Tag: Tim Hetherington

Insieme a Restrepo

Tim Hetherington
Tim Hetherington

Chissà qual è l’ultima immagine che ha scattato la sua macchina. Non riesco a pensare ad altro e non è una curiosità cinica la mia; a volte mi consola pensare che fotografi e cameraman hanno un privilegio, forse l’unico nel loro lavoro che li porta – necessariamente – ad esporsi così tanto: la macchina fotografica o da presa è come la loro retina, nella più tragica delle evenienze forse l’ultima immagine che hanno visto nella loro vita sopravvive in un pezzo di plastica grande come un polpastrello, una scheda di memoria risparmiata da un’esplosione.
E’ giusto rischiare di morire e morire per raccontare qualcosa? Fuor di retorica, forse è il momento più alto della vita di un reporter che pur ha in mente sempre e comunque la stessa cosa, ovvero tornare a casa vivo ma solo dopo aver fatto fino in fondo il proprio dovere di verità. Se le immagini ti sopravvivono, forse è una consolazione in più, un motivo in più per pensare che non è stato un sacrificio vano, un po’ come quando qualcuno muore per salvare altri. O forse sono solo chiacchiere che mi vengono in mente perchè servono a curare lo sgomento.

Stasera mi tremano le gambe
, che non è una gran novità per me, ma mi tremano sul serio: fuor di metafora. Ho appena saputo che Tim Hetherington è stato ucciso a Misurata. Nato a Liverpool, era un fotografo semisconosciuto (nonostante il suo grande lavoro in Liberia) quando è riuscito ad arrivare nel 2008 a vincere il word press award per aver scelto di occuparsi di quel campo di battaglio dimenticato (all’epoca e drammaticamente di nuovo ora) chiamato Afghanistan. Ne ho scritto varie volte in questo blog per le sue frequentazioni di un luogo a me molto caro, la valle di Korengal dove ha girato il documentario Restrepo, dal nome del caduto Juan Restrepo di cui portava il nome uno degli OP (piccoli avamposti di osservazione) più pericolosi della più pericolosa valle dell’Afghanistan. In poche parole il film di guerra più realistico mai girato, semplicemente perchè non era un film ma un documentario.

Le notizie al momento sono confuse, inizialmente dato per morto con Hetherington (entrambi colpiti da un rpg), starebbe lottando tra la vita e la morte anche Chris Hondros, famoso per queste fotografie che raccontarono dell’assurdità della guerra in Iraq, la banalità dell’orrore: un auto ad un posto di blocco americano, la sparatoria, una famiglia innocente a terra. Foto mosse che all’epoca mi ricordarono vividamente quelle del grande Capa allo sbarco in Normandia, forse anche per questo Hondros (qui il suo sito) ha vinto il premio che porta il nome del più grande fotoreporter della storia. Con loro, più lievemente, sarebbero stati feriti altri due o tre fotografi, non è ancora chiaro.

Ho incontrato una sola volta Tim Hetherington, non in Afghanistan nonostante ci fossimo incrociati e mancati diverse volte. Strano a dirsi ma l’ho incontrato brevemente a New York, ad una festa; lui si era trasferito lì a Williasburgh, Brooklyn per montare con Sebastian Junger, proprio “Restrepo”. Una breve conversazione, niente di più e niente di memorabile come una festa confusionaria e allegra impone ma ricordo una ragazza che era con lui; una volta sola, da parte mi chiese come mai pur avendo visto “a lot of shit on the battle field” i reporter, tornati a casa, non ne parlano mai. Non le seppi dare una risposta, non lo saprei fare nemmeno ora mi sembrerebbe troppo scontato.

Venerdi’, Restrepo!

Restrepo - Battle Company in Korengal
Restrepo - Battle Company in Korengal

Per chi riesce a vedere il canale italiano di National Geographic (pacchetto Sky “mondo e culture” o almeno penso si chiami cosi’) quello di stasera e’ un appuntamento da non perdere, in un Paese che ha 4000 soldati in Afghanistan magari qualche bar dovrebbe cancellare dalla lavagna all’esterno “stasera partita di calcio di…” e scrivere “stasera alle 21,10 Restrepo”.

Restrepo e’ il film documentario di Sebastian Junger (“la tempesta perfetta” ma prima ancora lunghi trascorsi afghani con Massoud) e di Tim Hetherington (world press award 2008 per la foto “la stanchezza di un soldato, la stanchezza di una nazione”) girato nel corso del 2007 e di una parte del 2008 con gli uomini della Battle company della 173esima divisione aviotrasportata dell’esercito americano, in un fire outpost ovvero un piccolo fortino assediato (che verra’ poi intitolato ad un caduto, il soldato Restrepo appunto) nella valle della morte, la valle di Korengal. Valle oggi abbandonata dai militari (vedi qui) perche’ era impossibile da controllare e per l’alto numero di caduti e feriti ma anche perche’ le truppe occidental piuttosto che combattere in mezzo al nulla, si stanno concentrando sulle aree piu’ densamente popolate.

Su Restrepo ho scritto un post quasi un anno fa quando ha vinto il premio al Sundance, rinvio a quel post che parlava di come si puo’ raccontare una guerra e raccontarla in maniera anche embed nonostante una certa retorica che, alla fine, fa il gioco di chi vorrebbe le guerre non raccontate affatto.

La valle di Korengal verra’ ricordata nella storia di questa guerra perche’ e’ il luogo in cui si sono materialzzate tutte le contraddizioni e le difficolta militari del combattere in Afghanistan, un monumento all’assurdita del conflitto. In questi giorni sto leggendo “the hidden war” sulla guerra russa in Afghanistan ed i parallelismi con Restrepo sono tanti, la differenza sostanziale e’ che il primo e’ uscito a guerra finita e muro di Berlino caduto. Anche per questo vale la pena di vedere questo documentario sul quale il britannico Indipendent si e’ posto un quesito interessante (vedi qui). Non ho ancora visto (per intero…) Restrepo ma conosco quella valle, conosco quei soldati e le loro storie e so che chi ha avuto la forza e la fortuna di documentare per quasi un anno la loro esperienza nella valle della morte, non puo’ – fosse solo per il materiale girato – che aver eretto un lucido monumento a quanto complesso ed assurdo sia combattere in Afghanistan.

Foto-grafia afghana


Daylight #8 copertina
Daylight #8 copertina

La rivista Daylight di fotografia ha dedicato all’Afghanistan il suo ultimo numero, con foto selezionate secondo questo criterio: focused intimacy not typically presented in mainstream media coverage – ovvero una lettura staccata dalla “notizia del giorno”, dall’hard-news, a favore di un approccio più individuale e personale al Paese. Le foto che compaiono in questo numero sono di: Eren Aytuğ, Adam Broomberg & Oliver Chanarin, Teru Kuwayama & Balazs Gardi, Tim Hetherington, Aaron Huey, Yannis Kontos, Seamus Murphy, Moises Saman, Lana Slezic, Veronique de Viguerie, Farzana Wahidy, Beth Wald.

La rivista può essere comprata in formato .pdf o in cartaceo (rispettivamente 5 o 10 dollari) sul sito della rivista. In copertina la foto “classica” che ha sempre accompagnato la storia dell’ufficiale (donna) di polizia a Kandahar, uccisa l’anno scorso davanti la sua casa nel sud del Paese.

“Restrepo” e la retorica anti-embed

Restrepo - Battle Company in Korengal
Restrepo - Battle Company in Korengal

I film sull’Afghanistan, in generale, sono pochissimi (la memoria corre al magnifico “Ritorno a Kandahar”), tra quelli sulla guerra (più recente) in Afghanistan ricordo solo “Leoni per Agnelli”. Pochi anche i documentari, per esempio il duro “Taxi to the Dark Side”. A questa lista si è da poco aggiunto un film-documentario che ha aperto e chiuso il festival di Sundance 2010, baluardo del cinema non-commerciale negli Stati Uniti. Lo ha chiuso perchè dopo la serata inaugurale del festival è tornato in scena durante la serata di premiazione; ha vinto la sezione dei documentari.

Il film si chiama “Restrepo”, e mi ci sento particolarmente legato pur non avendolo visto, perchè ho incrociato la strada degli autori e ho vissuto esperienze e luoghi raccontati in questo film-documentario oltre ad aver conosciuto sul campo, a Korengal, parte dei soldati che ne sono protagonisti, gli uomini della battle company della 173ma brigata aviotrasportata dell’esercito americo, 2ndo Battaglione “The Rock”.

“Restrepo” è stato girato da Sebastian Junger e Tim Hetherington. Il primo è famoso per il suo capolavoro letterario di docu-fiction “La Tempesta Perfetta” (da cui il film omonimo), con trascorsi da reporter di guerra in Afghanistan negli anni ’90. Il secondo, è un fotoreporter diventato famoso per aver scattato sempre nella valle di Korengal (meglio nota come la valle della morte provincia di Kunar, Afghanistan orientale) la foto che gli fatto vincere il world press award del 2008 (“la stanchezza di un uomo, la stanchezza di una nazione – qui per vedere la foto, entrambi scrivono per Vanity Fair). Il film ha un punto di forza: è stato girato lungo tutto l’anno di servizio nella valle, una decina di viaggi embed che hanno portato i due autori a coprire praticamente tutte le esperienze vissute da questi uomini nel luogo che incarna la guerra in Afghanistan e tutte le sue contrattizioni. (solitamente gli embed non arrivano ad un mese di durata per mille motivi pratici dei giornalisti che li svolgono). Gli autori hanno poi incontrato di nuovo gli stessi militari a Vincenza, dove la 173ma fa base, per raccogliere i loro ricordi su quell’infernale anno.

“Noi siamo già famosi” mi ha detto, una volta, uno degli anziani della valle (che nel film si vedono durante estenuanti e inconcludenti shura, riunoni tribali) durante la mia permanenza lassù, in uno scenario naturale bellissimo a parte i bombardamenti e le imboscate. Una frase che dice tutto sul destino di quella valle, ormai un’icona della guerra in Afghanistan citata persino in diverse menzioni di premi giornalistici (tra cui l’Ilaria Alpi, assegnato nel 2008 a me ed al collega Gianfranco Botta del Tg3) ed ora addirittura in recensioni cinematografiche.

“Restrepo” sembra straordinario (dico sembra perchè non l’ho visto- mi baso sulla mia conoscenza del lavoro dei due e sui materiali preliminari pubblicati in questi ultimi tre anni “in pillole” come articoli, servizi tv, ecc. ecc.). Un impietoso quadro delle contraddizioni e del tono di surreale della guerra in Afghanistan, con le quali devono ogni giorno confrontarsi le truppe occidentali, immerse in un’ambiente ostile o – nella migliore delle ipotesi – incomprensibile. Un film da vedere per capire meglio perchè in Afghanistan si gioca una sorta di “tris” sul campo di battaglia, il “tic-tac-toe”…un gioco dove alla fine non vince mai nessuno o meglio nessuno può vincere.

Restrepo - Junger ed Hetherington
Restrepo - Junger ed Hetherington

Commento. “Restrepo” è un film embed, ovvero girato al seguito delle truppe americane. Ha vinto il Sundance, icona dell’indipenza. Spero che tutto questo aiuti a superare una preconcetta e salottiera avversione all’embed, cominciata da quando questo termine è entrato in voga (Iraq 2003) sull’onda della (giustificata) rabbia contro una guerra sbagliata, tra le più assurde di sempre. La retorica anti-embed presuppone che articoli, servizi, reportage realizzati al seguito di militari non siano prodotti giornalistici degni di questo nome, diciamo anche non indipendenti, asserviti. Chi si nasconde dietro questa retorica dimentica che, quando non si chiamava embed, con queste modalità sono state raccontate pagine memorabili di guerra che altrimenti non si sarebbe potuto descrivere/mostrare: dallo sbarco in Normandia alla guerra civile spagnola – anche Robert Capa era embed! – per finire alla guerriglia anti-sovietica dei mujaheddin in Afghanistan. Inoltre alcuni fanno finta di non capire o non sanno che ci sono – per esempio nell’Afghanistan di oggi – zone dove semplicemente per i giornalisti non è possibile andare se non al seguito delle truppe, pena la vita o peggio (sofferenza per un intero Paese) un sequestro. Senza l’embed oggi non sarebbe possibile mostrare l’assurdità della guerra in Afghanistan, come dimostra “Restrepo” e tante altre pagine di bel giornalismo scritte di recente. Nel mio piccolo è la stessa cosa che ho provato a fare, trovandomi a scegliere tra non raccontare/mostrare nulla e farlo in modalità embed. Ho scelto la seconda opzione perchè ho sempre pensato che vedere un soldato che spara in mezzo ad inaccessibili montagne o una vittima, una sola vittima civile, oppure una famiglia in fuga dalla propria casa…beh che tutto questo valga centinaia di note ufficiali che fanno la conta delle vittime o di editoriali scritti da colti intellettuali; che lo valga a prescindere dal fatto che quelle immagini siano state riprese al seguito dei soldati occidentali, dei talebani o muovendosi autonomamente (come speriamo di poter fare, prima o poi in Afghanistan). Non sto dicendo che l’embed è il migliore dei mondi possibili, ma solo che ultimamente è molto spesso l’unico. Certo è uno strumento delicatissimo che si presta a manipolazioni e condizionamenti. Soprattutto richiede – forse più che in altri contesti – onestà intelluale, grande sforzo professionale, caparbietà e un sentimento di dovere ulteriore verso il pubblico cui spiegare anche in che condizioni si è lavorato affinchè chi guarda o legge possa fare la sua “tara”, al di là di quella già fatta (auspicabilmente) dall’autore.