton; forse l’unica del gabinetto Obama con la quale pare che il presidente afghano abbia davvero un buon rapporto. Se dovessi usare un’immagine penserei al pendolo. Questa visita di Karzai – ricordiamolo – è stata messa in dubbio alcune settimane fa dalle uscite polemiche e anti-occidentali del presidente – autoclassificatosi come aspirante talebano – oggi invece segna una nuova oscillazione nelle posizioni della Casa Bianca (questa volta su posizioni iper-conciliatorie) che non riesce nè a liberarsi nè a fare a meno di Karzai. Chissà se, di oscillazioni, sarà l’ultima.

Karzai ha portato a Washington il suo piano, largamente anticipato, per la reintegrazione dei talebani e la fine del conflitto. Ho visto sui media italiani grande enfasi all’idea che Obama vuole fare la pace con i talebani, quando in realtà non mi sembra ci siano sostanziali novità su questo punto: il presidente Usa – a quersto giro – non ha cambiato la sua linea e continua a parlare di processo tutto gestito dagli afghani (che ne discuteranno non a caso nella peace jirga – la riunione tribale – prevista a Kabul a fine mese). Del resto sui media americani il “titolo” di questa conferenza stampa è la previsione di Obama di duri combattimenti nell’imminente futuro. Prossima fermata Kandahar.

Di notte, in Afghanistan

Quando, un paio di settimane fa, il presidente iraniano Ahmedinejad ha incontrato il suo omologo afghano, c’era qualcosa che mi ha molto colpito. No, non mi riferisco agli attacchi contro l’America con Karzai di fianco (quella è ormai ordinaria amministrazione anche per il presidente afghano figuriamoci per quello iraniano), quanto il fatto che la visita fosse stata ampiamente annunciata; caso unico tra i capi di stato e alti diplomatici che vanno nel Paese – la prassi negli standard di sicurezza. Ho capito il senso della mossa pochi giorni dopo, quando Ahmedinejad ha attaccato il presidente Obama (le dichiarazioni, affogate di un discorso fiume sulle possibili nuove sanzioni nucleari a Teheran, non sono finite sui giornali) per aver visitato l’Afghanistan di notte e “a sorpresa” mentre lui, che nel Paese non ha migliaia di unità combattenti, invece la visita l’aveva annunciata. Racconta questa “spigolatura” (le vie dello scontro politico sull’Afghanistan ormai sono sempre più variate e fantasiose) per segnalare questo posto del blog fotografico del NY Times (sì negli ultimi giorni mi piace tanto) proprio sulla visita di Obama nel Paese (“To Afghanistan, in darkness and secrecy”) con un taglio che ne racconta bene l’atmosfera.

Minimi termini

Non mi sembra che abbia riscosso grande attenzione, in Italia in particolare e nel mondo in genere, il fatto (forse trascurabile!?) che i rapporti tra gli Stati Uniti e l’occidente in genere con il loro “uomo a Kabul”, ovvero il presidente Karzai, abbiano raggiunto i minimi termini. In questi giorni si è toccato il punto più basso degli ultimi nove anni nelle relazioni tra gli alleati stranieri e il loro punto di riferimento nel Paese, intorno alla quale – lo si è detto ormai fino alla noia – ruota tutta la nuova strategia militare americana (ovvero “non basta vincere militarmente ma dobbiamo mostrare agli afghani che conviene stare dalla parte del governo”).

Andiamo con ordine: eletto dopo un lungo calvario di brogli, voti annullati, accuse fino al colpo di teatro del suo rivale Abdullah che si ritira dal ballottaggio, Hamid Karzai ha ben pensato nelle ultime settimane di mettere le mani sulla ECC, la commissione di controllo delle elezioni. Prima ha deciso di eliminarne la presenza internazionale (5 membri afghani su 5) poi ha riammesso due membri stranieri, così da fare in modo che i controllori afghani (3 su 5, ovvero quelli da lui nominati) continuassero ad avere la maggioranza in caso di decisioni controverse (vedi un po’ di post precedenti di questo blog).
Accade che, giovedì, il Parlamento decide di rimandare al mittente la decisione e poco dopo Karzai in una conferenza stampa arriva ad accusare le Nazioni Uniti e le diplomazie straniere delle frodi elettorali di agosto (vedi qui). Roba mai sentita sin’ora! Karzai, in realtà, fa anche uno specifico riferimento al vice-capo missione dell’Onu (l’americano Galbraith) cacciato da Kei Eide (e qui le versioni si differenziano) diciamo per essere stato troppo zelante negli scenari del dopo voto. Ma l’insieme del discorso è quasi, come toni, da comunicato dei talebani. Il seguito è routine: Abdullah che ritorna a parlare con i giornalisti, Washington che chiede chiarimenti ed infine la telefonata di pacificazione tra la Clinton e Karzai. L’ennesimo teatrino dei pessimi rapporti tra Karzai (amato da Bush) e l’amministrazione Obama sembra chiuso ma ormai è chiaro che, per come si sono messe le cose, con questo presidente all’ARG (il palazzo presidenziale di Kabul) sarà sempre più difficile dialogare e collaborare. E non è solo colpa sua. Appuntamento al prossimo teatrino mentre “outside the wire” si continua a morire.