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Il vertice della bolletta

Angosciati dalla crisi economica (aggravata dall’incognita greca) e preoccupati di far digerire tagli e sacrifici a chi li ha votati, i leader internazionali si ritrovano da oggi a Chicago per discutere di risparmi (quelli di un sistema militare più integrato) e di spese, ovvero di quelle che dovranno sostenere per il futuro dell’Afghanistan.

Il vertice Nato di Chicago è uno dei più importanti di sempre, sia per numero di partecipanti, sia per le decisioni che verranno prese, ma appare come un altro intralcio tra i piedi di chi deve fare i conti con il bilancio pubblico e con i sondaggi d’opinione. In pratica la Nato rinuncia a vincere (se mai fosse possibile) la guerra afghana, si ritaglia una vita d’uscita onorevole affidando la sicurezza del Paese alle forze di sicurezza locali (chiaramente inadeguate al compito) ma deve pagarne la bolletta.

Le forze afghane costano quattro miliardi e cento milioni di dollari all’anno. Una cifra che solo in minima parte (circa cinquecento milioni) verra coperta dal governo di Kabul, il grosso verrà pagato dai contribuenti americani ma il resto lo cacceremo anche noi. Non esattamente un problema da poco per governi – vedi quello italiano – che sono alle prese con la crisi internazionale, tra indigesti tagli allo stato sociale e l’esigenza di giustificare spese per centinaia di milioni di euro che andranno avanti per almeno un decennio. In termini di sondaggi d’opinione (a proposito l’ultimo effettuato in America dava il supporto alla guerra sotto il 30%) servirà a poco dire che pagare le forze afghane costa meno che mandare i propri soldati in Afghanistan. Una bella tegola questa della crisi economica che piomba sul “tavolo afghano”, quasi a voler complicare una situazione già di per sè difficile.

Ci sarà anche il traballante presidente pakistano Alì Al Zardari, al vertice di Chicago, ma non si avvicina la riapertura della rotta logistica che dal porto di Karachi raggiunge l’Afghanistan attraverso il passo Kyber, chiusa dal novembre scorso dopo un incidente sulla frontiera con i militari americani. Rotta che – dice il generale Allen – servirà soprattutto quando l’Isaf dovrà lasciare il Paese: spostare 100 mila uomini e i loro mezzi, un’operazione mai vista prima e non senza rischi.

Bomba su bomba

Dove non era riuscito un ministro politico (e che politico…visto che La Russa era impegnato a tempo pieno anche ai vertici del Pdl, sostegno chiave del governo), c’è riuscito un ministro tecnico. Come ci raccontava ieri Giampaolo Cadalanu su Repubblica (in solitaria nel panorama mediatico italiano), l’ammiraglio Di Paola ha dato il via libera all’utilizzo di tutti gli armamenti in dotazione ai jet italiani in Afghanistan. In pratica, i caccia italiani (dopo i Tornado, ora fanno base ad Herat gli Amx dell’Aeronautica) potranno utilizzare anche le bombe.


I nostri aerei inizialmente erano utilizzati
solo per la ricognizione, dopo la polemica sulle eventuali bombe (utilizzo caldeggiato da La Russa) si finì col consentire solo l’utilizzo del cannoncino di bordo (peraltro forse più pericoloso delle bombe per via della sua imprecisione).

Con questa decisione la missione italiana a tutti gli effetti entra in un’area ad altissimo rischio. I bombardamenti alleati sono la principale causa di vittime civili da parte della coalizione internazionale in Afghanistan. Nel’Rc-West, l’area di competenza italiana, si combatte una guerra a tutti gli effetti, per cui il ricorso ai bombardamenti (che già avviene ma con supporto aereo americano) non è un’ulteriore escalation ma solo un gran problema che ci stiamo andando a cercare, in Afghanistan una casa è un covo di guerriglieri come quello che sembra una posizione di fuoco del nemico è solo una casa di povera gente.
Inoltre gli aerei saranno pure nazionali ma vengono messi a disposizione della coalizione, tradotto quando a “chiamare” il bersaglio saranno truppe non italiane, i nostri piloti italiani si assumeranno responsabilità con informazioni che magari risponderanno a standard (diciamo cosí) meno prudenti dei nostri.
Proprio in un’area di competenza italiana (ma durante una missione afghano-americana), nei pressi di Farah, è avvenuta la peggior strage di innocenti che questa guerra ricordi; strage che portò Obama a cacciare il comandante generale dell’Isaf.

Qui Base Afghanistan

La grande assemblea tribale convocata dal presidente Karzai si è conclusa dopo tre giorni di lavori, dei quali gli osservatori occidentali hanno capito molto poco. I meccanismi del potere che si irradiano nella società afghana sono troppo complicati per i non afghani e presuppongono una conoscenza di quel contesto che nessuno (in quest’altra parte del globo) sembra possedere. Per esempio non abbiamo ancora capito se gli anziani, i capi tribali, le donne, gli ex-combattenti e quant’altro chiamati sotto la grande tenda fossero davvero uno spaccato della comunità afghana o solo amici dei Karzai a cui è stata concessa una vacanza a Kabul. Diciamo che (per aggiungere una nota di colore) non sappiamo nemmeno da dove nasca il mito del 39, numero saltato nelle quaranta commissioni della Jirga, perchè in Afghanistan da qualche anno è considerato il numero del “lenone”.

Senza sapere se la Jirga sia stata o meno legittimata a predendere le decisioni che ha preso, non sappiamo quanto gli atti conseguenti che prenderà Karzai saranno davvero condivisi dal popolo afghano.
Di certo Washington è stata accontentata: a condizioni da definire (alias i soldi che la Casa Bianca verserà nelle casse afghane) gli americani potranno restare nel Paese fino al 2014, l’Afghanistan diventerà la più importante base statunitense in questo pezzo di mondo. Posizione strategica per colpire l’Iran, fare paura alla Cina, controllare la “bomba” pakistana. Fanno poco testo le parole di Karzai che, in chiusura di lavori, ha detto che “mai il territorio dell’Afghanistan sarà fonte di minaccia per altre nazioni”.

Del resto Karzai sa che rischia di fare la fine di Najibullah, l’ultimo presidente filo-sovietico, capace di resistere dopo il ritiro dell’armata rossa (l’Isaf si ritira nel 2014) solo grazie agli aiuti militari di Mosca e solo fino a quando quegli aiuti arrivarono. Karzai senza gli Stati Uniti (soldi e potenza di fuoco) a Kabul resterebbe per molto poco.

L’assemblea ha anche “benedetto” (non ha poteri decisionali) la decisione, già presa da anni, di trattare con i talebani. La guerriglia ha già fatto sapere che la Jirga non era altro che una riunione di dipendenti del governo, respingendone le conclusioni.

Morto Bin Laden, la guerra continua

Ormai avevano smesso di cercarlo sulle montagne al confine con il Pakistan, ormai da almeno tre anni la missione delle migliaia di soldati americani in Afghanistan era diventata fermare i ribelli anti-governativi, identificati dai media come talebani solo per comodità verbale ma in realtà un misto di bande locali, truppe di signori della guerra e appunto uomini degli studenti coranici. L’attenzione dell’intelligence era rivolta ormai oltre confine in Pakistan appunto dove gli aerei senza pilota hanno bombardato mai come nel 2010 e nel 2011.

Eppure la notizia dell’uccisione di Bin Laden è un gran sollievo per l’Afghanistan. “Abbiamo sempre detto per anni e ogni giorno che la guerra al terrorismo non va condotta nei villaggi afghani, non nelle case degli afghani poveri e oppressi”, ha dichiarato stamane il presidente Karzai che da anni, come tutti gli afghani, punta il dito contro il Pakistan, dove non solo Bin Laden aveva la sua base, ma dove la guerriglia afghana prepara e rifornisce il suo conflitto contando sulla compiacenza del governo di Islamabad.

Nonostante Karzai abbia detto ai talebani di considerare questa morte come un monito, l’uccisione di Bin Laden non apre spiragli di pace, la presenza di Al Qaeda nel Paese era ormai ridotta ai minimi termini: un centinaio di uomini aveva spiegato il capo della Cia qualche tempo fa. Addirittura l’uccisione, pochi giorni fa, del leader della filiale afghana di Al Qaeda era passata sotto silenzio, una notizia minore per il suo impatto sulla guerra.
Guerra che inevitabilmente continua.