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Morto Bin Laden, la guerra continua

Ormai avevano smesso di cercarlo sulle montagne al confine con il Pakistan, ormai da almeno tre anni la missione delle migliaia di soldati americani in Afghanistan era diventata fermare i ribelli anti-governativi, identificati dai media come talebani solo per comodità verbale ma in realtà un misto di bande locali, truppe di signori della guerra e appunto uomini degli studenti coranici. L’attenzione dell’intelligence era rivolta ormai oltre confine in Pakistan appunto dove gli aerei senza pilota hanno bombardato mai come nel 2010 e nel 2011.

Eppure la notizia dell’uccisione di Bin Laden è un gran sollievo per l’Afghanistan. “Abbiamo sempre detto per anni e ogni giorno che la guerra al terrorismo non va condotta nei villaggi afghani, non nelle case degli afghani poveri e oppressi”, ha dichiarato stamane il presidente Karzai che da anni, come tutti gli afghani, punta il dito contro il Pakistan, dove non solo Bin Laden aveva la sua base, ma dove la guerriglia afghana prepara e rifornisce il suo conflitto contando sulla compiacenza del governo di Islamabad.

Nonostante Karzai abbia detto ai talebani di considerare questa morte come un monito, l’uccisione di Bin Laden non apre spiragli di pace, la presenza di Al Qaeda nel Paese era ormai ridotta ai minimi termini: un centinaio di uomini aveva spiegato il capo della Cia qualche tempo fa. Addirittura l’uccisione, pochi giorni fa, del leader della filiale afghana di Al Qaeda era passata sotto silenzio, una notizia minore per il suo impatto sulla guerra.
Guerra che inevitabilmente continua.

Sabbia rossa

Operazione Sabbia Rossa ©Isaf 2011

E’ arrivata la primavera ma in Afghanistan non è solo una questione climatica, in luoghi come Bala Morghab (luoghi resi inaccessibili dalla neve in inverno) è l’inizio della stagione dei combattimenti. Puntuale è arrivata l’operazione Red Sand (sabbia rossa) condotta da uomini del 10mo cavalleria dello US Army, con il supporto dell’aviazione americana e degli italiani con compiti di osservazione, ovvero supporto agli scouts del Red Platoon nell’individuare i movimenti nemici. L’operazione, come raccontano le fotografie, è stata “pesante” soprattutto per quanto riguarda il supporto aereo, sono stati sganciate bombe GBU-38 (da 250 chili) e aerei B-1, bombardieri d’alta quota. Ed è consistita nell’uscire dalla cosiddetta bolla di sicurezza, l’area ritenuta sotto controllo da parte delle truppe occidentali, intorno alla Fob Columbus, fino a raggiungere una base talebana dove si producevano ordigni ied – racconta la nota dell’ufficio stampa Isaf. Diversi guerriglieri sono stati uccisi.

Al di là di come si sia svolta l’operazione (nella remota provincia di Badghis mancano fonti indipendenti), è evidente che ci

bombardamento sul bunker talebano ©isaf 2011
bombardamento sul bunker talebano ©isaf 2011

dice una cosa non secondaria, ovvero che (bolla o non bolla) la situazione nella valle del fiume Morghab resta ancora fuori controllo a quasi tre anni dall’arrivo della prima presenza stabile di militari occidentali. Bala Morghab è il fronte italiano più caldo, o almeno caldo come quello nell’ex-opbox Tripoli, a sud, sull’altro versante dell’area di operazioni Rc-West, a comando italiano. Nelle prossime settimane anche nella zona si completerà il dispiegamento della Folgore e vedremo altre operazioni del genere.


Americastan

Pizza Hut Kabul
Pizza Hut Kabul

Questa notizia è un assist a porta vuota ma vorrei evitare di scadere nella facile ironia. A Camp Phoenix, una base americana nella città di Kabul, nei giorni scorsi ha riaperto Pizza Hut come fa sapere una nota stampa della Task Force Rushmore, corredata da questo breve servizio in video con tanto di taglio del nastro.

Nel suo spirito da uomo delle forze speciali e nel suo tentativo di accorciare le distanze tra i militari occidentali e la popolazione locale, il generale McChrystal appena arrivato alla base ISAF Hq aveva bandito la serata di salsa e balli latino-americani (mi pare fosse giovedì sera) per poi estendere il bando a tutte le strutture di fast-food nella basi americane sparse nel paese; amenità varie troppo “westernized”.
Non vi meravigliate, è una prassi per gli americani avere, almeno nelle basi più grandi, i “brand” del cibo (e dello shopping) di casa. Nel mio girovagare per gli insediamenti americani sono passato da avamposti dove la porta delle docce era stata smitragliata e dove persino far arrivare l’acqua in bottiglia era un problema, a basi dove si poteva trovare di tutto. Non solo nella gigantesca Bagram (da negozi dell’Harley Davidson a Burger King) ma anche a Jalalabad dove il container di Pizza Hut era chiuso (problemi tecnici) ma funzionava una caffetteria di una catena concorrente di Starbucks, il cui nome avrò scritto in uno dei miei blocchetti d’appunti che ora non riesco a trovare.

Non penso che McChrystal avesse torto nella sua scelta, importante anche per il rapporto con gli afghani che nelle basi lavorano. Allo stesso tempo capisco anche le esigenze (qualcuno, ingenerosamente, le chiamerà vizi di “spoiled americans”) di chi vive per un anno lontano da casa e ha bisogno di un morso di patria, che – a noi italiani ci farà magari ridere – significa un hamburger o una pizza lievitata con chissà quali polverine.

Pizza Kabuli
Pizza Kabuli

Il problema è che in quel container ci sono tutte le contraddizioni delle missione occidentale: i suoi costi, la sua mastodontica logistica, la distanza culturale dal contesto in cui la missione si svolge, la distanza da tutto ciò che è là fuori “outside the wire” ovvero al di là della recinzione. Nella capitale, il fast food si moltiplica, dalla pizzeria Everest al KFC (che non è il Kentucky Fried Chicken ma il Kabul Fried Chicken) ma ormai sarebbe impossibile per un militare in divisa uscire dalla sua base ed entrare in un qualsiasi negozio senza rischiare di finire risucchiato nel nulla; troppi rischi per un pezzo di pizza.

La guerra in-giusta

Non sono tra quelli che ironizzano sull’assegnazione di un premio Nobel per la Pace ad un presidente di guerra qual è ormai a tutti gli effetti Obama, ma sono rimasto molto perplesso dalla scelta del presidente americano di avventurarsi – nel suo discorso alla cerimonia di consegna del premio – nella teorizzazione di una guerra giusta. Perplesso, non solo perchè gli è mancata l’originalità.
Non ho nè lo spazio nè le competenze per affrontare una dissertazione sulla guerra giusta nella storia dell’umanità, per cui mi limito a  mettere in evidenza che nei secoli si fatica a trovare una guerra non giusta o definita “ingiusta” da chi l’ha vinta o l’ha iniziata. (per una rapida puntata su questo argomento vedi questo blog del NY Times)
Capisco che stretto tra le contraddizioni del suo mandato, il Presidente non aveva forse alternative per uscire dall’imbarazzo di ritirare il premio con le mani ancora sporche dell’inchiostro servito ad autorizzare pochi giorni prima un nuovo aumento delle truppe in Afghanistan. Nonostante ciò rispolverare il concetto tanto caro al suo predecessore, il presidente Bush, è stato secondo me un errore, soprattutto se si considera ch,e parlandone, Obama si riferiva specificamente alla guerra in Afghanistan. (Qui il testo integrale del discorso).

Obama ha circoscritto il campo della guerra “giusta” al conflitto con questi requisiti: ultima risorsa o conflitto di auto-difesa, uso proporzionale della forza e , quando possibile, conflitto capace di risparmiare i civili. Sono obiettivamente paletti molto stretti ma io personalmente avrei preferito che si partisse dall’ammissione che ogni guerra è strutturalmente ingiusta. Al massimo ci possono essere guerre giustificate o giustificabili; altre invece sono assurde, ovvero giustificabili solo in privato (come quella in Iraq, fatta e/o per il petrolio e per il desiderio di Bush figlio di rivalsa sul padre) mentre in pubblico vengono motivate con precarie bugie (le armi di distruzione di massa, le hanno trovate poi?) o grida che coprono la ragione e le ragioni.

La guerra è strutturalmente ingiusta perchè è inevitabile che anche solo una famiglia venga macellata da un proiettile di mortaio caduto nel posto sbagliato o che un bambino venga uccisa perchè l’auto di suo padre si è avvicinata troppo ad un convoglio militare o che anche un solo soldato vada a morire per pagarsi il mutuo di casa o che un disperato si faccia esplodere per lasciare mille dollari ai parenti. E la guerra in Afghanistan con il suo inaccettabile tributo di civili, con la sua inestricabile spirale violenta da manuale della guerriglia, con la morte che arriva inaspettata in posti che non sono un campo di battaglia…beh, il conflitto in Afghanistan è un monumento alla naturale ingiustizia della guerra che non è mai come ce l’immaginiamo, lo scontro epico tra gruppi di guerrieri, ma è un casino nel quale spesso non si riesce a vedere la porta d’uscita.

Obama ha ammesso l’inevitabilità delle guerre, almeno in attesa della prossima kennedyana evoluzione istituzionale e sociale.
Sarà pure amaro e cinico realismo, ma come dargli torto? Ma se è così – ed è così – questa prova di realismo avrebbe meritato il bis ammettendo che “sì le guerre sono inevitabili”, che “sì cerchiamo di fare solo quelle che proprio non possiamo evitare” ma anche che la guerra è un “organizzazione” profondamente ingiusta.
Solo questa ammissione – a mio avviso – può mettere un politico come Obama che sta gestendo una guerra non avviata da lui e che, probabilmente, non poteva non continuare nei termini appena decisi, in condizione di farla durare il meno possibile. E’ questo l’unico risultato giusto di ogni guerra ingiusta, farla durare il meno possibile.

Per il resto, entrando nel merito del premio, francamente non penso che quella del comitato di Stoccolma sia stata una stravaganza di un gruppo di europei “liberal-progressisti”, per usare una “garbata” sintesi in stile “FoxNews” (dove tutti gli aggettivi sopra usati, sono considerati offese) nè mi iscrivo tra le fila dei progressisti delusi dal presidente americano, che lo sono per lo più perchè non hanno ascoltato o hanno fatto finta di non capire i discorsi elettorali di Obama che della guerra in Afghanistan aveva fatto uno dei punti chiave del suo programma elettorale non meno della riforma sanitaria.

Obama ha vinto sia un premio Nobel sulla fiducia (ovvero rivolta al futuro della sua presidenza) che alla sfiducia, quella generata dall’amministrazione Bush che ha isolato l’America, scatenato l’assurda guerra in Iraq e spaventato talmente il mondo che vedere una persona alla Casa Bianca considerare il dialogo come prima opzione per affrontare una crisi diventa un fatto da record, da premiare appunto. Che poi il premio arrivi pochi giorni dopo l’annuncio del premiato di inviare altre 30mila unità a combattere una guerra che è un gran casino, beh mi sembra faccia parte delle contraddizioni di un mondo dove è sempre più difficile definire con nettezza i valori, i ruoli e gli schieramenti.

Forse (da qualche parte lassù) sarà felice Alfred Nobel, inventore della dinamite, il cui cognome viene quasi sempre citato per questo premio, ovvero per il suo contributo alla pace nel mondo.

Le platee del presidente

A quante platee stava parlando Obama quando ha annunciato l’aumento delle truppe in Afghanistan? Oltre ovviamente a quella che gli stava di fronte, l’elitè intellettuale delle forze armate americane, i cadetti dell’Accademia di West Point? È una domanda forse utile a capire quali fattori gravano su e condizioneranno l’impegno americano nel Paese.

Andiamo per ordine di prossimità. Obama per la prima volta (se la memoria non mi tradisce) ha parlato di una questione di primo piano in mezzo ai militari, che invece erano lo sfondo preferito da George W. (persino per parlare dell’uragano Katrina).
Obama ha parlato “ai” militari non li ha usati solo come scenografia, ha fatto sapere loro che gli sta dando le risorse idonee per combattere quella guerra, come aveva chiesto il gen. McChrystal (che si è subito detto soddisfatto e stamane è andato a visitare i punti caldi del fronte afghano, saltando purtroppo Herat per via del maltempo).

Obama ha parlato agli americani sempre più scettici su questa guerra; lo ha fatto ripartendo dall’11 settembre e dagli errori dell’Iraq, quantomeno per non perdere altri punti nei sondaggi.

Obama ha parlato ai Democratici, tanti dei quali non voteranno il rifinanziamento della missione, e ai Repubblicani, dei cui voti di conseguenza avrà bisogno in Parlamento.

Obama ha parlato ad Hamid Karzai e a Michael Moore (il regista che tanto l’ha supportato in campagna elettorale e che invece ora gli scrive una pesante lettera aperta). Ad entrambi ha fatto sapere che c’è già una data per il ritiro. Ovvero (a Karzai) ha detto qualcosa come: o ti sbrighi a fare bene il tuo lavoro o poi ti dovrai difendere con i tuoi corrotti alleati e funzionari che non sono all’altezza di difenderti. Mentre (a Moore) ha detto di stare tranquillo perchè si tratta solo di finire un lavoro iniziato male da Bush e senza impegni all’infinito.

Proprio George W. non aveva voluto mai fissare una data per il ritiro durante la campagna irachena, perchè lo considerava un errore tattico, un favore fatto al nemico (critiche che risuonano anche in questa occasione).

Obama ha parlato agli alleati europei, che poi sono sostanzialmente tre: italia, Germania e Francia. Tre paesi chiamati quantomeno ad avvicinarsi ad i numeri britannici, paese che tra crisi economicopolitica e forze armate sottoequipaggiate difficilmente potrà fare più di quello che sta già facendo in Afghanistan. La Spagna la escludo perchè sulla missione ha gli stessi imbarazzi dell’Italia di Prodi e quindi sta con un piede dentro e l’altro fuori. Sui numeri dei singoli paesi (per un incremento totale di almeno 5mila unità secondo Rasmussen) è troppo presto per sbilanciarsi vista la situazione fluida. Obama però da sempre dice che quella non è solo una guerra americana e agli europei ha fatto capire che se il suo paese è pronto a giocarsi tutti nella “tomba degli imperi”, qualcosa dovranno fare anche gli alleati, altrimenti Obama cederà proprio sul fronte interno e a quel punto dalla Nato partirà un effetto go-down senza precedenti.

Per quanto non possa esistere una guerra giusta, bisogna ricordare che il modello di economy of force di Rumsfeld in Iraq è stato un fallimento (chiedere al saccheggiato museo di Bagdad, mentre non c’erano americani a sufficienza nemmeno per dirigere il traffico nella capitale).
Obama inoltre nell’assumersi in proprio le responsabilità di quella che è ormai la sua guerra è stato coorente con gli impegni elettorali, inoltre ha fatto quello che i democratici chiedevano a Bush (una deadline per il conflitto, il 2011) e soprattutto ha preso un impegno a scadenza pochi mesi prima della campagna per la sua rielezione!

Come tutti questi fattori (i militari, l’opinione pubblica, i voti in parlamento, gli opinion-maker e i partner afghani ed europei) poi condizioneranno in futuro la strategia afghana delineata ieri, beh questo è davvero impossibile dirlo ora ma, per le sorprese lo spazio sembra tanto.

Nuristan, una battaglia persa…di nuovo

Kunar, postazione americana di mortai. Dietro quelle montagna, il Nuristan np©09
Kunar, postazione americana di mortai. Dietro quelle montagne il Nuristan. np©09

Otto militari americani uccisi, due avamposti finiti sotto simultaneo attacco. E’ un film purtroppo già visto, l’episodio avvenuto ieri in Nuristan e le cui proporzioni, pur nei primi racconti, appaiono devastanti.

Un film già visto perchè il 13 luglio del 2008, gli uomini della compagnia chosen del secondo battaglione “The Rock” della 173ma brigata aviotrasportata si erano trovati protagonisti, loro malgrado, di una battaglia drammatica e dai tratti “epici”, di quelle che fanno la storia dell’esercito americano. Pochi mesi prima ero stato embed (con il collega Gianfranco Botta) nella loro area di compotenza (Task Force Bayonet) e quindi quell’episodio mi colpì particolarmente anche perchè conoscevo l’unità coinvolta e il complesso terreno sul quale si era svolta la battaglia, la montuosa area orientale del Paese e specificamente la provincia del Nuristan. Una battaglia durata una giornata intera con un avamposto americano (aperto solo pochi giorni prima) finito sotto attacco, quella di Wanat. Verrà chiuso poco dopo la fine degli scontri, conclusisi con un bilancio di 9 militari caduti, 27 feriti e racconti di uomini che hanno sparato fino all’ultima cartuccia, faccia a faccia con duecento talebani, nell’attesa di un supporto aereo arrivato tardi per vari motivi a cominciare dalla vicinanza con le case del villaggio; il tutto sullo sfondo di un comportamento poco chiaro della corrotta e debole polizia afghana e con l’aiuto della popolazione locale. La battaglia, una volta che Stars and Stripes ne diffuse i dettagli, venne subito definita la “black hawk down” dell’Afghanistan e sono certo che presto la vedremo sul grande schermo (segnalo la sintesi del Washington Post da leggere qui). I sopravvissuti sono stati in buona parte decorati, le vittime facevano tutte base a Vicenza.

Nelle ultime ore si è diffusa la notizia di una battaglia analoga, di cui ancora si sa molto poco. Due gli avamposti (probabilmente non basi operative avanzate ma le ben più piccole “firebase”) finiti sotto attacco nella stessa area al confine con il Pakistan, quella della provincia del Nuristan. In quell’area opera unità della 4rta Divisione di fanteria, con cui sono stato embed poche settimane fa.

Tredici le vittime, otto militari americani e due uomini dell’Anp, la polizia afghana. Ci vorrà almeno qualche giorno per capirne di più ma pare che l’attacco sia stato sferrato, complice la foschia della prima mattina di sabato, da milizie tribali guidate dagli uomini di Hekmatiar. L’attacco si è sostanzialmente concluso con l’intervento aereo, fonti americane riferiscono che contro i ribelli è stato letteralmente lanciato, sganciato, tutto il possibile. Del resto da quelle parti si applica una regola base dei combattimenti, quella dell’elevazione di quota: una volta che spari dall’alto hai una posizione di vantaggio difficilmente colmabile, e i guerriglieri che conoscono benissimo il terreno sanno come sfruttarlo soprattutto di fronte a basi che non possono non essere circondate dalle montagne e che, quindi, rispetto alle posizioni degli insorti si trovano in basso.
Per ora segnalo le prime ricostruzioni dal New York Times e quella ben più dettagliata dal Washington Post (richiede la registrazione, gratuita).

Chiusura della piccole basi. I due avamposti erano destinati ad essere chiusi perchè ormai l’Isaf, con la nuova dottrina McChrystal, ha deciso di concentrarsi sulle aree densamente popolate, ritirandosi (viste anche le risorse limitate) da quelle aree remote dove fanno base i guerriglieri ma che sono aree difficilissime. Il governatore del Nuristan, intanto, continua a parlare del pericolo, in caso di ritiro degli americani, di caduta della provincia nelle mani talebane e di guerriglieri in genere. Lo stesso tipo di allarme che all’inizio dell’estate aveva fatto scattare la complessa e faticosa offensiva di Barge Matal.

Museo di Kabul, una delle misteriose sculture nuristane  np©08
Museo di Kabul, una delle misteriose sculture nuristane np©08

Il Nuristan è una battaglia persa. Un terreno difficilissimo. Si tratta della regione più isolata dell’intero Afghanistan, tanto isolato che la leggenda (mai provata scientificamente ma apparentemente confermata dai “volti” degli abitanti locali) vuole che lì vivano gli “eredi” di Alessandro Magno, “eredi” ovvero dei soldati macedoni e comunque di quelli occidentali di passaggio in quelle valli nella loro marcia verso l’India. Un patrimonio genetico conservatosi fino ad oggi proprio per via dell’inaccessibilità di quelle valli. Inoltre il Nuristan, che significa letteralmente la terra della luce, fino ad un paio di secoli fa veniva definito il Kafiristan, ovvero la terra degli infedeli, i suoi abitanti vennero convertiti da una sorta di animismo all’islam grazie alla lama della scimitarra. Dal punto di vista orografico è una zona montuosa (vedi il bellissimo libro di viaggi degli anni ’50, “a short walk in the Hindu Kush”) fatta sostanzialmente da tre “valli”, da dove è possibile entrare solo dal versante inferiore e dove è impossibile spostarsi lungo l’asse est-ovest. In generale, è difficilissimo spostarsi e mantenere una presenza costante perchè è davvero complicato far arrivare i rifornimenti. Di recente, ho sentito racconti di soldati impegnati nell’offensiva di Barge Matal che, lì sù, erano rimasti persino senz’acqua.