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Idioti transoceanici

Anche a Kandahar arriva l’onda di odio anti-occidentale che sta scuotendo l’Afghanistan. Una decina i morti, diversi i feriti, i giornalisti aggrediti e tenuti a distanza dal corteo che stamane ha attraversato la città patria del movimento talebano. Una nuova, probabilmente non l’ultima, manifestazione islamista come quella di ieri a Mazar-i-Sharif una delle città più tranquille dell’Afghanistan dove pero’ la folla inferocita ha dato l’assalto alla locale sede dell’Onu, quattro guardie – esperti gurka nepalesti – travolti dai dimostranti, uccisi come i tre funzionari delle Nazioni Unite, un norvegese, un romeno, uno svedese. La polizia che spara sulla folla e fa altre vittime, almeno cinque e diversi feriti. E’ il peggior attacco di sempre contro l’Onu in Afghanistan, persino peggiore dell’attacco alla foresteria di Kabul nell’autunno del 2009.

A scatenare questa violenza la notizia di un pastore americano, esponente di una chiesa minore (fatta in casa – in America si può), che sulla scia degli annunci fatti dal pastore Terry Jones in settembre, ha processato, condannato e bruciato una copia del Corano. E a chi lo accusa di aver causato quelle vittime oggi Jones risponde, non è colpa mia ma solo dello spirito violento della religione islamica.
Una storia che ci conferma come la stupidità bigotta che abita nella più remota provincia americana possa fare danni incalcolabili anche oltreoceano, a migliaia di kilometri. Ci dice anche un’altra cosa: fermo resto che la dinamica dell’assalto mi sembra ancora molto strana e che ci potrebbero essere stati errori nella sicurezza del compound Onu, se fosse vero che i talebani hanno agito mescolandosi alla folla si confermerebbe la loro ormai ridotta capacità di colpire obiettivi militari limitandosi a “soft target”. Stamane, inoltre, hanno provato a colpire camp Phoenix, la base americana nella città di Kabul, con un commando suicida vestito in burqa. Assalto fallito.

Questa ci mancava

In Afghanistan si continua a morire e l’impressione è sempre la stessa ovvero che le cose si raccontino in maniera quantomeno approssimativa, ma all’Italia (e ad una buona parte dei suoi media) sembra che la cosa interessi poco, c’è il bunga-bunga di cui parlare…roba seria, alto che un conflitto più lungo della seconda guerra mondiale.

La morte dell’alpino Luca Sanna 32 anni  e il ferimento del suo commilitone Luca Barisonzi, che rischia di portare per tutta la vita i segni dell’attacco, è avvenuta in una circostanza sin’ora mai toccata al contingente italiano, ovvero quello di un infiltrato tra le fila dell’esercito afghano che ha sparato ed è fuggito via, in uno dei “caposaldi” intorno alla base di Bala Morghab, florida terra di nessuno al confine con il Turkmenistan. Ormai è una piaga diffusa quella degli infiltrati all’interno di un esercito che sembra stare in piedi per fare “numeri”  (di ieri la notizia di un piano per portare quasi a 400mila unità le forze di sicurezza – vedi qui ) ovvero consentire agli occidentali di ritirare il grosso delle truppe.

Poco distante da Bala Morghab, a Qal-e-Now, capitale provinciale, pochi mesi fa, proprio un infiltrato del genere aveva ucciso due istruttori spagnoli. Solo una manciata di giorni addietro, più a sud, a Sangin, l’inferno in terra per gli inglesi prima e i Marines ora, un militare americano aveva ammazzato un soldato afghano prima di essere ucciso dal commilitone.
Dei 36 militari italiani uccisi in Afghanistan, pochissimi sono morti per colpi di arma da fuoco (se non ricordo male, il primo è stato il maresciallo Pezzulo, nel 2008 a Sorobi) quasi tutti invece per colpa di ordigni Ied, ma il loro numero negli ultimi mesi è drammaticamente aumentato (Romani, Miotto, ieri Sanna). Oggi possiamo contare la prima vittima della collaborazione con un esercito afghano non sempre affidabile, dove i confini tra indisciplina, stress da shock traumatico e infiltrazione vera e propria sono labili. Questa, purtroppo, ci mancava; ce la saremmo risparmiata molto volentieri: è la misura di una missione sempre più impegnativa e quindi più rischiosa; rischio (nonostante le affermazioni di La Russa che intende coinvolgere sul punto anche il generale Petraeus) sostanzialmente “incomprimibile” perchè più ti avvicini alla sponda del fiume, più ti bagni.

Anche questa volta, il racconto all’opinione pubblica è stato quantomeno approssimativo. Quando ieri ho letto il lancio d’agenzia, poche righe, sulla sparatoria nella base…beh gli scenari che mi sono venuti in mente sono stati appunto due, il primo quello di un attacco “complesso” alla fortificazione (ma si sarebbe dovuto trattare di un attacco su vasta scala, difficilmente condotto con armi leggere), il secondo – appunto – quello di un infiltrato. Del resto Bala Morghab è un’area da manuale per la collaborazione tra truppe di nazionalità diversa (americane, italiane, spagnole e appunto afghane). L’ho detto subito ad un collega con il quale stavo parlando al telefono e che mi ha riferito la notizia in tempo reale.

Il ministro alla Difesa (vedi qui) con la sua stoffa da comunicatore ha subito lanciato lo slogan-notizia del terrorista con la divisa dell’esercito afghano, insomma un attacco di qualcuno travisato da militare non di un militare vero e proprio (eventualità che però in Afghanistan è riferita soprattutto alle forze di polizia). Il ministro definiva “meno probabile” che fosse un infiltrato nell’esercito afgano, arruolatosi proprio per compiere azioni di questo tipo. Oggi ovviamente alla Camera è stata raccontata un’altra storia“era un infiltrato nell’esercito afgano, cioè uno dei militari” che prestavano servizio insieme ai soldati italiani nell’avamposto di Bala Murghab. L’uomo era nell’esercito afgano “da tre mesi”. Non mi riesco a spiegare questi “errori” di comunicazione se non come la fretta di dare le notizie o con la voglia di lanciare messaggi rassicuranti agli italiani, perchè è sempre meglio parlare di un terrorista in divisa piutosto che raccontare che combattiamo fianco a fianco con qualcuno, in certi casi, pronto ad ammazzarci da un momento all’altro.
Non mi sembra ci abbia fatto caso nessuno, del resto sono i giorni del bunga-bunga che vuoi che ce ne freghi di quello che fanno 4000 italiani nel Paese soprannominato la tomba degli imperi per quanti Paesi stranieri ha messo in ginocchio?

Muro di gomma

Oggi ho incontrato una donna, eravamo in uno dei più caotici incroci di Roma tra una fermata di metropolitana che vomitava folla, lo stridente passaggio del tram, colonne di turisti e pendolari. Eppure eravamo insieme a Kabul, una città dove Barbara Siringo non è mai stata ma che, nel febbraio del 2006, le ha restituito suo fratello in una bara. Barbara da oltre 1700 giorni lotta contro un muro di gomma, denuncia tentativi di insabbiamento, prova a tenere in vita la speranza. Ormai non parla più di vittoria della giustizia, le basterebbe solo che la memoria di suo fratello venisse ripulita dall’infamia della tossicodipendenza.
Barbara, qualche mese fa, ha incontrato sulla sua strada un gip, un giudice delle indagini preliminari, Rosalba Liso, che si è rifiutata di archiviare le indagini, chiedendo un approfondimento sull’inchiesta.

Approfondimento che sin’ora ha portato ad almeno una novità, la perizia tossicologica che proverebbe come la droga che ha ucciso il fratello di Rosalba, Stefano, e il suo collega ed amico, Iendi Iannelli, fosse pura all’89%, in pratica una follia che nessuno spacciatore farebbe mai sia per non “perdere” i suoi clienti, sia per non perdere gli introiti di una dose che solitamente è pura dieci volte in meno.
Una piccola svolta che torna a far parlare del misterioso caso (qui il mio pezzo al Tg3 delle 19 di oggi) e dà forza alle ipotesi della famiglia Siringo che denuncia in realtà l’omicidio, mascherato da incidente, dei due cooperanti italiani che a Kabul lavoravano al progetto (per la ricostruzione della) giustizia in Afghanistan.
Un presunto omicidio, secondo la famiglia, che troverebbe il suo movente nella scoperta da parte dei due giovani di un giro di fatturazioni false, in pratica fondi neri per sottrarre soldi alla ricostruzione. A dicembre sapremo a cos’altro questo approfondimento delle indagini avrà portato, speriamo anche alla testimonianza per rogatoria internazionale del magistrato messicano – all’epoca impegnato nel progetto – che denunciò il fosco scenario.
Un mistero afghano, questo, sostanzialmente “riaperto” anche grazie alla caparbietà di Carlo Lania de il Manifesto che, con Giuliana Sgrena, ha seguito la vicenda e tutti i suoi risvolti.

Gli incroci, anche quelli stradali, nella vita non sono mai casuali e quello dove oggi ho intervistato Barbara è poco lontano dalla sede dell’IDLO, l’organizzazione intergovernativa per la quale lavorava Iendi. L’approfondimento giudiziario ci dirà anche se l’organizzazione ha collaborato o meno alle indagini, senza trincerarsi (semplifico così una situazione complesso) dietro il suo status extra-territoriale. Nel frattempo questa donna minuta dagli occhi che si illuminano di lampi di determinazione non smetterà di chiedere giustizia. Non smetterà di rimbalzare sul muro di gomma – di cui mi ha parlato oggi – fino magari a sfondarlo; sarebbe giusto per lei, per la memoria di Stefano e Iendi ma anche per la serenità di tutti noi che quei fondi finanziamo con le nostre tasse e per coloro che, sin’ora, si sono sacrificati, in un modo o nell’altro, per l’Afghanistan.

Morire per l’Afghanistan

In Afghanistan è sempre difficile capire quale sia la verità. La vicenda dei dieci operatori umanitari uccisi conferma questa sorta di regola non scritta. Se i media internazionali hanno titolato limitandosi a alla notizia (qualcosa del tipo “uccisi dieci operatori umanitari in Afghanistan”), in Italia si è dato più peso alla rivendicazione talebana (qualcosa del tipo “uccisi perchè cristiani”) tanto che si sono registrati persino commenti di politici proprio sul tema della “guerra ai cristiani”. Le cose che sappiamo sull’episodio in realtà sono molto poche, a cominciare da quando si avvenuto (genericamente tra mercoledì e venerdì). In primo luogo la polizia locale accredita la versione della rapina (vedi qui) anche perchè – da quello che si sa – le vittime sono state spogliate di tutti i loro averi. I talebani hanno rivendicato l’attacco – è vero – parlando di “spie americane” e di missionari, quindi di proselitismo cristiano, con tanto di bibbie al seguito tradotte in una delle due lingue locali, il dharì. Anche gli uomini di Hekmatyar hanno rivendicato l’azione, ma senza precisarne il motivo. Eppure sappiamo ormai bene che i proclami talebani non sempre sono attendibili, visto che la guerriglia sa utilizzare sempre meglio i messaggi mediatici e cavalcare ogni episodio (come dimostra per esempio la dettagliata smentita – diffusa oggi – della storia sulla ragazza mutilata, cover-story di Time). Lo stesso responsabile della IAM (organizzazione che è di ispirazione cristiana ma che è attiva in Afghanistan dal 1966) si è detto scettico, parlando con l’AP, della matrice talebana. Appare anche molto strano che si sia salvato uno solo degli afghani, graziato – ha spiegato dopo – perchè mussulmano (non meno di quanto lo fossero gli altri due afghani uccisi! …anche se uno dei due pare fosse hazarà, quindi della minoranza sciita). Come è strano che il gruppo sia stato colpito appena lasciata la provincia del Nuristan (dove godevano della protezione dei capi tribali) ed aver fatto il suo ingresso nella sicura provincia del Badakhshan. Oltre ai due afghani sono stati uccisi cinque americani, una americana, una britannica, una tedesca. Tutti medici, a quanto risulta. Il capomissione era un americano, per trent’anni in Afghanistan, già espulso dai Talebani nel 2001 con l’accusa di proselitismo (che però all’epoca coinvolse tutta l’organizzazione, in un periodo in cui la maggior parte delle ong vennero cacciate via) e padrone della lingua e degli usi e costumi locali.

Il blog della dottoressa Karen Woo, la britannica uccisa che a sua  volta lavorava per una piccolissima organizzazione (bridge afghanistan ), racconta bene i dettagli di questo viaggio incredibile (vedi qui). Il gruppo ha camminato per quasi un mese (luglio) per avventurarsi nella più remota e misteriosa provincia afghana, il Nuristan – terra di guerriglia (di recente) e di banditi (da sempre). Secondo le previsioni avrebbero dovuto coprire un percorso di 190 chilometri per poi rientrare – come stavano facendo – in auto verso Kabul attraverso la rotta più sicura, appunto quella attraverso la provincia del Badakhshan. Avranno visto paesaggi spettacolari, conosciuto villaggi dove il Medio Evo non sembra mai passato e faticato duramente tra sentieri e montagne a quattromila metri di quota. Un’esperienza eccezionale ed eccezionalmente difficile, svolta senza clamore con l’umiltà di chi fa dell’aiuto agli altri una ragione di vita, diventata purtroppo anche un motivo per morire. Morire per l’Afghanistan, nel senso più alto del termine.

Mistero Afghano

Era il 16 febbraio del 2006 e il ritrovamento dei due cadaveri in una guest-house di Kabul veniva raccontato (vedi per esempio la BBC) come un banale incidente per una stufa maneggiata male. Quei due corpi erano di Stefano Siringo e Iendi Iannelli, due cooperanti italiani impegnati in Afghanistan con l’Onu e l’Idlo (l’International Development Law Organizzation, una ong dedicata allo sviluppo dei sistemi giudiziari nei paesi poveri). Successivamente si parlò di una morte per overdose, droga purissima. “Il manifesto” in edicola oggi racconta un’altra storia, quella di un mistero sul quale purtroppo sta per calare il drappo nero dell’archiviazione. L’inchiesta, firmata da quel cronista di razza che è Carlo Lania e dall’inviata di esteri Giuliana Sgrena, delinea un quadro inquietante sul quale i parenti chiedono si faccia luce. In pratica i due italiani avrebbero scoperto un giro di fatturazioni false per un milione e mezzo di euro all’interno del progetto Onu e la circostanze della loro morte fanno pensare ad un’esecuzione, con la droga iniettata all’inguine. Movente, la necessità di mettere a tacere due testimoni scomodi.
L’articolo potete leggerlo qui…questa la sua conclusione:

Immunità diplomatica
Un aiuto prezioso all’accertamento della verità potrebbe fornirlo l’Idlo, accettando di mostrare i bilanci alla magistratura. Fino a oggi, però, ogni richiesta in tal senso avanzata dalla procura di Roma è stata respinta dall’organizzazione, che prima si è detta disposta a presentare i bilanci poi, si è avvalsa dell’immunità diplomatica. A una richiesta di intervista da parte del manifesto, la risposta dell’ufficio stampa dell’organizzazione è stata netta: «Idlo non ha nessun commento da fare sulle vicenda oltre a confermare che ha risposto e continuerà a rispondere a ogni richiesta pertinente che provenga dalle autorità competenti». A novembre dell’anno scorso, dopo che alcuni articoli di stampa erano tornati a parlare della strana morte di Siringo e Iendi, da parte dell’Idlo c’è stata infatti una nuova disponibilità a fornire la documentazione richiesta al magistrato, a cui però ha fatto seguito un ripensamento. «Fino a data odierna», scrivono l’11 marzo scorso i carabinieri del Nucleo investigativo al pm Palamara, non è stata ricevuta alcuna comunicazione/documentazione né direttamente dall’Idlo, né per il tramite del Ministero Affari Esteri, nonostante le reiterate richieste effettuate per le vie brevi presso gli uffici preposti».