Tag: trattative

Il numero di telefono

Una frase indimenticabile della presidenza Karzai sarà sicuramente quella pronunciata, durante una conferenza stampa, qualche anno fa. Il presidente chiedeva se qualcuno avesse il numero di telefono dei talebani, rendendo pubblico questo “vuoto” della sua rubrica. Una frase apparentemente incomprensibile ma che in realtà sintetizzava in anticipo il problema che le trattative di pace con i talebani hanno ed avrebbero incontrato ovvero l’assenza di ogni certezza sulla controparte. Il governo afghano, insomma, non sapeva con chi trattare un’eventuale pace. Un problema che pare, finalmente, risolto.

I talebani hanno annunciato che apriranno una loro “ambasciata” in Qatar, in pratica potranno spostarsi (dal Pakistan, presumibilmente) in sicurezza senza essere costretti a passare per il territorio afghano, dove sono ricercati e obiettivo delle forze Isaf,  e senza temere rappresaglia in quello che invece sarà per loro un territorio neutrale dove godranno – si ipotizza – delle tutele normalmente offerte ai diplomatici.

Per l’occidente si tratta di una vittoria (attribuibile a Stati Uniti e Germania) perchè appunto adesso sanno di avere un interlocutore certo e non rischieranno più di scarrozzare, proteggere e pagare, dei presunti emissari dei talebani che in realtà sono solo dei truffatori (è capitato anche questo negli ultimi due anni di tentata pace). Allo stesso tempo, in qualche modo, si mette all’angolo o meglio si emargina il Pakistan, un partner cruciale per la pace ma – come sappiamo – molto pericoloso.
In prospettiva, un accordo pur fragile e pur con una sola parte delle guerriglia (che non è formata solo dai talebani – ricordiamoli) servirebbe a far partire le truppe occidentali nel 2014 senza troppi rimorsi e polemiche nell’opinione pubblica occidentale e aiuterebbe anche la campagna elettorale di Obama nella sua seconda corsa alla presidenza.

Per il governo afghano è un colpo a freddo, non è stata coinvolta la Turchia nè un altro alleato storico di Kabul (i sauditi) che avevano ospitato altri tentativi di colloqui di pace durante il pellegrinaggio alla Mecca. Ma almeno il palazzo presidenziale esce dalla paralisi seguita all’uccisione di Rabbani, il capo dell’alto consiglio per le trattative.

Per i talebani è un’opportunità: quella di evitare di continuare ad invecchiare durante una guerra dove hanno chiaramente una posizione di vantaggio, in quanto forza di guerriglia, ma che sanno di non poter vincere esattamente come di non poter perdere. Tra l’altro, la posizione della recente conferenza di Bonn (supporto finanziario al governo Karzai anche dopo il 2014 da parte degli governi occidentali) ha ulteriormente allungato l’orizzonte temporale della “resistenza” talebana in un conflitto di logoramento.

Il vero nodo da sciogliere resta però sempre lo stesso: trovati gli interlocutori, avviate le trattative, quale sarà l’accordo? I talebani chiederanno di certo modifiche alla costituzione e, in primis, una forte riduzione dei diritti delle donne, in generale dei diritti di espressione ed individuali sanciti (non sempre garantiti) nel nuovo Afghanistan. Si finirà per siglare un accordo che riporta il Paese indietro di dieci anni? Certificando così l’inutilità di questi dieci anni di conflitto?
Inoltre sul fronte del governo Karzai, chi applicherà un accordo del genere? Non di certo i tagiki del Fronte Unito che già lanciano strali contro un’ipotesi di governo con i talebani (pashtun).
Per ora l’occidente dovrà cedere sulla liberazione di alcuni prigionieri talebani che sono ancora a Guantanamo così di fatto cedendo sul principio per cui non si tratta con chi ha avuto a che fare con Al Qaida.
E poi cos’altro verrà messo sul tavolo del negoziato?

La morte porta il turbante

E’ la terza volta negli ultimi mesi che un kamikaze colpisce con una bomba nascosta nel turbante, “sacro” per ogni afghano del sud perchè è la cosa più intima che un pasthu possa indossare. O almeno è questo il conteggio che ho fatto io, considerando gli attacchi alla moschea dove si celebrava la memoria dell’appena ucciso “re” di Kandahar, il fratello di Karzai, e poi l’assassinio del sindaco della stessa città. Oggi il turbante è esploso in una casa di Wazir Akbar Khan, il quartiere residenziale di Kabul, dove molti ex-signori della guerra hanno costruito le loro case.  La sto prendendo alla larga – lo ammetto – ma la notizia di cui sto scrivendo è di una gravità senza precedenti nel senso che avrà ripercussioni di lungo termine e merita di essere raccontata bene nei dettagli.

Quando la bomba è esplosa oltre a decapitare il kamikaze ha ucciso l’uomo che lo stava abbracciando ovvero l’ex-presidente Burhanuddin Rabbani, che guidò l’Afghanistan dopo la caduta di Najibullah (l’ultimo leader filo-sovietico) prima di venir anch’egli cacciato ma quella volta dai talebani.
Rabbani aveva avuto da circa un anno l’incarico di guidare il consiglio per la riconciliazione nazionale alias di occuparsi delle trattative di pace con i talebani. Ed è stato ucciso proprio mentre incontrava una delegazione di ribelli. Un altro segnale di come le infiltrazioni talebane ormai siano sempre più capillari negli apparati di sicurezza e più in generale governativi.

Rabbani aveva le mani sporche di sangue, come tutti quelli che hanno preso parte alla guerra civile e al massacro di un’intera città, Kabul, negli anni ‘90. Mi dispiace dirlo nel giorno della morte di uomo perchè non vorrei essere frainteso: niente può giustificare un omicidio; ma è un elemento importante per capire che non è stato ucciso un eroe nazionale nè qualcuno a cui il popolo afghano era particolarmente vicino. Infatti la sua scelta come capo dell’High Peace Council aveva sollevato non poche polemiche, figlia dell’ennesima alchimia etnico-politica di Karzai, l’equilibrista.
Eppure, nonostante questi elementi, l’omicidio di oggi avrà effetti di lungo periodo perchè rappresenta il timbo a cera lacca sul fatto che le trattative di pace in Afghanistan sono al momento impossibili.

Negli ultimi due anni abbiamo sentito ripetere come un mantra dai vertici militari e politici della coalizioni che bisognava sedersi al tavolo delle trattative con un posizione di forza ecco perchè intanto i marines avanzavano (e morivano) tra i canali d’irrigazione della green zone, la zona coltivata lungo il fiume Helmand. Al momento l’impressione è che la posizione di forza (almeno sul piano psicologico e del rapporto con la popolazione) l’abbiano raggiunta i talebani, con una serie di attacchi nel cuore delle città e una raffica di omicidi mirati alias una campagna di terrore su vasta scala.

Non solo sarà adesso difficile trovare un sostituto con l’autorevolezza (perchè questa non gli mancava) di Rabbani ma soprattutto oggi si è rotta un’usanza quella che consente a due avversari afghani di incontrarsi, magari tra mille ipocrisie ma senza farsi del male, anche se poi dopo i saluti si ricomincia a spararsi addosso.
L’episodio di oggi crea un tale clima sospetti e diffidenze che renderà sempre più difficili incontri trasversali e clandestini come quelli necessari a portare avanti un processo di pace. Un omicidio condotto in maniera audace che contribuisce a diffondere nel Paese quella sensazione di insicurezza, la sfiducia in un governo incapace di difendere sè stesso e i suoi uomini.
Un omicidio che fa pensare per la sua dinamica infida all’uccisione di Massoud, ammazzato da due finti giornalisti con telecamera al tritolo.

La settimana scorsa il leader dell’organizzazione ribelle forse più pericolosa del Paese, ovvero il network Haqqani, si era fatto sentire con la Reuters (cosa molto rara per Sirajuddin, il giovane Haqqani) annunciando che i suoi uomini avrebbero deposto le armi se i talebani si fossero pronunciati a favore della pace.
Chiacchiere per ora, mentre il numero dei militanti che hanno effettivamente deposto le armi a fronte del programma per il reinserimento nella società (incentivi alla rottamazione dei kalashnikov…) è andato ben oltre i suoi obiettivi con 2500 miliziani usciti dalla clandestinità. Purtroppo sono solo soldati semplici delle forze anti-governative per lo più attivi non nelle zone più calde del Paese. Anche il processo guidato sin’ora da Rabbani non era riuscito a scalfire il nocciolo della dirigenza ribelle che ormai sembra aver capito che, forse, combattere consentirà loro di riprendersi tutto il Paese senza dover mediare con nessuno, del resto c’è solo da aspettare fino al 2014 mentre Karzai è un uomo sempre più solo. Il presidente più solo del mondo come racconta questa esclusiva del britannico, The indipendent…

http://tashakor.blog.rai.it/2011/09/21/la-morte-porte-il-turbante/

“Noi, le altre”

Storie di donne da Kabul, donne altre rispetto allo stereotipo del burqa

Clicca qui per vederlo on line sul sito della Rai

Latifa, l’unica pilotessa dell’aviazione afghana; Robinà, la prima atleta a rappresentare l’Afghanistan alle olimpiadi nonostante le minacce che la inseguono ancora oggi che corre per un seggio al parlamento; le studentesse del nuovo conservatorio di Kabul che ogni giorno sfidano lo “stigma” che grava sulla musica, attività considerata sconveniente nel Paese dopo i divieti degli anni buii dei talebani. Con loro, le insegnanti venute dall’estero per ricostruire il patrimonio musicale afghano, distrutto da trent’anni di guerra.

Di queste donne, diverse dallo stereotipo afghano del burqa, racconta il reportage di Nico Piro per la fotografia di Valter Padovani “Kabul: Noi, le altre” in onda sabato sera alle 0.45 su RaiTre, numero monografico di Agenda del Mondo, il settimanale di esteri del Tg3 a cura di Roberto Balducci.

Ma tra “le altre” ci sono anche Rahianà, bambina di strada che raccoglie carta-straccia per strada ma sogna di fare il medico, Dihà e Gulandom che hanno trovato la forza di fuggire alle violenze delle famiglie, dai mariti, dei padri, perchè vogliono una vita diversa.

Storie che si stagliano sullo sfondo di una possibile trattativa tra talebani e governo Karzai per chiudere una guerra che nessuno riesce a vincere, trattativa nella quale proprio i diritti delle donne rischiano di essere una delle partite di scambio.

“Kabul: Noi, le altre” in onda sabato sera alle 0.45 su RaiTre

Negoziati o colloqui di pace?

Tutto comincia qulalche settimana fa, il 27 settembre, quando il generale Petraeus durante un tour del carcere “per insurgent” di Parwan annuncia che ci sono contatti tra governo afghano e ribelli (qui la sintesi del NY Times). E’ il primo segnale del genere in mesi e dopo mesi dalla peace jirga, condita dai talebani “a mortaiate”. Ma la stamoa internazionale – questa la mia impressione -non prende troppo sul serio Petraeus, generale in attesa della “strategy review” di dicembre, interessato quindi a far sapere alla Casa Bianca che va tutto meglio magari per ottenere l’autorizzazione a tenere sul campo le truppe americane oltre la data dell’inizio ritiro, fissata da Obama per il 2011.

La settimana scorsa è il Washington Post, con questo articolo, ad aggiungere sostanza a quelle affermazioni. Il quotidiano statunitense rivela che a Kabul, Karzai sta tenendo incontri con i vertici talebani. Ma la notizia nella notizia è che per la prima volta in pratica, gli emissari della guerriglia sono autorizzati dalla shura di Quetta (cittadina pakistana…) ovvero dal governo talebano in esilio. Dall’indiscrezione su Karzai, passiamo alla conferma di Karzai medesimo che coglie l’occasione della presenza al più importante talk show del mondo, il Larry King Show della Cnn, per confermare che i colloqui questa volta ci sono un serioKarzai ha usato l’immagine del figliol prodigo o giù di lì: “They are like kids who have run away … from the family. The family should try to bring them back and give them better discipline and incorporate them back into their family and the society”. Però lo stesso Karzai ha precisato che si tratta di colloqui non ufficiali e che, comunque sia, toccherà al consiglio della pace (High Peace Council) entrato in carica pochi giorni fa, approfondire questi colloqui e trasformarli in negoziati.

La reazione americana è stata variegata, confermando in qualche modo l’idea che al di fuori del ristretto circolo del presidente si sappia molto poco del contenuto dei colloqui. L’inviato della Casa Bianca, Holbroke, ha ribadito la portata informale dei colloqui e ha sottolineato come si tratti più di “reintegrazione” che di “riconciliazione”, tradotto in lingua comune, il fenomeno consisterebbe sostanzialmente di leader militari che cercano personalmente una strada alternativa alla guerra. Inoltre in altre agenzie viene riportata l’opinion di Holbroke secondo cui tutto sommato si tratterebbe di un “trend mediatico del mese”, nulla più. Ma i rapporti tra Holbroke e Karzai sono notoriamente pessimi. Il segretario alla Difeda, Gates, sulla via di Bruxelles ai giornalisti ha detto che la coalizione a guida Nato in Afghanistan ha agevolato i colloqui garantendo un “passaggio sicuro” agli emissari ribelli (ovvero di non ammazzarli sulla strada di Kabul). Il generale Petraeus a Londra ha affermato che questo tipo di “salvacondotto” è stato garantito ad almeno un leader talebano.

Il consiglio per la pace, voluto dalla peace jirga di giugno a Kabul, è da pochi giorni in attività con i suoi sessant’otto membri ed il suo presidente, un uomo nuovo…Borhanuddin Rabbani! Capo di Jamiat-e Islami, partito che sarebbe poi diventato una delle principali fazioni mujaheddin, nonchè ex-presidente afghano tra il 92′ e il 96′ ovvero dopo il filo-sovietico Najibullah e prima della presa di Kabul da parte dei talebani. Un uomo perfetto per parlare con i talib, nota il raggruppamento politico di Abdullah. Interessante il profilo che ne traccia El mundo, in questo articolo segnalatomi dal collega Stefano Pizzetti. L’altro interlocutore al tavolo è il Pakistan che, ovviamente, vuole continuare a decidere del futuro dell’Afghanistan ed ha già fatto sapere che senza un suo ruolo non sono possibili trattative di pace, certo se arresta i leader in contatto con il governo – come ha fatto col mullah Baradar – all’inizio dell’anno, sarà difficile andare avanti. I talebani intanto hanno smentito di aver preso parte a colloqui di pace, ma potrebbe essere solo una mossa tattica. Intanto mi preme segnalare questa esclusiva Bbc dove si racconta come Al Qaida sia sempre più presente al fianco dei talebani. Un fatto non secondario perchè – ricordiamolo – la pace con Al Qaeda non è in agenda, il punto è la riconciliazione nazionale, afghani con afghani, proprio per riportare il Paese in equilibrio ed evitare che torni ad essere un rifugio per i terroristi. Anche il mullah Omar, secondo gli americani, deve essere escluso dai colloqui e dall’eventuale futura amnistia.

Il dubbio su tutta questa vicenda è la natura dei contatti, sono negoziati o solo colloqui di pace? Per ora sembra siano solo colloqui ovvero conversazioni preliminari, molto preliminari. L’entusiasmo che ho visto in qualche commento mi è sembra azzardato, la fine del conflitto non è dietro l’angolo. In Afghanistan le trattative iniziano (ed è un bene) ma non è detto che finiscano, che giungano ad una conclusione concreta. Il punto è anche militare. Gli americani sperano di spingere i talebani a trattare schiacciandoli militarmente o meglio facendo capire loro che questa guerra non può essere vinta da nessuna delle due parti in campo (ecco alcuni dati sullo sforzo bellico negli ultimi mesi). Il punto è che, nonostante l’aumento delle truppe, non si vedono grandi miglioramenti della situazione militare ma solo aumento dei caduti e i talebani potrebbero essere anche tentati dall’idea di resistere, del resto dalla loro parte hanno il vantaggio di essere a casa propria, con qualche problema logistico in meno rispetto agli stranieri. Infine le trattative riguardano leader ribelli ma non dobbiamo mai dimenticare che quelli che, per comodità mediatica, chiamiamo talebani, altro non sono che una galassia di gruppi anti-governativi, tra i quali anche i talebani. Siamo sicuri che siano stati avviati colloqui con tutti?

La stretta di mano

Tra gli esponenti della variegata guerriglia afghana che solo per comodità giornalistica viene chiamata “talebana”, che Hekmatyar fosse l’unico pronto a trattare con il governo Karzai lo si era capito da alcuni elementi recenti come la sua risposta parzialmente positiva all’ormai tradizionale appello alla riconciliazione lanciato da Karzai alla fine del ramadan; la notizia di scontri al nord, alcuni giorni fa, tra talebani e gli uomini di Hezb-e-Islami (il partito-movimento militare di Hekmatyar, i cui appartententi vengono dagli americani indicati come HIGs) per il controllo dei villaggi della zona; quella di un incontro avvenuto ad inizio anno alle Maldive con gli esponenti di questa fazione.

Ieri è arrivata però un’inedita conferma ufficiale, il portavoce del presidente Karzai ha fatto sapere che a Kabul c’è una delegazione del movimento e sta trattando con il presidente. Secondo le dichiarazion di Haroon Zarghon, portavoce di H-E-I, alla France Press la delegazione avrebbe consegnato al presidente Karzai un documento in 15 punti come base per i negoziati di pace. Sembra anche di capire che la rigidità sulla richiesta del ritiro straniero sia caduta, sostituita da un calendario per il ritiro.

Un fatto del genere, per quanto sia un passo fondamentale verso la fine di una guerra che nessuno potrà mai vincere militarmente, fa arrivare tutti i nodi al pettine della “strategia della riconciliazione nazionale” ovvero farà capire quale sarà il prezzo della pace e se si tratterà di un prezzo che l’occidente può permettersi. Il prezzo sono le concessioni che il governo Karzai e i suoi sponsor occidentali vorranno fare a personaggi come Gulbuddin Hekmatyar, uomo dalle mani sporche di sangue e tra i principali nemici di quel suo stesso popolo per il quale dice – senza grande convinzione – di combattere.
E’ evidente cioè che se la pace (evento che se arriverà – non arriverà domani) verrà fondata sull’azzeramento delle poche conquiste della fragile democrazia afghana, beh…a quel punto sarebbe come dire che l’occidente, in questi anni, ha buttato migliaia di vite (in primis quelle dei civili afghani) e milioni di dollari per uno scopo non chiaro. Hekmatyar, noto per i suoi cambi di fronte e per la sua brama di potere, ha voglia di ritornare al potere, l’accordo con la sua fazione servirebbe chiaramente come successo mediatico per Karzai nel suo tentativo di condurre colloqui di pace. L’importante, però, è sapere che, se quella militare non è la soluzione, le trattative non si risolvono solo con una stretta di mano visti anche i personaggi coinvolti. E nel panorama della guerriglia afghana e dei signori della guerra, Hekmatyar è a mio avviso il personaggio peggiore di sempre.

Chi è Hekmatyar?
Formatosi nel clima tempestoso dei primi anni 70′ all’università di Kabul (clima di radicalismo nel quale nacquero sia i movimenti comunisti che quelli islamisti), anni dopo, fuggito in Pakistan, l’ “ingener” Gulbuddin Hekmatyar ha avuto la capacità di diventare il punto di riferimento principale dell’ISI, i servizi segreti pakistani, quando questi distribuivano i soldi di Washington e dei sauditi ai mujaheddin per organizzare la guerriglia anti-sovietica in Afghanistan. Amato dagli americani per la sua determinazione nel combattere i sovietici (la stessa con la quale avrebbe combattuto gli stessi americani) nonostante il suo coinvolgimento nel traffico di oppio. All’avvicinarsi della vittoria, con il ritiro sovietico, l’ingegnere ha pensato bene di ammazzare intellettuali ed esponenti moderati della resistenza afghana per poter conquistare il futuro controllo del paese. Famosa nel 1992 la sua marcia su Kabul, alla caduta di Najibullah (presidente filo-sovietico), nella quale venne beffato da Massoud, com’è famosa (tristemente) la battaglia tra i due per la contesa della città e la pioggia di razzi che, per mesi, Hekmatyar ha scaraventato sulla capitale radendola al suolo, Heckmatyar nella telenovela dei governi afghani duranti il periodo della guerra civile ha anche ricoperto ruoli di primo piano in questi fragili esecutivi per poi finire esiliato dai talebani in Iran. Da stretto alleato degli americani negli anni ’80 (gli anni ’90 sono un buco nero nella politica americana verso l’Afghanistan) dal 2001 Heckmatyar si conferma l’estremista islamico che è sempre stato.

L’invasione americana gli dà la possibilità di riavere un ruolo in Afghanistan, questa volta per combattere gli odiati americani (con i loro stessi soldi per giunta, accumulati negli anni ’80). Gli uomini del suo Hebz-e-islami sono molto attivi nell’area est del paese, come la provincia di Kunar, come nelle aree più vicine a Kabul (le storiche roccaforti di Cherasiab e Surobi) ma anche nel nord. Hekmatyar non è il solo criminale ed assassino del panorama politico afghano sia della guerriglia che del governo filo-occidentale (forse il solo Karzai è l’unico a non aver mai avuto una propria milizia). Purtoppo sono questi i personaggi a cui stringere la mano, anche perchè una “vera” pace con l’ “ingegnere” sarebbe un contributo alla stabilizzazione di un’importante area del paese. Contributo importante seppur parziale, visto che le fila del grosso della guerriglia le tirano Haqqani figlio e il Mullah Omar. Sempre che un “pacificato” Heckmatyar sia poi in grado di continuare a controllare le sue “truppe” ma questa – forse – non è solo questione di soldi a cui Hekmatyar tiene e non poco.

Il (grande) gioco intorno al Mullah Baradar

Ho aspettato circa un mese prima di commentare, con questo post, la notizia dell’arresto del mullah Baradar, il capo militare dei talebani, considerato molto vicino al mullah Omar (mi astengo dalle numerazione tipo numero due dell’organizzazione o dalla definizione di braccio destro, visto che queste organizzazioni hanno sempre dimostrato di avere molte braccia). Ho aspettato perchè la notizia aveva ed ha del clamoroso troppo per non prendersi del tempo per provare a capire cosa fosse successo davvero. Le rivelazioni degli ultimi giorni sono un aiuto in questa direzione. Ma andiamo con ordine.

A metà febbraio il NY Times apprende della notizia dell’arresto ma, su richiesta della Casa Bianca, ne ritarda la pubblicazione. Dopo lo scoop del giornale newyorkese, il 17 febbraio, le autorità pakistane confermano la cattura – inizialmente definita dalla stampa americana come un segno della nuova collaborazione tra Cia e ISI, i rispettivi servizi segreti dei due Paesi (per approfondire vedi qui). Successivamente viene fatta circolare la versione (che suona davvera come un modo per metterci una pezza diplomatica) di un arresto tutto sommato nato per caso. La cattura – tra l’altro – avviene (casualmente?) durante l’offensiva di Marjah, l’ “opening salvo” come la definisce il generale McChrystal di un’operazione su più aree critiche del Paese, destinata a durare mesi.
Negli stessi giorni vengono arrestati altre tre quadri intermedi dei Talebani, sempre in Pakistan, come i governatori “ombra” delle province di Baghlan e Kunduz. Successivamente, il 7 marzo, l’Ap diffonde la notizia dell’arresto di Adam Gadahn, il portavoce statunitense di Al Qaeda, notizia poi smentita ma che se confermata avrebbe confermato un totale cambio di scenario in Pakistan.

Il Pakistan è il padre politico e finanziario (con la tasca dei sauditi e dei contribuenti americani) del movimento dei talebani, ed è questa una verità storica ormai inconfutabile. E’ altrettanto certo che i capi dei talebani e di Al Qaeda (Bin Laden incluso, se ancora vivo) si nascondano in territorio pakistano e che nello stesso territorio ci siamo i campi di addestramento dove il movimento è rinato militarmente nel post-2001. Lo chiamiamo sospetto ma è una quasi-certezza quella che l’ISI, i servizi pakistani, sappiano precisamente dove siano i loro nascondigli, finora (quasi  mitologicamente) immaginati tra le montagne al confine tra i due paesi mentre poi si scopre che Baradar viveva a Karachi. Sin’ora i pakistani, nella loro controversa alleanza con gli Stati Uniti non hanno mai fornito piena collaborazione, se non forse sul versante dei cosiddetti talebani pakistani che tanti problemi stanno creando al governo di Islamabad, per cui questa serie di arresti poteva rappresentare una svolta radicale, storica, in questo complicato rapporto. Ma non è così stando alle rivelazioni di Kei Eide.

L’ex-inviato Onu per l’Afghanistan, in un’intervista di fine mandato alla Bbc del 19 marzo, racconta che l’arresto di Baradar ha interrotto le trattative segrete tra Nazioni Unite e Talebani. E’ la conferma di prima mano all’indiscrezione diffusa dalla Ap il quindici marzo che raccontava di un Karzai furioso dopo l’arresto di Baradar, suo contatto tra i Talebani, anche per la poca chiarezza del ruolo americano nella vicenda. Baradar, secondo le fonti citate dall’Ap e vicine a Karzai, sarebbe stato disponibile a partecipare alla jirga della pace ad aprile.
Secondo Eide: “The effect of [the arrests], in total, certainly, was negative on our possibilities to continue the political process that we saw as so necessary at that particular juncture,” – ovvero l’arresto ha chiuso un canale di comunicazione e mandato all’aria un anno di lavoro – “The Pakistanis did not play the role that they should have played…. They must have known who they were, what kind of role they were playing, and you see the result today” – ovvero nuove ombre sui pakistani dei quali è anche difficile vedere una strategia univoca (l’ISI segue chiaramente una propria politica fuori dal controllo e dalle intezioni del debole governo Zardari). E’ ipotizzabile che vogliano alzare il prezzo del caos afghano e chiarire che senza il loro intervento qualsivoglia trattativa non sia nemmeno immaginabile. Intanto, sullo sfondo della vicenda, continua il braccio di ferro sull’estradizione di Baradar in Afghanistan – dove gli americani avrebbero totale accesso al prigioniero, cosa che non starebbe accadendo durante la sua detenzione in territorio pakistano.

Ma lo scenario delle interpretazioni ha anche tutta una serie di sotto-varianti, per esempio quella che gli americani abbiano deliberatamente voluto fermare il canale diretto di Karzai per evitare che le trattative si aprissero prima delle prossime operazioni militari nel Paese, pensate per “ripulire” aree chiave come Kandahar e Kunduz – (fresca la rivelazione di un alto ufficiale tedesco su una prossima offensiva anche nel nord). Per meglio capire i rapporti tra Karzai e Baradar si veda questa analisi che cita , oltre al rapporto tribale tra i due, anche un episodio successivo all’ingresso di Karzai nel paese nel 2001.
Da ultimo c’è anche la possibilità che il mullah Omar contrario ad ogni tipo di trattativa abbia “impacchettato” Baradar e in qualche modo abbia favorito il suo arresto.

Il grande gioco è così grande che non se ne riesce a vedere la fine diceva “qualcuno”…