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Tre tazze vuote

Sono entrambi alpinisti-scrittori ed entrambi hanno qualcosa a che fare con l’Afghanistan. Greg Mortensen ci ha creato una grande organizzazione umanitaria, raccontando la sua avventura in “Tre tazze di tè” (libro che continua a ballare da troppo tempo sulla mia scrivania ma io non riesco nemmeno ad aprirlo al contrario di milioni di persone nel mondo). Jon Krakauer in Afghanistan, invece, c’è stato in Afghanistan per ricostruire la storia di Pat Tillman nel suo libro “dove gli uomini diventano eroi” (qui la mia recensione  e post-recensione). Solo che adesso Krakauer, da ex-ammiratore-donatore di Mortensen, si è messo a ricostruire la storia raccontata nel libro, a dare la caccia alle sue scuole e ha scoperto che alcune non esistono, che altre sono vuote mentre i fondi dell’organizzazioni non sono sempre ben spesi, demolendo così un modello di “counter-insurgency” che aveva ispirato anche l’esercito americano e che era, più in generale, diventato negli Stati Uniti “il” modello di solidarietà per l’Afghanistan.

Il saggio di Krakauer costa 2,99 dollari e potete comprarlo qui. Krakauer è la principale fonte del reportage di “60 minutes” l’approfondimento giornalistico settimanale della CBS (in Italia un programma del genere non potrebbe mai esistere, troppi fatti e poche opinioni ndr). Ecco il link alla trascrizione della puntata, durante la quale Krakauer mette la vicenda così: “è una bella storia ma è una bugia”.
La fondazione “tre tazze di tè” è un colosso da 25 milioni di dollari l’anno ma soprattutto Mortensen è diventato un’icona attraverso il suo libro, quindi le denunce di Karakuer e della Cbs stanno facendo molto rumore in America, molto più di quanto possiamo realizzare qui in Italia. La sintesi migliore di come si sentano molte persone la fa Kristof l’editorialista del New York Times quando scrive: Greg’s books may or may not have been fictionalized, but there’s nothing imaginary about the way some of his American donors and Afghan villagers were able to put aside their differences and prejudices and cooperate to build schools — and a better world.

Insomma che Mortensen abbia gonfiato la sua storia e mal gestito la sua organizzazione non è cosa da poco, ma l’elemento che mi fa più tristezza in questa vicenda è un altro ovvero che se la pace non si può nemmeno costruire “una scuola alla volta” in Afghanistan, beh…non so davvero cos’altro ci resti da fare.

Da leggere

Pat Tillman - "Dove gli uomini diventano eroi" quarta di copertina
Pat Tillman - "Dove gli uomini diventano eroi" quarta di copertina

E’ stata una passeggiata per quanto è bello. In un paio di giorni sono riuscito ad arrivare alla fine di “Dove gli uomini diventano eroi”, il libro appena uscito in Italia e dedicato alla storia di Pat Tillman (vedi il post precedente) e non posso non definirlo: un libro da leggere – nonostante una traduzione non sempre all’altezza (a proposito, gli azeri vivono in Azerbaigian, gli hazara sono una minoranza etnica afghana…) e un titolo che fa pensare a tutt’altro che a una storia con tante sfumature come questa – ne ho avuto conferma quando un mio collega ha trovato il libro sulla mia scrivania e sbalordito ha pensato che stessi leggendo chissà quale testo fascio-militarista.
Ed è questo proprio uno dei punti dell’intera vicenda, ma andiamo con ordine.

Il libro merita di essere letto perchè ricostruisce le vicende di Pat Tillman, per la prima volta non solo in chiave biografica (come aveva fatto il libro scritto dalla madre di Pat) ma anche raccontandone in dettaglio l’episodio della morte per fuoco amico nella provincia di Khost, Afghanistan orientale, facendo chiarezza anche grazie ad un lavoro di “scavo” tra le migliaia di pagine delle diverse commissioni militari d’inchiesta, il cui lavoro sembra essere stato piuttosto che cercare la verità quello di seppellirla in un voluminoso faldone. Ma al di là del valore “storico” del libro che tanto ci dice sulle guerre al terrore dell’amministrazione Bush, mi ha colpito la sua capacità di raccontare una figura complessa come quella di Pat che noi europei a tutt’oggi facciamo fatica a capire e che è stata inizialmente snobbata nella stessa America, incendiata e divisa dalla sua guerra più sbagliata di sempre, quella in Iraq.
Leggendolo ho avuto conferma che continuiamo a guardare all’America secondo chiavi di lettura come destra-sinistra, militarismo-antimilitarismo, guerra-pace e così via che sono spesso totalmente inadeguate a capire certi fenomeni. Il libro di Jon Krakauer racconta di uomo che è andato in guerra pur essendo “di sinistra”, anti-Bush e sicuramente “antimilitarista” volendo utilizzare quelle categorie (gli estratti dei diari di Pat, pubblicati per la prima volta in questo libro, ce ne danno la conferma); andato in guerra soprattutto perchè la sua coscienza non lo lasciava in pace a vivere la vita agiata di un campione di football mentre altri americani mangiavano la polvere a migliaia di chilometri di distanza, rischiando di morire. La storia di Pat ci racconta del piacere della sfida (“l’odissea di Pat Tillman” è il sottotitolo all’edizione americana del libro che meglio rende tutta questa vicenda) del desiderio di mettersi alla prova di fronte ad imprese impossibili come giocare nella Nfl nonostante un fisico non gigantesco (sotto-standard) o, appunto, entrare a far parte dell’elite delle forze speciali.

Nonostante Pat non sia stato un campione forzuto e senza cervello che, da neo-nazionalista, davanti alle telecamere di FoxNews imbraccia il fucile e va in guerra, purtroppo la sua è una figura tanto complessa e sulla quale tanto ha speculato l’amministrazione Bush, che non ha sin’ora ricevuto la giusta attenzione, men che mai in Europa o in Italia che invece si è innamorata di storie ben più lineari e “spendibili” sull’altare dell’anti-americanismo come quella della «peace mom» Cindy Sheehan (tra l’altro, ormai dimenticata, oggi che attacca Obama).
Per porre rimedio a questa ingiustizia adesso c’è questo libro, nonostante il titolo che, in Italia, lo indirizzerà esattamente a chi non dovrebbe leggerlo e viceversa. Presto a chiudere il conto con il grande pubblico ci sarà un film – ci scommetto – e allora di Pat Tillman si tornerà a parlare magari in tempi più maturi per capire certe complessità…

Dove gli uomini diventano eroi

Dove gli uomini diventano eroi

Con una traduzione del titolo che non rende bene la complessità della storia trattata, è uscito ieri in Italia “Dove gli uomini diventano eroi” (“Where men win glory”) il libro su Pat Tillman scritto da Jon Krauker (Corbaccio – 459pp – 18,60 euro ). Sia il titolo originale che (in particolare) la sua traduzione mi hanno lasciato perplesso perchè in Afghanistan non si diventa solo eroi ma anche assassini, imbroglioni, propagandisti a spese di cadaveri ancora caldi proprio come accaduto ai protagonisti della storia di Pat.
Jon Krakauer è l’autore dello struggente “Into the Wild” (“nelle terre estreme”) da cui l’omonimo film diretto da Sean Penn. Oggi la Repubblica ha dedicato (meritoriamente) un’intera pagina a questo suo nuovo libro che racconta una storia che merita di essere conosciuta e che, di sicuro, finirà sul grande schermo. L’intervista a Krakauer letta oggi su la Repubblica, per la verità, mi ha un po’ deluso perchè mi ha dato l’impressione di un certo “distacco” dall’Afghanistan dell’autore – Un distacco che mi ha sorpeso perchè Krakauer è un alpinista e durante le sue ricerche ha passato alcuni mesi in Afghanistan, ma è come se – ripeto – non fosse scoccata la scintilla, ho paura che questo aspetto possa averne condizionato il lavoro ma saprò dirlo solo quando avrò letto per bene il libro.
La riservata famiglia di Tillman ha aperto l’archivio di Pat a Krakauer perchè nel suo zaino, restituito ai parenti con gli effetti personali c’era proprio un libro di questo autore.

Pat Tillman
Pat Tillman

Il libro l’ho comprato solo poche ore fa (e tra l’altro mi ha fatto piacere trovarlo sugli scaffali più in vista alla Mondadori di piazza Cola di Rienzo – nel centro di Roma) non ho avuto sin’ora che l’occasione di sfogliarlo ma mi sembra che contenga tutta la profondità del personaggio Tillman.
Pat era un campione con contratto milionario, astro nascente della Nfl, la National Football Legue negli Stati Uniti. Gigante buono, scalatore di torri dell’illuminazione degli stadi, lontano dai capricci delle star sportive con lamborghini dai colori pastello (girava in un pick up scassato) e abbigliamento hip-hop. Tillman dopo l’11 settembre lascia il successo e si arruola nell’esercito americano per diventare un soldato delle forze speciali, morirà con il brevetto da Ranger (“we lead the way”) sul braccio nell’est dell’Afghanistan o meglio in quel gran casino chiamato provincia di Khost.
Morto da eroe – farà credere l’amministrazione Bush – mentre gli americani perdevano la prima battaglia di Falluja e la Casa Bianca aveva bisogno di un eroe per distrarre l’attenzione dal caos iracheno. In realtà si scoprirà, poi, che Pat è stato ucciso da fuoco amico e in circostanze ancora misteriose che coinvolgono anche l’attuale capo della missione militare in Afghanistan, il generale McChrystal, all’epoca capo delle forze speciali.
Tillman è stato un eroe-suo-malgrado, come solo i californiani riesco ad esserlo con la loro “ingenuità” nel senso alto del termine e quella vena hippy, naif, che non ti aspetteresti mai in qualcuno che corre i cento metri in dodici secondi, pesa oltre cento chili e colpisce con una testata qualcun’altro che magari per fare cento metri, di secondi ce ne mette dieci. Kraukauer nell’intervista (che purtroppo non è stata pubblicata sul web) la definisce la “parte femminile” di Tillman. Aggiungo io – il suo è un personaggio incredibile, capace di unire umiltà e a successo, patriottismo e divisa senza mai cadere in quella retorica alla John Wayne che (scherzi del maledetto destino) hanno cucito addosso al suo cadavere.

Nota personale: sarà la passione per il football americano, sarà che la storia di Tillman mi ha sempre colpito anche quando nessuno ne parlava, ma a lui ho dedicato il primo post di questo blog e non è stato di certo un caso.

Da rivedere: una puntata de “La Storia Siamo Noi” dedicata al Caso Tillman

Un commando al comando

“Fresh eyes”, una nuova visione, la formula è la stessa usata per la sostituzione di Ronald Rumsfeld con Robert Gates, questa volta il riconfermato Gates la usa per mandare a casa il Generale McKiernan, capo di Isaf e delle forze americane in Afghanistan (che operano anche sotto le insegne di una sorta di “coalizione” alle dirette dipendenze di Washington). La mossa radicale arriva dopo la strage di Farah che ( nonostante i militari non vogliano scendere nel dettaglio del bilancio delle vittime) verrà ricordata come la peggior strage di vittime innocenti della cacciata dei talebani e che non poco imbarazzo ha creato a Washington. Ma è probabile che si stata decisa ben prima, il generale Petraeus pare non gradisse l’approccio di McKiernan alla nuova strategia americana che pure si basava su quello che lo stesso McKiernan aveva chiesto, ovvero nuove truppe. Al riguardo il Washington Post riferisce indiscrezioni sul malcontento creato dal troppo timido esperimento delle milizie tribali nella provincia di Wardak.
C’è da dire che McKiernan aveva stabilito l’anno scorso aveva ristretto le possibilità di chiedere supporto aereo e aveva stabilito che fossero le truppe afghane a “guidare” i raid nelle abitazioni. E che il generale che l’ha sostituito non potrà risolvere il problema senza un radicale (quanto per certi versi impossibile) ripensamento della strategia. Secondo le Nazioni Unite nel 2008, le truppe straniere e l’esercito afghano hanno ucciso 828 civili, un terzo in più del 2007, di questi 552 per colpa di attacchi aerei. Il punto è che “call in an airstrike”, richiedere il supporto aereo, è l’unico modo che un numero di unità ridotte, inadeguate rispetto alla vastità del terreno ed alle sue caratteristiche, ha per ridurre/evitare le proprie perdite e provare ad infliggerne ad un nemico che colpisce a distanza. Ci sono soldati finiti in molti conflitti a fuoco ma che mai hanno visto un talebano in faccia. In altre parole, è difficile che vengano ridotti gli airstrike in Afghanistan.

La cacciata di McKiernan (ben descritta in questo servizio della BBC) ovvero del comandante di un “teatro” in “teatro” (al alvoro da soli 11 mesi sui circa 24 previsti) ha pochissimi precedenti nella storia militare americana (l’unico citato è quello della guerra di Corea) ed è stata una mossa altamente mediatica.

La scelta del Generale Stanley A. McChrystal non risolverà in automatico il problema, certo potrebbe essere una svolta analoga all’arrivo di Petraeus in Iraq, ma – ripeto – è molto difficile che si rinunci al supporto aereo e quindi è difficile che cessino le vittime civili. McChrystal dalla sua ha però un punto di forza (vedi la sua biografia sul NYTimes), è stato cioè a capo del JSOC, ovvero del comando unificato delle operazioni speciali, e responsabile in Iraq delle operazioni delle truppe di elite. In particolare McChrystal ha il brevetto di Ranger ed è un Berretto Verde, in altre parola ha quelle conoscenze e il rango per poter riorganizzare il lavoro delle forze speciali che sono indispensabili in Afghanistan ma che allo stesso tempo hanno sin’ora utilizzato tecniche spesso discusse, in particolare negli attacchi notturni a case e villaggi.

L’innovazione che dovrebbe venire da McChrystal è  un po’ un uovo di colombo, ovvero assegnare un gruppo scelto di ufficiali (circa 400) all’Afghanistan con turni nel paese ma con continuità di lavoro anche in patria, questo per fare in modo (finalmente) che quando si siano consolidati la conoscenza sul campo e i rapporti con gli afghani (militari, autorità locali, ecc. ecc.) questo patrimonio di conoscenza non finisca buttato via perchè è finita la missione di chi l’ha accumulato.

McChrystal è però stato coinvolto nello scandalo di Pat Tillman (vedi l’archivio di questo blog) ovvero delle falsificazioni seguite alle morte del campione di football diventato soldato e (come ricorda il Guardian) è stato messo sotto pressione dalla politica per i metodi utilizzati con i prigionieri delle forze speciali. Su tutta la vicenda mi sembra comunque interessante la lettura di questo blog di istruttori militari americani in Afghanistan.

Eroe suo malgrado

tillman122Domenica gli Stati Uniti si fermano, come del resto accade ogni anno di questi tempi. Domani alle diciotto, ora della costa est (mezzanotte in Italia), inizia il SuperBowl, la finale del campionato di football americano; un evento non solo sportivo capace di portare in scena lo spirito e la cultura popolare di un intero Paese.
Quest’anno, l’edizione numero quarantatrè ha un motivo in più per rappresentare gli Stati Uniti di oggi. Al SuperBowl sono arrivati gli Arizona Cardinals, contro ogni pronostico (l’ultima volta che avevano vinto una partita dei play-off, era presidente Henry Truman…). Un evento sportivo che riapre una pagina dolorosa che di sportivo ha molto poco.

I Cardinals sono, erano, la squadra di Pat Tillman, difensore, maglia numero 40. Anti-star per eccellenza, per certi versi “alternativo” come molti californiani, allergico al lusso e agli eccessi, capace di stupire l’America rinunciando ad un contratto milionario, ad una vita sotto i riflettori, quando otto mesi dopo l’attacco dell’11 settembre lasciò lo sport professionistico per arruolarsi nell’esercito. Tillman, diventato intanto un Ranger, viene dispiegato in Afghanistan dove morirà, nella provincia di Khowst al confine con il Pakistan, il 22 aprile del 2004, in quella che venne descritta dal’Esercito come un’imboscata.

Tillman che pure aveva scelto il silenzio dopo il suo arruolamento rifuggendo interviste e ogni ribalta mediatica, diventò così, suo malgrado, il “poster-boy” delle guerre dell’amministrazione Bush, venne celebrato come un eroe e gli venne tributata l’onoreficenza della Silver Star.

Una storia, la sua, che sembrava fatta apposta per sostenere il ritmo del reclutamento e contrastare le critiche che sempre più fitte piovevano sull’amministrazione Bush per il fallimento iracheno (per capire l’ondata di emozione causata dalla sua morte basta guardare questo video), proprio nel momento in cui l’amministrazione si preparava ad affrontare l’imminente scandalo delle torture di Abu Ghraib. Sembrava fatta apposta…Purtroppo, grazie alla sola caparbietà della famiglia Tillman (ed ai meccanismi di controllo del “sistema” americano), nei mesi, negli anni successivi si è scoperto che la storia era stata fabbricata per l’occasione . Pat Tillman è morto per fuoco amico, in un combattimento avvenuto in assenza di truppe nemiche. In una storia che resta ancora misteriosa (molti documenti che la riguardano non sono stati mai interamente resi pubblici come le immagini del Predator che seguiva la pattuglia) c’è persino chi avanza l’ipotesi di un assassinio, visto il colpo ravvicinato di fucile d’assalto che lo ha ucciso (qui estratti delle sedute dell’inchiesta parlamentare sulla vicenda compresa la shockante deposizione del fratello Kevin, arruolatosi con Pat). Dopo la sua morte sul riservato Tillman (la cui storia è facile immaginare finirà, prima o poi, sul grande schermo) sono filtrate diverse indiscrezioni che lo descrivono ateo, anti-Bush e scettico sulle guerre dell’amministrazione americana ma non per questo non devoto alla causa della sicurezza del suo Paese (e conoscendo lo spirito americano, non si tratta di una contraddizione).

Alla vigilia del SuperBowl, tra quelli che scommettono sui Cardinals c’è chi sta preparando un anello per Tillman, la cui storia è stata come riaperta dall’epopea della squadra dell’Arizona (vedi al riguardo un pezzo del New York Times dei giorni scorsi). Alla squadra vincitrice della finale va lo statuario Vince Lombardi Trophy, ai suo giocatori vittoriosi un anello, cimelio di una vita. Anche l’efficiente macchina della comunicazione dell’esercito americano ha diffuso in questi giorni alcuni contributi dedicati al SuperBowl “visto” dalle truppe ed a Tillman a cui è dedicata una Fob, una base avanzata, nella provincia di Paktia (clicca qui per vedere il video).

Chiunque vinca, quest’anno, il SuperBowl finirà per ricordare all’America le responsabilità dell’amministrazione Bush, le contraddizioni dei conflitti in corso e per celebrare un ragazzo trasformato in un eroe ma che ha desiderato per tutta la vita di essere un anti-eroe, nell’accezione più alta del termine. E magari tutto questo servirà anche a far luce su una vicenda che ha ancora bisogno di verità…per rispetto della memoria di Tillman, per onorare davvero la sua famiglia ma anche per capire meglio le contraddizioni della guerra in Afghanistan.

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