Il quarto stato

Se fossi stato credente, giurerei di aver visto Gesù Cristo oggi. Anzi di averne visti tra i cinque e i diecimila, in cammino. La loro croce era fatta di enormi fagotti portati in testa e valigie pesantissime rette da rotelle esauste che stridevano sull’asfalto.

Quando mi sono fermato a guardarli avanzare verso di noi, mi è sembrato di essere davanti alla scena del dipinto “il quarto stato” in versione globalizzata, questo l’avrei intitolato il quarto continente.

Era come un esercito di poveri cristi in fila; una fila che abbiamo risalito con la macchina ma che non finiva più, portava come un filo di Arianna al confine di Ras Jedir. Camminavano verso il campo delle Nazioni Unite, rimasto per giorni semi vuoto perchè troppo lontano dalla frontiera, trasformata per questo in un bruclicante accampamento improvvisato.

A Djerba stanno arrivando i primi aerei stranieri per evacuare i tantissimi (e più vicini a casa) egiziani, così i militari tunisini hanno messo in fila tutti i profughi del Bangladesh e li hanno fatti marciare verso il campo, otto chilometri più lontano.
Più o meno quattro ore a piedi per raggiunge il mare bianco di tende dell’Unhrc dove, adesso, aspetteranno chissà quanto prima di tornare nella loro lontana patria.

Lungo la strada sentivo cantilenare “Alì Babà, Alì Babà”… una bestemmia, contro i ladroni dell’esercito libico che li hanno spogliati di tutto, quando erano in fuga.

Lungo la strada i volontari tunisini regalavano acqua e lunghe baguette di pane, infilate poi sotto il braccio o in mezzo ai bagagli.
Il solito vento gelido del pomeriggio si è alzato, velando la prospettiva di polvere: i ragazzi sembravano miraggi. Mi sembrava un miraggio anche la loro pazienza: camminavano da ore stracarichi eppure si fermavano a rispondere alle nostre domande e non si sottraevano a foto e riprese, sorridendo, salutando. Al loro posto, se fossi sopravvissuto a quello che hanno passato, avrei mandato tutti a quel paese.

Il sole è calato ma la fila non ha smesso di scaricare gente all’ingresso del campo, come barattoli dal nastro di una catena di montaggio.
Un militare esausto raccoglieva i passaporti gonfiando un bustone e mandava la gente verso le tende e la prima “doccia” da sette giorni, sotto un’autocisterna.
Dagli autobus che passavano sulla strada vicina, stracarichi di profughi egiziani, si levava il grido ‘tahià tunis!’ – lunga vita alla Tunisia: la colonna sonora di questi giorni. Un ragazzo del Bangladesh gridava “Libia no good, Gheddafi no good, Tunisia good!”.
Avrei voluto farlo sentite a chi in Italia non ha ancora capito quanto la solidarietà possa costruire1-1 ponti tra i popoli, i cui leader politici magari nemmeno si conoscono di persona.

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