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Kill Bin

Un po’ di cose, vere, presunte o probabili, che mi vengono in mente pensando all’omicidio del secolo

Afghanistan
La guerra è un vaso di pandora, lo scoperchi e non ne sei più padrone. Quella cominciata nel 2001 (anche) per catturare Osama e smantellare il governo dei complici talebani, è ormai una guerra che ha tutta un’altra natura e si combatte contro una guerriglia diffusa e dalle molte teste.
Lo sanno e lo dicono tutti da anni, ma da quando è stato ucciso Bin Laden l’hanno dimenticato in tantissimi, quelli che vogliono usare la testa di Osama come trofeo della vittoria e riportare a casa le truppe.
Archiviate la democrazia, la tutela delle donne, lo sviluppo economico, i campi d’addestramento terroristi. Si erano sbagliati, era tutta una copertura per distrarre Bin Laden mentre lo cercavano. 

Computer
Non riesco a non immaginare le stanze del pentagono dove centinaia di analisti e traduttori, senza sosta, stanno setacciano i documenti e i dati sui computer di Bin Laden. E’ una corsa contro il tempo che chiarirà vecchi misteri, smaschererà cellule in sonno e forse salverà tante vite. A meno che anche lì dentro ci fosse il virus “bin laden video” che, in queste ore, sta sventrando Facebook.

Elicotteri
Le forze speciali americane devono cambiare santone, ogni volta che c’è un’operazione ad alto rischio con un top target in territorio nemico, va qualcosa storto agli elicotteri. Ricordate i due che si scontrarono nel deserto, annullando il tentativo di salvare gli ostaggi americani a Teheran?

Esecuzione
La scena di Bin Laden che si fa scudo di una donna e viene ammazzato da un commando americano era perfetta come in un film, la Casa Bianca non è riuscita a trattenersi nel raccontarla. Il giorno dopo si è dovuta smentire, Bin Laden era disarmato ma ha opposto resistenza ed è stato ucciso.
Vi immaginate il 54enne Osama che minaccia un commando di Navy Seals, armati fino ai denti? Avrà alzato il bastone con il quale camminava sulle montagne afghane? E’ stata una “kill mission” aveva detto lunedì la Casa Bianca. A me, da quel poco che se ne sa sin’ora, è sembrata proprio un’esecuzione. A meno che, non ci fosse il concreto pericolo che stesse o volesse innescare una bomba.

Dialisi
Ce l’hanno fatto immaginare in fuga, tra le montagne, con la sacca dell’urina attaccata all’Ak-47. Della macchina per la dialisi non se n’è trovata traccia nel covo. Un altro mito sullo sceicco del terrore. Sarei curioso di conoscerne la fonte.

Fantasma
Bin Laden fa più paura da morto, di quanto ne facesse (almeno negli ultimi 6/7 anni) da vivo. Lo dimostra la scelta di non pubblicare le fotografie del suo cadavere mentre di Saddam, per esempio, abbiamo visto anche l’umiliante visita dal medico militare, con tanto di torcia puntata in bocca.

Lussuosa

Capisco che è costata un milione di dollari (con quelle mura!), capisco che fa rabbia a qualcuno saperlo al coperto e non in una grotta…ma continuare a definire lussuosa la villa di Bin Laden è un’esagerazione. Quelle dei signori della guerra a Kabul, gli assomigliano ma sono molto più “decorate”

Momento
Bin Laden è morto nel momento peggiore per la sua causa, i movimenti religiosi estremisti in questa nuova primavera araba vengono agitati (quasi auspicati) solo da tiranni come Mubarak e Bashar. I giovani arabi in piazza portano bandiere di Che Guevara, telefonini connessi a FaceBook e chiamano martire un manager della multinazionale Google in Medio Oriente.

Nemico
Non possono fare a meno di sintetizzare un problema in un volto, gli americani hanno la cultura e il culto del nemico. L’evangelico Bush l’ha esasperata facendogli credere che “dead or alive” il problema del terrorismo si sarebbe risolto uccidendo lo sceicco cattivo. Anche per questo gli americani hanno (non usualmente) fatto festa in strada domenica notte.
In questi anni, purtroppo, è basta un gruppo di amici anglopakistani per fare macelleria sui mezzi pubblici londinesi e un acquirente di auto usate, poco pratico di nitrato d’ammonio, per provare a far saltare Time Square. Problemi che la morte del nemico non risolve.

Nomi
Per fortuna Osama può essere chiamato anche Bin Laden. E’ l’unica via di fuga che hanno i conduttori tv per evitare di scivolare su Obama che diventa Osama e viceversa.

Pizzini
Anche Bin Laden, come Provenzano, si è fatto fregare da un “postino”, l’uomo che lo teneva in contatto con il mondo esterno.

Roulette Russa
Obama ha puntato tutto su un numero e ha vinto ma aveva solo il 50% di possibilità: do or die!
Scontro a fuoco con forze pakistane che si trovano in casa quattro elicotteri non identificati; massacro di una famiglia innocente (nessuno aveva la certezza che lì ci fosse Bin Laden); vittime civili tra gli abitanti della zona; soldati americani catturati…Pensare a tutto quello che poteva andare storto quella notte è uno sport per coronarie forti.

Scienziato
Thomas Gillespie dell’UCLA nel 2009, con il suo algoritmo geografico, aveva individuato la località e descritto il tipo di casa in cui poteva vivere Bin Laden. Nessuno l’ha preso sul serio, oggi sappiamo che aveva ragione.

Sospetti
Bin Laden è morto, anzi no festeggia con Elvis e Jim Morrison. Il comportamento della Casa Bianca (in puro stile-slow Obama) tra smentite, annunci e ripensamenti sta alimentando i fuochi dei complottisti che avrebbero dubitato lo stesso, ma francamente gli stanno rendendo la vita fin troppo facile!


Smentite
Lo sport ufficiale del Pakistan negli ultimi tre giorni non è più il cricket ma la smentita di aver partecipato all’operazione, il capo della Cia è arrivato alla mortificazione massima dell’alleato pakistano: non li abbiamo avvertiti perchè l’operazione sarebbe saltata. Una fonte dell’Isi dice alla BBC: eravamo stati in quella casa quand’era in costruzione (ispettorato del lavoro o servizi segreti?). C’è un tale accanimento su questo tema che sembra quasi voler nascondere la collaborazione di Islamabad. Del resto se i pakistani lo avessero fatto, avrebbero solo mollato un’ospite ingombrante e ormai utile a molto poco…altro che il Mullah Omar!

Successore
Tutti si chiedono chi sia il successore di Bin Laden,  si favoleggia anche di una shura in corso tra i vertici di Al Qaeda per eleggerlo. E’ un falso problema, l’organizzazione ormai è decentrata – l’ultimo successo di Osama – non ha bisogno di un capo per andare avanti (ne ha tanti, ognuno al posto giusto) ha bisogno solo di un altro uomo simbolo, lavoro che Al Zawahiri fa bene e da tempo (lui si mostrava in video quando Osama non poteva farlo più).

Testamento
Possibile che Osama non abbia lasciato un video-testamento in caso di morte? Un caso tutto sommato probabile? Che fine ha fatto il video che l’AP lunedì sera dava di imminente diffusione?

Vivo
Sarebbe stato un gran problema. Un Bin Laden trascinato via in catene, processato, condannato e poi portato al patibolo. Tra polemiche nel mondo, offese all’orgoglio arabo, alleati europei scettici, dubbi giuridici, allarme attentati per tribunali superprotetti e magari il riutilizzo della Guantanamo che Obama vorrebbe chiudere, da morto lo sceicco del terrore previene molti problemi. Difficile che alla Casa Bianca in questi dieci anni non ci abbiamo pensato, tra power point, analisi e teoria dei giochi…Era una “kill mission”…

Uccidete Geronimo

situation room
situation room

E’ stato come vedere un film, solo che i minuti sembravano ore – racconta chi c’era. Nella situation room della Casa Bianca, Obama, la Clinton e tutti i vertici della sicurezza americana si sono riuniti domenica per guardare su uno schermo quello che stava succedendo in Pakistan. Come quando si va al cinema o si vede una partita importante qualcuno era andato da Costco (il supermercato delle grandi quantità e dei grandi sconti) per comprare panini e bibite. Il racconto di questo e di altri aspetti del blitz contro Bin Laden è contenuto in questo articolo del Ny Times.

Il Pentagono non ha ancora mostrato immagini nè del blitz nè del corpo (sarebbe ora…) e dopo l’uscita, da fonte pakistana, della falsa foto diffusa ieri, le teorie della cospirazione stanno alimentando dubbi e scetticismi che, del resto, non potevano non mancare quando si tratta dell’uccisione dell’uomo la cui stessa esistenza in vita ha giustificato guerre e morti. Ci vorranno forse mesi, sicuramente anni per capire cosa è successo davvero ad Abbottabad e a Washington.

Ora sappiamo un po’ di cose in più rispetto ad ieri. “Geronimo”, nome in codice per Bin Laden, era stato individuato da mesi grazie al suo corriere, rintracciato sul campo ma individuato grazie alle confessioni estorte a Guantanamo.
L’ultimo uscita di WikiLeaks stava mettendo tutto a rischio, in qualche modo, perchè un documento tra i più recenti diffusi parlavo proprio di questo “corriere”, il postino del grande capo. Sappiamo anche che i pakistani erano all’oscuro di tutto, militarmente è stato un capolavoro, entrare in un territorio di un altro Paese ed entrarci tanto in profondità e in una zona tanto popolata (50 km dalla capitale) è un rischio enorme e richiede piloti (di ben quattro elicotteri) con un’abilità assoluta, quella di volare praticamente “pancia a terra” per sfuggire ai radar (se fossero stati abbattuti, intercettati sarebbe finita come “black hawk down”).
Sappiamo che Bin Laden è stato riconosciuto prima con il sistema biometrico e poi con un campione di dna. Sappiamo anche un suo video (fonte Ap) potrebbe essere diffuso nelle prossime ore, potrebbe essere il testamento del leader di Al Qaeda preparato da tempo e consegnato a qualcuno fidato proprio per l’evenienza di una sua morte.

Al di là di che faccia avesse Bin Laden oggi, nel senso di come fosse cambiato visto che non lo si vedeva da anni, quello che non sappiamo è cosa succederà adesso. Al Qaeda è profondamente indebolita e comunque non è più l’organizzazione monolitica degli anni ’90, nella quale se uccidevi il capo avevi ucciso l’organizzazione. Ieri è stato ucciso solo un simbolo. Al Qaeda ormai è un “franchising” del terrore, vedi il suo braccio somalo, quello magrebino, quello yemenita; una galassia che si ispira a Bin Laden ma dove “ogni punto vendita” è autonomo, come si direbbe nel commercio (passatemi il sarcasmo). Il fatto che sia indebolita non però significa (gli attentati di Londra insegnano) che non possa avviare una rappresaglia, colpire da qualche parte.
L’altra cosa che sappiamo è che non ci sono più scuse per gli Stati Uniti sul versante Pakistan. La comoda vita del fuggitivo Bin Laden, non in una caverna ma in una villa, confermano la verità di cui tutti parlano e scrivono da anni, il Pakistan attraverso l’Isi protegge, direttamente o indirettamente, gli uomini di Al Qaeda e quelli che fanno la guerra in Afghanistan. Sulle prime ieri, mi sembrava impossibile che gli americani avessero osato un blitz del genere senza avvertire i pakistani, troppi rischi. Ho immaginato che ci fosse stato qualche sorta di scambio tra americani, l’Isi e il governo di Islamabad dopo queste settimane di tensione sul contractor della Cia arrestato per omicidio e i bombardamenti dei droni. Se sono stati presi quei rischi, vuol dire che affidarsi ai pakistani avrebbe significato far saltare l’operazione, di cui persino i Navy Seals hanno saputo solo alla fine.

I simboli hanno un loro valore, sia per vincere le campagne elettorali che per far sentire alla generazione di ground zero che una pagina si è chiusa, ma se si vuole per davvero rendere il mondo più sicuro o quantomeno sbrogliare il groviglio della guerra afghana bisogna agire proprio in Pakistan, tagliando quelle complicità che consentivano a Bin Laden di vivere di fronte ad un’accademia militare ed al mullah Omar chissà dove. Ma questa è una strada lunga (diplomatica, politica, di intelligence) e che nessun blitz armato risolvere in quaranta minuti…

La Caccia

Gli americani lo cercavano dagli anni ’90, quando lo mancarono almeno in tre occasioni; un ipoteca che ancora grava sulla presidenza Clinton. All’epoca Bin Laden guidava la sua milizia privata in Afghanstan, viveva in una cittadella fortificata alle porte di Kandahar e viaggiava sulle strade al confine col Pakistan che aveva fatto costruire durante la guerra anti-sovietica con i mezzi dell’azienda edile di famiglia. Ma il grande fallimento americano risale alla fine del 2001, ad Afghanistan ormai invaso, le radiotrasmittenti gracchiavano gli ultimi ordini dello sceicco del terrore ai suoi uomini, rintanato nelle grotte di Tora Bora.

L’assedio venne condotto da soli 70 militari americani. A seguire l’operazione c’erano 100 giornalisti. Ormai spacciato Bin Laden fuggi’ comprandosi i mercenari afghani che aiutavano gli americani. Da allora si è favoleggiato sul suo nascondiglio, ma era ormai chiaro che non fosse in uno dei remoti scenari montani dove amava farsi riprendere.

E così l’hanno preso dove la resistenza afghana anti-sovietica ha fatto base per anni, tra Peshawar e Islamabad in Pakistan, a cento metri da una base militare pakistana. La vera novità che racconta la morte di Bin Laden è proprio l’atteggiamento dei servizi pakistani. L’Isi che negli anni hanno organizzato i mujaheddin, poi creato i talebani e che ora sostengono la guerriglia anti-occidentale in Afghanistan.

Sin’ora avevano bloccato ogni operazione americana sul loro territorio, tra sabotaggi e soffiate, come quando avevano arrestato a Karachi il capo militare dei talebani afghani per far fallire le trattative di pace sul governo Karzai. Se davvero l’Isi ha cambiato rotta, le prossime fermate per le forze speciali americane potrebbero essere il rifugio di Al Zawahiri, braccio destro di Bin Laden, e quello del Mullah Omar, leader indisscusso dei talebani. Entrambi rifuggiati in Pakistan, secondo più fonti.

A proposito di fonti, a chi sarà andata la taglia di 25 milioni di dollari che pesava sulla testa di Osama?

Ultima fermata, Gulistan

Mentre i vivi litigano, e se ne discute non senza ipocrisie, c’è voluta la sincerità delle parole lasciateci da un giovane caduto alpino per mostrare a chi si ostina a guardare il dito, tutto quello che c’è intorno. C’ho messo qualche giorno per scrivere questo post, perchè di solito evito di fare commenti “geopolitici” nei giorni destinati al lutto come purtroppo è stato l’ultimo del 2010. Nei giorni successivi poi, ho visto aprirsi una fisarmonica di eventi e dichiarazioni sulle quali mi sembrava il caso di riflettere.

Matteo Miotto ha scritto nel suo testamente di voler essere sepolto nella parte del cimitero di Thiene dedicata ai caduti di guerra. Sembra una decisione privata, per me sono parole di verità nella vicenda afghana. Al di là della facile retorica, dovrebbe spingere molti a spostare lo sguardo dal dito, a guardare a cosa quel dito stia puntando.
Matteo è morto in guerra, da professionista sapeva che c’era questa eventualità e l’ha scritto nel suo testamento. Non voglio riapre il discorso sulla natura della missione italiana, finiremmo con il parlare della Costituzione e perderci la sostanza ovvero che in Afghanistan si combatte una guerra e la politica (tutta) non si assume la responsabilità di dirlo al Paese. Di dire agli italiani che quella è una guerra, magari giusta (come ritiene il Premio Nobel per la Pace, il presidente Obama e – più implicitamente – tantissimi governi di mezzo mondo) ma null’altro che una guerra.

Quanto sia importante questa verità l’abbiamo capito nei giorni successivi alla morte di Matteo, in una vicenda dove quella decisione di un giovane alpino diventava sempre più altamente simbolica, proprio ora e mai come ora.
Il ministro La Russa arrivato ad Herat la sera del 5 gennaio, racconta che Miotto non è morto come inizialmente detto (colpito da un cecchino) ma colpito durante un attacco “multiplo” alla sua base. Due scenari ben diversi. La Russa polemizza con i militari che l’hanno informato tardi, parla del “riflesso di un vecchio metodo, di cercare di indorare la pillola della realtà dei fatti, di dire la verità ma nel modo più indolore possibile” – ovvero riapre la polemica con il metodo del governo Prodi (che poi proprio sull’Afghanistan scivolò la prima volta). Oggi sul Corriere della Sera, la smentita del Capo di Stato Maggiore, il generale Camporini apre uno scontro senza precedenti tra i vertici civili e quelli militari delle forze armate. Il ministro La Russa deve convocare in mattinata una conferenza stampa per ricucire lo strappo con le stellette.
Qualcuno mi sembra provi a leggere lo scontro secondo le categorie dell’italico “politichese”. Qualunque cosa sia successa l’ultimo giorno dell’anno nel Gulistan (e molti dubbi continuano ad esserci), queste onde “telluriche” altro non sono che frutto del peso dell’Afghanistan; qualunque entità metta le mani in quel Paese – lo dice la storia – si ritrova profondamente destabilizzata, solo negli ultimi tempi penso alle dimissioni del governo olandese o a quelle del presidente tedesco. Ora sbattono le porte di Palazzo Baracchini, la sede del Ministero alla Difesa, a Roma.

L’altra cosa a cui punta il dito, lo stesso dito dal quale gli occhi non riescono a staccarsi, è un distretto della provincia di Farah. Si chiama Gulistan, il posto dei fiori in lingua dharì, sempre più – drammaticamente – fiori di lutto per gli italiani. Dal primo settembre i nostri militari sono arrivati per estendere la presenza del governo di Kabul, tradotto per tagliare le retrovie dei talebani che nella confinante provincia di Helmand, la loro roccaforte, sono sempre più messi alle strette dalle massicce operazioni anglo-americane, ma hanno bisogno della strada della droga e della strada della ritirata verso il nord. Fino ad agosto l’op-box Tripoli ovvero una parte della provincia di Farah, Gulistan compreso, era in mano agli americani più del doppio dei 350 italiani che hanno preso il loro posto, asserragliati in tre fortini, chiaramente pochi per il compito loro assegnato e per dedicarsi ad un territorio così vasto.
Dal primo settembre i sei caduti riportati dagli italiani sono morti qui, cinque in Gulistan, uno nel confinante distretto di Bakwah. C’è bisogno di dire altro per capire che inferno sia quella zona in passato terreno solo delle forze speciali per brevi raid? Un terreno tutto da “riconquistare” dove solo poche settimane fa sono arrivati i primi militari afghani (anche per questo gli italiani finiscono con l’essere pochi). In confronto l’estensione della “bolla di sicurezza” di Bala Morghab corre il rischio di sembrare una passeggiata.
E siamo ancora in inverno, da marzo in poi la situazione – è facile prevederlo – si farà sempre più difficile, all’epoca in campo sarà schierata la prima aliquota di parà della Folgore che quest’anno copriranno il turno estivo (da aprile) della missione italiana.

Penso alla visita del generale Petraeus e del generale Camporini, il giorno di Natale, proprio a Bakwah. Rileggo i comunicati, quello in italiano dove spicca questa frase “Bakwah è una delle aree dove maggiormente si concentrano gli sforzi degli italiani nell’implementare la sicurezza, di concerto con i militari afghani. Sicurezza che i cittadini percepiscono di giorno in giorno e che va di pari passo con la fiducia nel lavoro delle forze di coalizione.” Quello destinato ai media internazionali (scritto in inglese), dove all’incirca nello stesso punto compare invece questa frase: “Bakwa is one of the more volatile areas in RC-West, and the Soldiers based there often engage insurgents in kinetic activities.” Ovvero “Bakwa è una delle aree più instabili dell’RC-West, i soldati di stanza qui spesso combattono con i ribelli”. Li rileggo e penso a quanto siano pesanti le parole di verità scritte da un giovane alpino morto a migliaia di chilometri da casa, scritte da chi pensa a dire le cose come stanno non all’effetto che le sue parole potranno produrre.

Purtroppo penso anche a cosa saranno i prossimi mesi nell’infero del Gulistan.