Qualche settimana fa, mentre ero in Nord-Europa a seguire le ultime tappe del viaggio dei rifugiati nel vecchio continente, un benestante signore dell’ex-Germania dell’Est mi raccontava di treni carichi di rifugiati stoppati – con il freno d’emergenza – nel mezzo delle campagne per far scendere decine e decine di “soldati” salafiti sottraendoli all’identificazione.
Questa storiella. che circola ampiamente, non ha alcun riscontro nei fatti, è solo un rumor ma ben descrive la paura dell’ “invasione” ovvero dell’utilizzo da parte dell’ISIS e di organizzazioni assimilabili del flusso dei rifugiati come di un canale attraverso il quale far scorrere – indisturbato – un bel numero di miliziani sotto copertura, la quinta colonna.
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Attacco a Parigi. Modello Mumbay-Kabul
Gli attacchi a Parigi sono stati condotti con la tecnica dell’operazione coordinata: piccoli gruppi di fuoco, dotati di armi automatiche e di attentatori suicidi, diretti in (quasi) contemporanea contro i cosiddetti “soft target” ovvero obiettivi civili a basso – se non nullo – livello di sorveglianza.
In termini operativi è un salto di “qualità” (le virgolette sono d’obbligo) rispetto agli attacchi a cui l’occidente è stato soggetto negli ultimi anni, da quello al parlamento canadese fino alla stazione di Atocha condotti con la stessa matrice militare (pochi operativi se non persino uno solo) con l’obiettivo di avere un forte impatto mediatico e il più alto numero possibile di vittime civili. Gli operativi – i terroristi – sono solitamente, immigrati di seconda o terza generazione, con alle spalle viaggi nelle aree dei campi d’addestramento, cellule in sonno che si attivano – di solito – attraverso messaggi “in codice” pubblicati su forum jiadisti e incomprensibili ai più.
Al Qaeda, dopo Bin Laden
Chi guiderà Al Qaeda? Cosa succederà all’organizzazione fondata da Bin Laden? Braccato, isolato, lo sceicco era ormai diventato un simbolo più che un capo operativo. Al suo posto arriverà il medico egiziano Al Zawahiri, se l’organizzazione vorrà un’altra icona, un altro veterano del terrore. Se invece si opterà per una figura con più fascino militare, potrebbe essere l’ora del libico Abu Yahya al-Libi, riuscito a fuggire dal carcere di Bagram e sopravvissuto ai bombardamenti in Pakistan. Dalla doppia cittadinanza yemenita ed americana, Anwar al-Awlaki è invece un predicatore capace di farsi ascoltare da vaste platee attraverso la Rete.
Ma Bin Laden sembra aver risolto a priori il problema del suo successore. Ha profondamente cambiato Al Qaeda in questo decennio. Non più l’organizzione monolitica strettamente dipendente dal suo capo com’è stato sino all’11 settembre. L’ha trasformata in un’organizzazione decentrata, un franchising del terrore – come la definiscono alcuni – che unisce piccole cellule in sonno (come quelle che sarebbero in Europa), ma anche organizzazioni bene articolate. Al Shabab, che controlla e amministra una vasta parte della Somalia oppure Al Qaeda nella Penisola Arabica. Dai suoi campi nel deserto dello Yemen, è partito l’attentatore più pericoloso degli ultimi anni, Abdullah Mutallah, che stava facendo esplodere un volo per Detroit. Insomma, ucciso Bin Laden è caduto un simbolo ma la sua organizzazione potrebbe non esser stata decapitata.
Guerra, pace, terrorismo: quando le parole contano
Le parole non sono neutre, non sono un mero accessorio soprattutto quando si parla di argomenti controversi e dibattuti come il conflitto afghano. E’ la riflessione che più di tutte mi viene in mente mentre abbiamo di fronte uno dei peggiori attacchi contro le truppe italiane, quello del Gulistan, costato la vita a quattro alpini della Julia mentre un quinto è stato praticamente miracolato dall’onda d’urto.
Scegliere una parola piuttosto che un’altra per parlare della stessa cosa, può spingere l’opinione pubblica a spostarsi da un alto o dall’altro. Il ministro La Russa, intervenendo subito dopo la strage, ha definito “terroristi” coloro i quali hanno condotto l’attacco contro gli alpini della Julia. E’ una terminologia scelta in passato, in circostanze analoghe, anche da altri leader politici come George W. Bush. E’ chiaro che chi sta a casa si sente più confortato dal sapere che i nostri militari combattono contro terroristi e non contro generici “insurgents”, dà più senso alla loro presenza a migliaia di chilometri da casa ed a spese milionarie per tenerli laggiù.
Nelle “note di linguaggio” Nato, quelle su cui vengono costruiti i comunicai ufficiali, il nemico è stato definito in diversi modi negli ultimi anni: prima ACF (anti coalition forces, ovvero forze ostili alla coalizione) poi AAF (forze ostili all’Afghanistan) ora prevale la definizione “insurgent”, malamente tradotta in italiano come “insorti” che io – personalmente – preferisco rendere come “ribelli” o “guerriglieri”. Terroristi è una definizione utilizzata raramente dai militari anche perchè, tecnicamente, dovrebbe riferirsi solo agli uomini di Al Qaeda che sono una minoranza nella galassia delle forze ribelli, composte da: talebani “veri e propri”, “haqqanisti”, hig-s, uomini dei servizi pakistani, trafficanti e signori della droga, bande locali. Una galassia che conosciamo poco e male. Fazioni che, con interessi e sfumature diverse, hanno tutti lo stesso scopo: mandare via gli stranieri.
Il conflitto in Afghanistan continua ad essere definito “missione di pace” ma evidentemente se la pace resta il suo scopo, quella che si combatte in Afghanistan è una guerra a tutti gli effetti, come definirla altrimenti se laggiù si combatte ormai ogni giorno? Chiamarla “missione di pace” mette a posto la politica con il dettato costituzionale e il sentimento prevalente nell’opinione pubblica che una guerra non la sosterrebbe mai mentre fa sempre più fatica a sostenere la missione afghana. La differenza dirimente potrebbe essere il fatto che le nostre truppe non svolgono azioni offensive, ed è vero solo in parte se solo si considera quello che – per motivi tristissimi – sta trapelando sulle operazione della segretissima task force 45. Operazioni che non possono non essere considerate offensive come nel caso dell’avio-incursione costata la vita al povero tenente Romani il 17 settembre scorso. Ma anche pensando alle operazioni per “costruire” bolle di sicurezza intorno alle fob come accaduto, per esempio, a Bala Morghab, pur condotte assieme alle forze afghane, si fa fatica a considerle operazioni non offensive.
Difficile, inoltre, capire la verità quando – è accaduto oggi – un capo talebano nella provincia di Badghis, nostra zona, viene arrestato da “coalition forces” come dice il comunicato Nato e nessuno sa se quelle forze della coalizione erano anche italiane o no.
Da qualche parte ho letto – forse era un libro di Ahmed Rashid – che ogni paese che mette le mani nel vespaio afghano si ritrova destabilizzato al suo interno. Lasciando da parte i chiari esempi della storia, guardando solo agli ultimi mesi penso alla caduta del governo olandese e alle dimissioni del presidente tedesco. Non so fino a quando tutte queste contraddizioni della missione italiana in Afghanistan potranno essere “compresse” e “gestite” dal mondo politico italiano senza ulteriori effetti collaterali. Sin’ora si è capito che dobbiamo tenere fede ad un “accordo” con gli americani almeno fino al 2011, ma sappiamo anche che le truppe afghane non saranno (sulla carta?) pronte a sbrigarsela da sole prima del 2014. Sarebbe apprezzabile se il mondo politico italiano (maggioranza e opposizione) provasse a capire cosa fare della nostra missione in Afghanistan prima che il film visto in questi giorni si ripeta; prima di ritrovarci a sentir parlare di Freccia, Lince, bombe sui caccia, missione di pace e così via di fronte a nuove vittime. Purtroppo sin da ora sappiamo che i caduti del Gulistan non saranno gli ultimi. Quanto vorrei essere smentito in questa mia amara ma, purtroppo, facile previsione…
Il fango pakistano
C’è anche un risvolto politico nelle ondate di piena che stanno scendendo lungo il bacino idrografico dell’Indo, spostando sempre più a valle – verso sud e verso est – la tragedia pakistana, alluvioni che hanno colpito a vario titolo tra i tredici ed i quindici milioni di persone nel paese; una tragedia senza precedenti che va avanti da due settimane, forse senza l’attenzione mediatica che meriterebbe. Mentre l’emergenza si allarga, nel nord-est, nelle FATA (le aree tribali, pasthun, al confine con l’Afghanistan) dove inizialmente hanno colpito le piogge monsoniche – giorni e giorni dopo – non è nemmeno chiaro quale sia la situazione visto che è difficile passare tra le montagne se non a dorso di mulo. Anche perchè dopo le alluvioni stanno arrivando le frane.
Il presidente Zardari, vedovo della compianta Benazir Bhutto, mentre il suo Paese affondava nel fango, non ha ritenuto di lasciare il lungo tour europeo. In Inghilterra, dove le comunità pakistane sono numerose, si è preso – tra le altre contestazioni – persino una scarpa, tiratagli dalla folla di connazionali in stile-Bush. E’ stato un suicidio politico per un presidente già debole. Intanto sul campo si è visto l’esercito che ha guadagnato crediti agli occhi dell’opinione pubblica, una tirata a lucido per il potere forte della società pakistana e che di questo passo tornerà a piazzare un suo graduato sulla poltrona più importante del Paese. Nelle FATA, come nella valle dello swat, l’esercito si è visto di meno, anche perchè quella è una zona di guerra e non è casa sua. Lì comandano i talebani e si stanno vedendo sul campo ad aiutare i sopravvissuti le organizzazioni caritatevoli islamiche, molto spesso un punto a favore degli integralisti. Difficile pensare che i sei chinook (elicotteri da trasporto a doppia pala) mandati dagli americani oltre frontiera, possano riequilibrare la battaglia d’immagine che è in corso sul campo. Da quanto se ne sa, i risvolti politici che galleggiano nel fango pakistan stanno preoccupando sempre più i diplomatici americani.
Mentre nuove ondate di piena sono attese lungo il fiume Kabul e il fiume Kunar che dall’Afghanistan arrivano in Pakistan, non è chiaro che cosa succederà nei prossimi mesi ai vertici di un Paese decisivo quanto pericolo nella cosiddetta “guerra al terrore” o meglio per gli esiti della guerra sul confinante suolo afghano.