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Ci vediamo il 16 giugno!

Copertina Libro copy

Ci siamo: Il libro è in stampa, tra pochi giorni lo riceveremo dalla tipografia. Le copie dei crowdfunder verranno personalizzate e spedite ma chi vorrà potrà ritirarle di persona allo spazio Lantanta in via dei Fienaroli 31 a Trastevere (Roma) il prossimo 16 giugno, dalle 18.30 alle 21.
Vi aspettiamo per un piccolo brindisi (siamo pur sempre un progetto indipendente quindi non vi aspettate il buffet di rito!), per conoscerci e/o per rivederci.
Sarà anche possibile acquistare copie del libro ad un prezzo più basso di quello di copertina, ovviamente il prezzo scontato del crowdfunding non sarà mai più ripetuto anche per una questione di rispetto verso chi ha creduto nel progetto sin dal primo momento.
Intanto eccovi la copertina del libro…che arriverà in libreria solo a settembre per via del complesso sistema della “cedole” che regola l’uscita e la distribuzione dei nuovi titoli. Chi intanto volesse comprarne una copia può farlo qui.
Chiunque fosse interessato ad organizzare una presentazione attraverso istituzioni, librerie, associazione, biblioteche e così via…puoi contattarmi qui.

PS: per chiarezza l’evento del 7 giugno è stato annullato, ci vediamo direttamente il 16/6

I talebani della porta accanto

Ieri hanno distrutto il monumento dei martiri, una stele dedicata alle vittime della rivoluzione contro il dittatore Moussa Traorè del 1991, nelle scorse settimane hanno distrutto monumenti ben più preziosi ed antichi come le statue di Alfarouk, il cavaliere bianco, l’angelo che protegge la città, la città dei 333 santi: Timbuctù, Timbuktu o se preferite Tombouctou. Stiamo parlando degli estremisti di Ansar Dine, i difensori dell’Islam, braccio di Al Qaida del Maghreb che della città carovaniera, un tempo snodo fondamentale per il transito del sale e dell’oro nonchè per lo studio dell’Islam, hanno fatto la capitale di uno stato che non c’è e che si estende nella parte settentrionale del Mali. Sono giorni buii per un luogo classificato dall’Unesco come patrimonio dell’umanità, una vicenda che non può non ricordare – pur nelle differenze del caso – la demolizione dei Budda di Bamyan.

Quella del Mali è una crisi totalmentedimenticata. Dopo il crollo del regime di Gheddafi, tra fine dei fondi libici destinati al governo di Bamako e ritorno dei tuareg impiegati da Gheddafi per la sicurezza nel deserto, un gruppo di giovani ufficiali golpisti ha preso il potere il 22 marzo. Un golpe debole che ha precipitato il Paese nel caos. A quel punto è intervenuta l’Ecowas (la comunità economica dell’Africa occidentale) per portare un po’ di ordine e ha ottenuto l’insediamento di un presidente “ad interim”. Ma nei giorni scorsi, con i militari che stavano a guardare, una folla di dimostranti ha invaso il palazzo presidenziale aggredendo il presidente Dincounda Traore, ieri volato in Francia per controlli “già previsti”, in realtà per curarsi dalle ferite subite e forse per non tornare più. 
L’ “incidente” è stata l’occasione per i golpisti di rimangiarsi l’accordo con l’Ecowas e  nominare un secondo presidente: il loro capo, il capitano Amadou Haya Sanogo.
“Soliti casini africani” verrebbe da dire ad un osservatore poco attento e molto cinico (in occidente è purtroppo la categoria prevalente quando si parla d’Africa), sarà anche così ma questa volta il “solito casino africano” non riguarda solo l’Africa e il suo dimenticatoio.

Complice l’instabilità a Bamako, il nord del Paese è finito nelle mani dei tuareg e degli islamisti di Ansar Dine che stanno provando a trasformarlo in uno stato indipendente e retto dalla sharia. In un videomessaggio scovato oggi dall’AFP, il capo di Al Qaeda nel Maghreb (Aqmi) l’algerino Droukdel invita  i combattenti ad un’imposizione della sharia che sia più graduale di quanto dovrebbe ma comunque di chiudere subito i luoghi di perdizione, droga e alcool.

La crisi del Mali sta trasformando un parte d’Africa, poco distante dalle coste europee, in uno stato di stile talebano, con l’aggravante che si ritroverebbe al centro dei traffici desertici di armi e droga. Lo spettro (anzi il miraggio) proiettato dal calore che arroventa le dune è quello di una portaerei per criminali e terroristi, arenata in mezzo alle sabbie sahariane. “Soliti casini africani”…sarà, ma è molto probabile che prima o poi qualcuno sarà costretto ad occuparse al contrari degli altri “soliti casini africani” precipitati nell’archivio dei pensieri perduti.

Fuoco indiretto

E’ un rumore sordo, quasi ovattato, che echeggia da lontano, è un colpo “incoming”. Significa che a sparare non sono i “nostri” mortai, quelle dell’Isaf, ma i “loro” quelli della guerriglia. Nel linguaggio militare che riesce, brillantemente, a sterilizzare qualsiasi parola che possa evocare paura, viene definito “tiro indiretto”, c’è chi parla anche di “fuoco indiretto”. I mortai, come i razzi, arrivano a parabola, salgono in cielo e poi ricadono, anche a chilometri di distanza, quasi mai prendendo il bersaglio, arrivandoci vagamente vicino salvo il caso in cui al tiro ci sia un esperto “calcolatore”.

In Afghanistan attacchi del genere nemmeno si contano, sono all’ordine del giorno. Se parla solo quando costano la vita chi li subisce, come accaduto purtroppo sabato al sergente Michele Silvestri, mentre altri cinque soldati italiani hanno riportato ferite. Almeno due di loro verranno segnati da quell’attacco per il resto della loro vita (per inciso, stanno per essere trasferiti al centro medico americano di Ramstein in Germania).

Gli afghani
riescono a muoversi agevolmente sulle loro aspre montagne, riescono a portarsi dietro un mortaio che pesa diverse decine di chili e un massimo di tre colpi, lo sistemano alla buona (altro che messa “in bolla” o calcoli di trigonometria) e sparano in rapida successione sul bersaglio per poi sparire tra le rocce. Il bersaglio sono quasi sempre le evidentemente immobili basi occidentali, soprattutto quelle fob, quei fortini assediati dalle montagne come la base italiana “Ice” in Gulistan, provincia di Farah. L’area nella quale, a tutt’oggi, si contano più caduti italiani. 

I guerriglieri vanno per tentativi, a occhio,
 per questo anche solo per avvicinarsi al bersaglio ci vogliono almeno un paio di “sortite”. Quando i colpi di mortaio arrivano sul bersaglio, in Afghanistan le truppe occidentali, di solito, pensano a combattenti stranieri, come ai “leggendari” ceceni di cui gli americani favoleggiano nella provincia di Logar.
In risposta partono colpi di mortaio che spazzano le alture ma quasi mai riescono a fermare gli attacchi o – per usare il linguaggio ufficiale dell’esercito italiano – a “neutralizzare” gli aggressori (leggi: farli a pezzi).

Mi è capitato diverse volte di trovarmi in una base sottoposta ad attacchi del genere, la prima “mortaiata” ti spaventa, le altre sembrano lontane, poi ti ci abitui e quasi non ci fai più caso nemmeno quando parte la “serie” di colpi di risposta, un boato vicino che invece si squassa dentro.
E’ la routine del conflitto afghano, quella nel mezzo della quale vivono migliaia di soldati occidentali e molti più civili che hanno la sfortuna di ritrovarsi ad abitare nel posto sbagliato. Una routine di cui sarebbe giusto parlare più spessi, descriverla, per far capire quanto complesso sia quel conflitto, quanto pericoloso, quando assurdo nella sua logica di combattimento.
E  anche per non meravigliarsi quando arriva un tragico pomeriggio in cui uno di quei colpi di mortaio cade sul bersaglio, utilizza un cortile per amplificare la sua onda d’urto, spara schegge, sassi e ogni genere di frammento in un ciclone di morte che raggiunge persino le case italiane a migliaia di chilometri di distanza.

La morte porta il turbante

E’ la terza volta negli ultimi mesi che un kamikaze colpisce con una bomba nascosta nel turbante, “sacro” per ogni afghano del sud perchè è la cosa più intima che un pasthu possa indossare. O almeno è questo il conteggio che ho fatto io, considerando gli attacchi alla moschea dove si celebrava la memoria dell’appena ucciso “re” di Kandahar, il fratello di Karzai, e poi l’assassinio del sindaco della stessa città. Oggi il turbante è esploso in una casa di Wazir Akbar Khan, il quartiere residenziale di Kabul, dove molti ex-signori della guerra hanno costruito le loro case.  La sto prendendo alla larga – lo ammetto – ma la notizia di cui sto scrivendo è di una gravità senza precedenti nel senso che avrà ripercussioni di lungo termine e merita di essere raccontata bene nei dettagli.

Quando la bomba è esplosa oltre a decapitare il kamikaze ha ucciso l’uomo che lo stava abbracciando ovvero l’ex-presidente Burhanuddin Rabbani, che guidò l’Afghanistan dopo la caduta di Najibullah (l’ultimo leader filo-sovietico) prima di venir anch’egli cacciato ma quella volta dai talebani.
Rabbani aveva avuto da circa un anno l’incarico di guidare il consiglio per la riconciliazione nazionale alias di occuparsi delle trattative di pace con i talebani. Ed è stato ucciso proprio mentre incontrava una delegazione di ribelli. Un altro segnale di come le infiltrazioni talebane ormai siano sempre più capillari negli apparati di sicurezza e più in generale governativi.

Rabbani aveva le mani sporche di sangue, come tutti quelli che hanno preso parte alla guerra civile e al massacro di un’intera città, Kabul, negli anni ‘90. Mi dispiace dirlo nel giorno della morte di uomo perchè non vorrei essere frainteso: niente può giustificare un omicidio; ma è un elemento importante per capire che non è stato ucciso un eroe nazionale nè qualcuno a cui il popolo afghano era particolarmente vicino. Infatti la sua scelta come capo dell’High Peace Council aveva sollevato non poche polemiche, figlia dell’ennesima alchimia etnico-politica di Karzai, l’equilibrista.
Eppure, nonostante questi elementi, l’omicidio di oggi avrà effetti di lungo periodo perchè rappresenta il timbo a cera lacca sul fatto che le trattative di pace in Afghanistan sono al momento impossibili.

Negli ultimi due anni abbiamo sentito ripetere come un mantra dai vertici militari e politici della coalizioni che bisognava sedersi al tavolo delle trattative con un posizione di forza ecco perchè intanto i marines avanzavano (e morivano) tra i canali d’irrigazione della green zone, la zona coltivata lungo il fiume Helmand. Al momento l’impressione è che la posizione di forza (almeno sul piano psicologico e del rapporto con la popolazione) l’abbiano raggiunta i talebani, con una serie di attacchi nel cuore delle città e una raffica di omicidi mirati alias una campagna di terrore su vasta scala.

Non solo sarà adesso difficile trovare un sostituto con l’autorevolezza (perchè questa non gli mancava) di Rabbani ma soprattutto oggi si è rotta un’usanza quella che consente a due avversari afghani di incontrarsi, magari tra mille ipocrisie ma senza farsi del male, anche se poi dopo i saluti si ricomincia a spararsi addosso.
L’episodio di oggi crea un tale clima sospetti e diffidenze che renderà sempre più difficili incontri trasversali e clandestini come quelli necessari a portare avanti un processo di pace. Un omicidio condotto in maniera audace che contribuisce a diffondere nel Paese quella sensazione di insicurezza, la sfiducia in un governo incapace di difendere sè stesso e i suoi uomini.
Un omicidio che fa pensare per la sua dinamica infida all’uccisione di Massoud, ammazzato da due finti giornalisti con telecamera al tritolo.

La settimana scorsa il leader dell’organizzazione ribelle forse più pericolosa del Paese, ovvero il network Haqqani, si era fatto sentire con la Reuters (cosa molto rara per Sirajuddin, il giovane Haqqani) annunciando che i suoi uomini avrebbero deposto le armi se i talebani si fossero pronunciati a favore della pace.
Chiacchiere per ora, mentre il numero dei militanti che hanno effettivamente deposto le armi a fronte del programma per il reinserimento nella società (incentivi alla rottamazione dei kalashnikov…) è andato ben oltre i suoi obiettivi con 2500 miliziani usciti dalla clandestinità. Purtroppo sono solo soldati semplici delle forze anti-governative per lo più attivi non nelle zone più calde del Paese. Anche il processo guidato sin’ora da Rabbani non era riuscito a scalfire il nocciolo della dirigenza ribelle che ormai sembra aver capito che, forse, combattere consentirà loro di riprendersi tutto il Paese senza dover mediare con nessuno, del resto c’è solo da aspettare fino al 2014 mentre Karzai è un uomo sempre più solo. Il presidente più solo del mondo come racconta questa esclusiva del britannico, The indipendent…

http://tashakor.blog.rai.it/2011/09/21/la-morte-porte-il-turbante/

One shot

Gli unici dettagli sulla dinamica li conosciamo dal portavoce del governatore della provincia di Maidan-Wordak: “i talebani hanno sparato un razzo e hanno abbattuto l’elicottero”. Nella cautela di una circostanza del genere, l’Isaf ammette la presenza di “enemy fire” nell’area, insomma si stava combattendo.
Secondo i primi dettagli emersi, l’elicottero si stava alzando in volo dopo aver recuperato una squadra delle forze speciali, mista americano-afghana, durante un’operazione notturna contro un gruppo di talebani…poi lo schianto.

A morire sono stati 38 uomini, 31 americani e 7 afghani. Il peggior bilancio di sempre per numero di caduti (per le truppe straniere) in un singolo incidente, dal 2001 ad oggi.
Il 2011 si avvia a togliere il primato al 2010 come numero di militari stranieri caduti (sui civili ammazzati siamo già al record).

Maidan-Wardak è una provincia in mano ai talebani, un corridoio verso Kabul, sulla quale gli americani stanno lavorando da ben prima della “surge” (l’aumento delle truppe) voluto da Obama. L’incidente di ieri notte sarebbe potuto capitare in qualsiasi altro momento, un colpo “fortunato” nella macabra contabilità della guerriglia, ma accade proprio ora che l’occidente ha avviato la fase di transizione, il passaggio della responsabilità della sicurezza da forze occidentali a forze afghane. L’operazione che dovrebbe portare nel 2014 al ritiro delle forze straniere. Questo episodio diventa così l’ennesimo evidente segno che la situazione in Afghanistan sta precipitando di giorno in giorno e ai progressi militari nel sud degli americani, la guerriglia risponde portando caos, terrore e morte in giro per l’Afghanistan.

Dell’episodio di ieri notte (la cui notizia è stata diffusa da Karzai attraverso una nota di condoglianze) c’è ancora molto da sapere, sono convinto che verranno fuori in futuro notizie interessanti anche sull’operazione stessa, così tragicamente conclusasi. Resta un dubbio “tecnico” ovvero l’arma usata dai talebani, se si è trattato di un “classico” rpg sovietico non cambia nulla, è stato un “gran” centro (balisticamente parlando), ma resta l’ipotesi che armi più precise e con vocazione “anti-aerea” siano state nelle mani del gruppo, un dato non secondario per gli occidentali che nel controllo dei cieli trovano un elemento di superiorità tecnologico-militare decisivo verso ribelli che meglio conoscono il terreno e sono in numero superiore.

Ma questi sono aspetti che si chiariranno in futuro, per ora resta lo shock dell’America in un mondo mediatico dove lo stillicidio quotidiano di vite – anche se il totale è tristemente lo stesso – fa meno notizia di 38 vittime in un colpo solo.

La donna “del” mullah

La storia è inverosimile ma troppo curiosa per non essere raccontata. Prendete una donna e datele tre colpe gravi: in primo luogo essere donna, essere stata eletta in parlamento in questo regime “democratico”, appartenere all’etnia hazara ovvero gli ultimi tra gli ultimi. Dimenticavo, ovviamente queste sono tre colpe gravi agli occhi di un conservatore radicale dell’etnia pashtun in Afghanistan. Se poi il conservatore radicale è il fondatore del regime dei talebani, queste tre colpe da gravi diventano gravissime.

Eppure questa  donna (che si chiama Homa Sultani) nonostante tutto sarebbe riuscita a stabilire un contatto con il Mullah Omar, persino a riuscire a vedere l’uomo più ricercato dell’Afghanistan ben due volte, una presso Kandahar l’altra vicino Kabul. Homa starebbe mediando per le trattative di pace e il Mullah si fiderebbe di lei tanto da aver firmato una sorta di lettera di intenti. Affermazioni pubbliche come queste che potete leggere qui.
Sarà vero? Magari…

La banda del buco

Affittate una casa a trecento metri di distanza dal carcere di Kandahar. Metteci dentro un nutrito gruppo di fiancheggiatori talebani che per mesi scavino un tunnel, così profondo da passare sotto la trafficata “ring road” e sotto un paio di posti di blocco. Un tunnel che passi sotto il muro altissimo del penitenziario, un muro rinforzato come il resto della struttura dopo l’attacco del 2008 con un autobomba che portò all’evasione di mille talebani ed a giorni di dolorosi attacci contro la città.

Beh! prendete tutto questo e alla fine non avrete un film ma una storia vera: questa. Perchè tutta questa storia è accaduta per davvero. Nella notte tra Pasqua e l’italica pasquetta, il tunnel è arrivato sotto una cella del braccio politico della prigione, è stato sfondato il pavimento di cemento, spostato il tappetto che lo copriva e nel buco si sono calati quasi 500 detenuti, quasi tutti talebani, compresi numerosi capi. Dall’altra parte ad aspettarli c’erano macchine col motore accesso. Solo 26 fuggiaschi sono stati ripresi, altri 2 uccisi in un conflitto a fuoco.
Un fatto gravissimo l’ha definito il presidente Karzai, del resto se in quel buco sono entrate 100 persone all’ora, ci sono volute quasi cinque ore per farli fuggire tutti. Un po’ troppo per non sospettare che abilità o meno dei talib, dentro la prigione ci fossero degli appoggi consistenti alias basisti tra i secondini. O meglio qualcuno più importante dei secondi visto che nei giorni scorsi è stato arrestato il capo della prigione e si è scoperto che i servizi di intelligence sapevano del possibile attacco, che i detenuti talebani avevano il diritto a visite dall’esterno, copie delle chiavi delle celle e telefonini…

Ma il vero problema, oltre all’inaffidabilità delle forze di sicurezza afghane alle quali gli occidentali cominceranno a breve a passare le consegne, è la fuga in sè. La stagione dei combattimenti è cominciata, i ranghi dei talebani erano stati fortemente indeboliti dai raid delle forze speciali, vanificati in una notte. Quei capi e quei soldati talebani sono di nuovo in giro, militari afghani e stranieri se li troveranno presto di fronte sul campo di battaglia nella ostica provincia di Kandahar che tante vite è costato sin’ora provare a riportare ad un minimo di controllo. E’ questo il buco più profonde di tutta questa storia di scavi e di tunnel…

Assalto alla Banca – 1

Ieri un commando di talebani ha dato l’assalto ad un filiale della Kabul Bank a Jalalabad, città chiave nell’est del Paese, lungo la rotta tra la capitale ed il Pakistan. Il commando di kamikaze ha fatto diciotto vittime e una settantina di feriti. La banca è la tesoreria delle forze di sicurezza ed ieri era giorno di paga per poliziotti e soldati. Ma l’attacco di Jalalabad fa il paio con gli ultimi due avvenuti a Kabul e mette in evidenza come i talebani e le forze anti-governative in genere stiano ormai cambiando tattica nel colpire i centri urbani.

A Kabul pochi giorni fa, un attentatore suicida ha provato a colpire il Kabul City Center, un centro commerciale nel quartiere di Shar-e-Now. Un segno della rinascita della capitale quando aprì alla fine del 2006, con la prima scala mobile e il primo bancomat del Paese. Un posto che conoscono tutti a Kabul, in particolare gli occidentali. L’attentatore suicida è stato fermato dalla guardie del centro, quelle che ogni volta che entravi ti perquisivano e ti facevano lasciare telefonini e chincaglieria varia nella vaschetta prima di passare nel metal detector. Un controllo sommario, che negli aeroporti americani definirebbero “profiling” ovvero guardare in faccia chi entra piuttosto che guardare solo allo scanner. Forse per questo sono riusciti subito a fermare il kamikaze, evitando una strage. Sono morte entrambe le guardie, fa sempre impressione quando muore qualcuno, di più quando muore qualcuno che – anche se non personalmente – hai conosciuto, che ti ha sorriso perchè nelle tasche avevi un chilo di metallo vario. Forse è una consolazione (leggi qui) sapere che sono morti da eroi, hanno salvato vite mentre i poliziotti dell’Anp facevano l’ennesima approssimativa figura.

L’altro attacco recente che a Kabul ha praticamente rotto una tregua che durava da sei mesi e che nemmeno le elezioni parlamentari erano riuscite a scalfire, ha toccato un altro luogo popolare tra gli stanieri e gli afghani più ricchi. Un luogo al quale sono legato perchè la prima volta che sono arrivato in quella palazzina nella piazza di Wazir Akbar Khan, era un mezzo rudere che all’ultimo piano ospitava il satellite di un service turco, dove spesso giornalisti italiani hanno bivaccato per giorni.
Un amico che lavorava in quell’approssimativa struttura, tra generatori che saltavano, freddo e macchine divorate dalla polvere, mi parlava sempre della gente che abitava nel palazzo, per lui ricchi commercianti (vendevano tappeti) e dei bambini che giocavano nel cortile. Quella famiglia era riuscita nell’ultimo anno e mezzo ad aprire un supermercato, con le gigantografie a ricoprire la palazzina in stile “Dubai”, modello estetico di riferimento se a Kabul vuoi costruire qualcosa di “moderno” (proprio come al Kabul City Center e la sua facciata ricoperta di vetri a simulare un grattacielo – vetri sostituiti da lastre di plastica dopo un attacco kamikaze di anno fa, che hanno meglio resistito all’attacco di cui scrivevo sopra).
A fine gennaio, l’attentatore suicida è entrato nel supermarket Finest ed ha fatto otto vittime, sterminando anche la famiglia di un professore dell’università di Kabul che era lì per fare spese.

Questi episodi sono ormai troppo simili per dirci che si tratta solo di episodi, anche se l’attacco contro una banca non è una novità, lo è questo determinazione a colpire “soft target”, luoghi in cui si può esercitare del terrorismo puro, obiettivi che non sono nè militari nè politici, obiettivi dove è più facile arrivare e dove si colpisce gente inerme, spingendo ancora di più tante persone a rintanarsi in case protette da filo spinato e guardie armate, diffondendo la paura con l’impressione che si può essere colpiti in ogni luogo e momento.
Mi chiedo se si tratti solo di un cambio di strategia “pensato” oppure di una necessità perchè gli obiettivi “classici” di attacchi del genere sono sempre più protetti (vedi convogli militari e basi varie).
Questa seconda interpretazione sarebbe però smentita da episodi di questa ondata recente di attacchi a Kabul, come quello contro un pulmino di dipendenti dell’NDS, i servizi segreti afghani, il 12 gennaio scorso, e contro un bus di militari dell’Ana a dicembre. Più probabilmente, se nell’ultimo anno e mezzo le truppe occidentali hanno provato a lavorare “sulla popolazione”, ovvero sulle aree più popolate per garantirne la sicurezza, questa potrebbe essere la chiara risposta dei ribelli proprio per sgretolare ogni sensazione che esistono in Afghanistan luoghi sicuri.

“Noi, le altre”

Storie di donne da Kabul, donne altre rispetto allo stereotipo del burqa

Clicca qui per vederlo on line sul sito della Rai

Latifa, l’unica pilotessa dell’aviazione afghana; Robinà, la prima atleta a rappresentare l’Afghanistan alle olimpiadi nonostante le minacce che la inseguono ancora oggi che corre per un seggio al parlamento; le studentesse del nuovo conservatorio di Kabul che ogni giorno sfidano lo “stigma” che grava sulla musica, attività considerata sconveniente nel Paese dopo i divieti degli anni buii dei talebani. Con loro, le insegnanti venute dall’estero per ricostruire il patrimonio musicale afghano, distrutto da trent’anni di guerra.

Di queste donne, diverse dallo stereotipo afghano del burqa, racconta il reportage di Nico Piro per la fotografia di Valter Padovani “Kabul: Noi, le altre” in onda sabato sera alle 0.45 su RaiTre, numero monografico di Agenda del Mondo, il settimanale di esteri del Tg3 a cura di Roberto Balducci.

Ma tra “le altre” ci sono anche Rahianà, bambina di strada che raccoglie carta-straccia per strada ma sogna di fare il medico, Dihà e Gulandom che hanno trovato la forza di fuggire alle violenze delle famiglie, dai mariti, dei padri, perchè vogliono una vita diversa.

Storie che si stagliano sullo sfondo di una possibile trattativa tra talebani e governo Karzai per chiudere una guerra che nessuno riesce a vincere, trattativa nella quale proprio i diritti delle donne rischiano di essere una delle partite di scambio.

“Kabul: Noi, le altre” in onda sabato sera alle 0.45 su RaiTre

Prendi i soldi e scappa

Chissa’ se come Toto’ nel mitico film “Tototruffa 62” il finto capo talebano che ha trattato per settimane con il governo Karzai e l’Isaf sia riuscito a vendere agli occidenttali piuttosto che la fontana di Trevi, l’arco di Bost, il millenario monumento che e’ il simbolo stesso del potere e dello splendore della provincia di Lashkar Gah, quella che e’ oggi territorio della guerriglia.

Non sono riuscito a risparmiarmi questa battuta. Ma la vicenda e’ senza dubbio esilarante esattamente quanto e’ tragica. La storia rivelata ieri dal New York Times racconta di questo finto capo talebano capace di accreditarsi presso l’Isaf come un emissario della scura di Quetta, l’alto comando del movimento talib. Caricato su un aereo della Nato, scortato in convoglio dalle truppe occidentali, riverito e preso sul serio nel corso di almeno tre incontri, persino pagato prima di scomparire da qualche parte in Pakistan.

Se non fosse stato per l’ufficiale dell’esercito afghano che, in stile “il re e’ nudo”, si e’ candidamente chiesto se l’uomo che aveva di fronte era lo stesso che aveva conosciuto molti anni prima, forse questa vicenda sarebbe durata persino più’ a lungo. Ma questa vicenda e’ esemplificativa di quanto grave sia la situazione afghana.

Della guerriglia, gli occidentali (diciamo per capirci l’intelligence militare) sa pochissimo, praticamente nulla. Il fatto che non riesca a confermare che qualcuno che si presenti come capo-talebano lo sia davvero, non e’ solo un goffo errore ma la riprova di quanto carenti siano le fonti sul “nemico”. Ci vuole poco a capire che a questo “impostore” si riferivano gli annunci di poche settimane fa (venuti anche dal comandante in capo, il generale Petraeus), su leader talebani autorizzati per la prima volta dal vertice della guerriglia alle trattative.

Ma la farsa diventa tragedia quanto pensiamo che tutta la strategia sul ritiro occidentale dal Paese, il calendario di consegne alle forze di sicurezza, l’exit-strategy e quant’altro che hanno riempito i giornali e sono state “vendute” all’opinione pubblica internazionale nell’ultimo anno e mezzo ruotino proprio intorno alla praticabilità’ delle trattative con i talebani. Ed e’ facile concludere che su queste informazioni così’ carenti e (anche) sulle mosse di uno scaltro truffatore siano state forgiate le strategie che mettono in gioco il futuro dei governi più’ potenti della terra, lo spostamento di migliaia di uomini, il concetto stesso di sicurezza e investimenti per migliaia di milioni di dollari. Insomma c’e’ poco da ridere.