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Fuoco indiretto

E’ un rumore sordo, quasi ovattato, che echeggia da lontano, è un colpo “incoming”. Significa che a sparare non sono i “nostri” mortai, quelle dell’Isaf, ma i “loro” quelli della guerriglia. Nel linguaggio militare che riesce, brillantemente, a sterilizzare qualsiasi parola che possa evocare paura, viene definito “tiro indiretto”, c’è chi parla anche di “fuoco indiretto”. I mortai, come i razzi, arrivano a parabola, salgono in cielo e poi ricadono, anche a chilometri di distanza, quasi mai prendendo il bersaglio, arrivandoci vagamente vicino salvo il caso in cui al tiro ci sia un esperto “calcolatore”.

In Afghanistan attacchi del genere nemmeno si contano, sono all’ordine del giorno. Se parla solo quando costano la vita chi li subisce, come accaduto purtroppo sabato al sergente Michele Silvestri, mentre altri cinque soldati italiani hanno riportato ferite. Almeno due di loro verranno segnati da quell’attacco per il resto della loro vita (per inciso, stanno per essere trasferiti al centro medico americano di Ramstein in Germania).

Gli afghani
riescono a muoversi agevolmente sulle loro aspre montagne, riescono a portarsi dietro un mortaio che pesa diverse decine di chili e un massimo di tre colpi, lo sistemano alla buona (altro che messa “in bolla” o calcoli di trigonometria) e sparano in rapida successione sul bersaglio per poi sparire tra le rocce. Il bersaglio sono quasi sempre le evidentemente immobili basi occidentali, soprattutto quelle fob, quei fortini assediati dalle montagne come la base italiana “Ice” in Gulistan, provincia di Farah. L’area nella quale, a tutt’oggi, si contano più caduti italiani. 

I guerriglieri vanno per tentativi, a occhio,
 per questo anche solo per avvicinarsi al bersaglio ci vogliono almeno un paio di “sortite”. Quando i colpi di mortaio arrivano sul bersaglio, in Afghanistan le truppe occidentali, di solito, pensano a combattenti stranieri, come ai “leggendari” ceceni di cui gli americani favoleggiano nella provincia di Logar.
In risposta partono colpi di mortaio che spazzano le alture ma quasi mai riescono a fermare gli attacchi o – per usare il linguaggio ufficiale dell’esercito italiano – a “neutralizzare” gli aggressori (leggi: farli a pezzi).

Mi è capitato diverse volte di trovarmi in una base sottoposta ad attacchi del genere, la prima “mortaiata” ti spaventa, le altre sembrano lontane, poi ti ci abitui e quasi non ci fai più caso nemmeno quando parte la “serie” di colpi di risposta, un boato vicino che invece si squassa dentro.
E’ la routine del conflitto afghano, quella nel mezzo della quale vivono migliaia di soldati occidentali e molti più civili che hanno la sfortuna di ritrovarsi ad abitare nel posto sbagliato. Una routine di cui sarebbe giusto parlare più spessi, descriverla, per far capire quanto complesso sia quel conflitto, quanto pericoloso, quando assurdo nella sua logica di combattimento.
E  anche per non meravigliarsi quando arriva un tragico pomeriggio in cui uno di quei colpi di mortaio cade sul bersaglio, utilizza un cortile per amplificare la sua onda d’urto, spara schegge, sassi e ogni genere di frammento in un ciclone di morte che raggiunge persino le case italiane a migliaia di chilometri di distanza.

Il numero di telefono

Una frase indimenticabile della presidenza Karzai sarà sicuramente quella pronunciata, durante una conferenza stampa, qualche anno fa. Il presidente chiedeva se qualcuno avesse il numero di telefono dei talebani, rendendo pubblico questo “vuoto” della sua rubrica. Una frase apparentemente incomprensibile ma che in realtà sintetizzava in anticipo il problema che le trattative di pace con i talebani hanno ed avrebbero incontrato ovvero l’assenza di ogni certezza sulla controparte. Il governo afghano, insomma, non sapeva con chi trattare un’eventuale pace. Un problema che pare, finalmente, risolto.

I talebani hanno annunciato che apriranno una loro “ambasciata” in Qatar, in pratica potranno spostarsi (dal Pakistan, presumibilmente) in sicurezza senza essere costretti a passare per il territorio afghano, dove sono ricercati e obiettivo delle forze Isaf,  e senza temere rappresaglia in quello che invece sarà per loro un territorio neutrale dove godranno – si ipotizza – delle tutele normalmente offerte ai diplomatici.

Per l’occidente si tratta di una vittoria (attribuibile a Stati Uniti e Germania) perchè appunto adesso sanno di avere un interlocutore certo e non rischieranno più di scarrozzare, proteggere e pagare, dei presunti emissari dei talebani che in realtà sono solo dei truffatori (è capitato anche questo negli ultimi due anni di tentata pace). Allo stesso tempo, in qualche modo, si mette all’angolo o meglio si emargina il Pakistan, un partner cruciale per la pace ma – come sappiamo – molto pericoloso.
In prospettiva, un accordo pur fragile e pur con una sola parte delle guerriglia (che non è formata solo dai talebani – ricordiamoli) servirebbe a far partire le truppe occidentali nel 2014 senza troppi rimorsi e polemiche nell’opinione pubblica occidentale e aiuterebbe anche la campagna elettorale di Obama nella sua seconda corsa alla presidenza.

Per il governo afghano è un colpo a freddo, non è stata coinvolta la Turchia nè un altro alleato storico di Kabul (i sauditi) che avevano ospitato altri tentativi di colloqui di pace durante il pellegrinaggio alla Mecca. Ma almeno il palazzo presidenziale esce dalla paralisi seguita all’uccisione di Rabbani, il capo dell’alto consiglio per le trattative.

Per i talebani è un’opportunità: quella di evitare di continuare ad invecchiare durante una guerra dove hanno chiaramente una posizione di vantaggio, in quanto forza di guerriglia, ma che sanno di non poter vincere esattamente come di non poter perdere. Tra l’altro, la posizione della recente conferenza di Bonn (supporto finanziario al governo Karzai anche dopo il 2014 da parte degli governi occidentali) ha ulteriormente allungato l’orizzonte temporale della “resistenza” talebana in un conflitto di logoramento.

Il vero nodo da sciogliere resta però sempre lo stesso: trovati gli interlocutori, avviate le trattative, quale sarà l’accordo? I talebani chiederanno di certo modifiche alla costituzione e, in primis, una forte riduzione dei diritti delle donne, in generale dei diritti di espressione ed individuali sanciti (non sempre garantiti) nel nuovo Afghanistan. Si finirà per siglare un accordo che riporta il Paese indietro di dieci anni? Certificando così l’inutilità di questi dieci anni di conflitto?
Inoltre sul fronte del governo Karzai, chi applicherà un accordo del genere? Non di certo i tagiki del Fronte Unito che già lanciano strali contro un’ipotesi di governo con i talebani (pashtun).
Per ora l’occidente dovrà cedere sulla liberazione di alcuni prigionieri talebani che sono ancora a Guantanamo così di fatto cedendo sul principio per cui non si tratta con chi ha avuto a che fare con Al Qaida.
E poi cos’altro verrà messo sul tavolo del negoziato?

Qui Base Afghanistan

La grande assemblea tribale convocata dal presidente Karzai si è conclusa dopo tre giorni di lavori, dei quali gli osservatori occidentali hanno capito molto poco. I meccanismi del potere che si irradiano nella società afghana sono troppo complicati per i non afghani e presuppongono una conoscenza di quel contesto che nessuno (in quest’altra parte del globo) sembra possedere. Per esempio non abbiamo ancora capito se gli anziani, i capi tribali, le donne, gli ex-combattenti e quant’altro chiamati sotto la grande tenda fossero davvero uno spaccato della comunità afghana o solo amici dei Karzai a cui è stata concessa una vacanza a Kabul. Diciamo che (per aggiungere una nota di colore) non sappiamo nemmeno da dove nasca il mito del 39, numero saltato nelle quaranta commissioni della Jirga, perchè in Afghanistan da qualche anno è considerato il numero del “lenone”.

Senza sapere se la Jirga sia stata o meno legittimata a predendere le decisioni che ha preso, non sappiamo quanto gli atti conseguenti che prenderà Karzai saranno davvero condivisi dal popolo afghano.
Di certo Washington è stata accontentata: a condizioni da definire (alias i soldi che la Casa Bianca verserà nelle casse afghane) gli americani potranno restare nel Paese fino al 2014, l’Afghanistan diventerà la più importante base statunitense in questo pezzo di mondo. Posizione strategica per colpire l’Iran, fare paura alla Cina, controllare la “bomba” pakistana. Fanno poco testo le parole di Karzai che, in chiusura di lavori, ha detto che “mai il territorio dell’Afghanistan sarà fonte di minaccia per altre nazioni”.

Del resto Karzai sa che rischia di fare la fine di Najibullah, l’ultimo presidente filo-sovietico, capace di resistere dopo il ritiro dell’armata rossa (l’Isaf si ritira nel 2014) solo grazie agli aiuti militari di Mosca e solo fino a quando quegli aiuti arrivarono. Karzai senza gli Stati Uniti (soldi e potenza di fuoco) a Kabul resterebbe per molto poco.

L’assemblea ha anche “benedetto” (non ha poteri decisionali) la decisione, già presa da anni, di trattare con i talebani. La guerriglia ha già fatto sapere che la Jirga non era altro che una riunione di dipendenti del governo, respingendone le conclusioni.

Af-Pak

L’America sembra svegliatasi da un lungo sonno, in questi giorni. Finalmente scopre che i problemi del conflitto afghano risiedono dall’altra parte del confine in Pakistan o meglio finalmente lo ammette in pubblico. E’ un brutto segnale perchè ricorda i tentativi sovietici di colpire oltre frontiera durante l’agonia di quell’altro conflitto afghano. E’ un brutto segnale perchè Stati Uniti e Pakistan sono ufficialmente alleati, proprio dai tempi di quella devastante guerra che poi si rivelò essere la madre dell’estremismo islamico militante e militare. E’ un brutto segnale perchè gli Stati Uniti, chiaramente, non sanno cosa fare, non hanno una strategia per fermare le manovre pakistane.

Per svegliare gli Stati Uniti ci sono voluti gli attacchi all’ambasciata americana di Kabul, che l’ammiraglio Mullen ha ufficialmente attribuito al clan Haqqani con l’appoggio dei servizi segreti pakistani, e l’assassinio di Rabbani, che ormai il governo afghano ufficialmente imputa ad Islamabad.
L’America lo sa da sempre: del resto che l’Isi, i servizi segreti pakistani siano stato il socio fondatore dei talebani è scritto nei libri di storia esattamente come l’interesse pakistano ad avere un vicino afghano debole e strumentalizzabile, ora però l’Afghanistan balla talmente sul baratro che anche gli Stati Uniti hanno dovuto ammettere il problema chiudendo (almento apparentemente) l’epoca dei due piedi in una scarpa.

Af-Pak è una sigla andata molto di moda negli ultimi anni, una di quelle che in lingua inglese suonano così bene. Eppure l’epoca dell’approccio combinato Af(ghanistan)-Pak(istan) è ormai finita, non si può essere amici di entrambi i Paesi salvo girarsi dall’altra parte quando uno dei due la fa grossa.
E, come ci ricorda oggi il New York Times, è esattamente quello che gli Stati Uniti hanno fatto, per esempio, nel 2007 quando fecero finta di non sapere che dietro l’attacco oltre confine costato anche la vita ad un ufficiale americano c’erano appunto i pakistani. La stampa americana è un’indicatore significativo per capire quale sia il termometro diplomatico a Washington: quando le cose peggiorano, in questo caso con il Pakistan, è come se si aprisse un armadio e vengono fuori storie fino a quel punto tenute riservate, come appunto questa che conferma (se mai ce ne fosse stato bisogno) la doppiezza pakistana.

Ammesso il problema, adesso il vero dilemma è cosa fare. I vertici militari (un potere pesante, molto pesante, in Pakistan) hanno già fatto quadrato in nome dell’orgoglio nazionale. Il governo (civile e post-golpista) è troppo debole per contrastarli e rischia, a giorni alterni, di trovarsi su un aereo con destinazione l’esilio estero. Senza considerare che il Pakistan possiede la bomba atomica i cui segreti ha fatto già circolare, per esempio, in direzione nord-coreana. Il Pakistan di oggi è un “mostro” (non il Paese ovviamente ma i suoi assetti di potere) creato ai tempi della jihad anti-sovietica. E’ forse troppo tardi per ribaltare la situazione o almeno farlo tanto rapidamente quanto l’emergenza afghana ormai richiede.

La morte porta il turbante

E’ la terza volta negli ultimi mesi che un kamikaze colpisce con una bomba nascosta nel turbante, “sacro” per ogni afghano del sud perchè è la cosa più intima che un pasthu possa indossare. O almeno è questo il conteggio che ho fatto io, considerando gli attacchi alla moschea dove si celebrava la memoria dell’appena ucciso “re” di Kandahar, il fratello di Karzai, e poi l’assassinio del sindaco della stessa città. Oggi il turbante è esploso in una casa di Wazir Akbar Khan, il quartiere residenziale di Kabul, dove molti ex-signori della guerra hanno costruito le loro case.  La sto prendendo alla larga – lo ammetto – ma la notizia di cui sto scrivendo è di una gravità senza precedenti nel senso che avrà ripercussioni di lungo termine e merita di essere raccontata bene nei dettagli.

Quando la bomba è esplosa oltre a decapitare il kamikaze ha ucciso l’uomo che lo stava abbracciando ovvero l’ex-presidente Burhanuddin Rabbani, che guidò l’Afghanistan dopo la caduta di Najibullah (l’ultimo leader filo-sovietico) prima di venir anch’egli cacciato ma quella volta dai talebani.
Rabbani aveva avuto da circa un anno l’incarico di guidare il consiglio per la riconciliazione nazionale alias di occuparsi delle trattative di pace con i talebani. Ed è stato ucciso proprio mentre incontrava una delegazione di ribelli. Un altro segnale di come le infiltrazioni talebane ormai siano sempre più capillari negli apparati di sicurezza e più in generale governativi.

Rabbani aveva le mani sporche di sangue, come tutti quelli che hanno preso parte alla guerra civile e al massacro di un’intera città, Kabul, negli anni ‘90. Mi dispiace dirlo nel giorno della morte di uomo perchè non vorrei essere frainteso: niente può giustificare un omicidio; ma è un elemento importante per capire che non è stato ucciso un eroe nazionale nè qualcuno a cui il popolo afghano era particolarmente vicino. Infatti la sua scelta come capo dell’High Peace Council aveva sollevato non poche polemiche, figlia dell’ennesima alchimia etnico-politica di Karzai, l’equilibrista.
Eppure, nonostante questi elementi, l’omicidio di oggi avrà effetti di lungo periodo perchè rappresenta il timbo a cera lacca sul fatto che le trattative di pace in Afghanistan sono al momento impossibili.

Negli ultimi due anni abbiamo sentito ripetere come un mantra dai vertici militari e politici della coalizioni che bisognava sedersi al tavolo delle trattative con un posizione di forza ecco perchè intanto i marines avanzavano (e morivano) tra i canali d’irrigazione della green zone, la zona coltivata lungo il fiume Helmand. Al momento l’impressione è che la posizione di forza (almeno sul piano psicologico e del rapporto con la popolazione) l’abbiano raggiunta i talebani, con una serie di attacchi nel cuore delle città e una raffica di omicidi mirati alias una campagna di terrore su vasta scala.

Non solo sarà adesso difficile trovare un sostituto con l’autorevolezza (perchè questa non gli mancava) di Rabbani ma soprattutto oggi si è rotta un’usanza quella che consente a due avversari afghani di incontrarsi, magari tra mille ipocrisie ma senza farsi del male, anche se poi dopo i saluti si ricomincia a spararsi addosso.
L’episodio di oggi crea un tale clima sospetti e diffidenze che renderà sempre più difficili incontri trasversali e clandestini come quelli necessari a portare avanti un processo di pace. Un omicidio condotto in maniera audace che contribuisce a diffondere nel Paese quella sensazione di insicurezza, la sfiducia in un governo incapace di difendere sè stesso e i suoi uomini.
Un omicidio che fa pensare per la sua dinamica infida all’uccisione di Massoud, ammazzato da due finti giornalisti con telecamera al tritolo.

La settimana scorsa il leader dell’organizzazione ribelle forse più pericolosa del Paese, ovvero il network Haqqani, si era fatto sentire con la Reuters (cosa molto rara per Sirajuddin, il giovane Haqqani) annunciando che i suoi uomini avrebbero deposto le armi se i talebani si fossero pronunciati a favore della pace.
Chiacchiere per ora, mentre il numero dei militanti che hanno effettivamente deposto le armi a fronte del programma per il reinserimento nella società (incentivi alla rottamazione dei kalashnikov…) è andato ben oltre i suoi obiettivi con 2500 miliziani usciti dalla clandestinità. Purtroppo sono solo soldati semplici delle forze anti-governative per lo più attivi non nelle zone più calde del Paese. Anche il processo guidato sin’ora da Rabbani non era riuscito a scalfire il nocciolo della dirigenza ribelle che ormai sembra aver capito che, forse, combattere consentirà loro di riprendersi tutto il Paese senza dover mediare con nessuno, del resto c’è solo da aspettare fino al 2014 mentre Karzai è un uomo sempre più solo. Il presidente più solo del mondo come racconta questa esclusiva del britannico, The indipendent…

http://tashakor.blog.rai.it/2011/09/21/la-morte-porte-il-turbante/

La donna “del” mullah

La storia è inverosimile ma troppo curiosa per non essere raccontata. Prendete una donna e datele tre colpe gravi: in primo luogo essere donna, essere stata eletta in parlamento in questo regime “democratico”, appartenere all’etnia hazara ovvero gli ultimi tra gli ultimi. Dimenticavo, ovviamente queste sono tre colpe gravi agli occhi di un conservatore radicale dell’etnia pashtun in Afghanistan. Se poi il conservatore radicale è il fondatore del regime dei talebani, queste tre colpe da gravi diventano gravissime.

Eppure questa  donna (che si chiama Homa Sultani) nonostante tutto sarebbe riuscita a stabilire un contatto con il Mullah Omar, persino a riuscire a vedere l’uomo più ricercato dell’Afghanistan ben due volte, una presso Kandahar l’altra vicino Kabul. Homa starebbe mediando per le trattative di pace e il Mullah si fiderebbe di lei tanto da aver firmato una sorta di lettera di intenti. Affermazioni pubbliche come queste che potete leggere qui.
Sarà vero? Magari…

Che succede in Afghanistan?

Che succede in Afghanistan? Scusate la domanda banale ma è così banale che se la dovrebbero porre tutti (dico proprio tutti, a cominciare dai contribuenti di mezzo occidente che pagano una costosissima missione militare e altrettanto costosi aiuti allo sviluppo). Eppure mi sembra non se la ponga nessuno, tra nuovi conflitti e la vecchia (in fatto di Afghanistan) abitudine a girarsi dall’altra parte perchè tanto – nonostante le dichiarazioni di circostanza – domina la convinzione che raddrizzare quel Paese sia impossibile.

Con questa domanda torno a scrivere di quel Paese lontano chiamato Afghanistan dove muoiono civili afghani e ragazzi/e occidentali; torno a scrivere dopo una lunga pausa nella quale ho pubblicato molto su facebook ma non sono riuscito a lavorare sul blog per mille motivi. Forse ho somatizzato il silenzio che ormai avvolge quel Paese…Ma veniamo a qualche possibile risposta alla domanda.

Partiamo dalla notizia della serata. Dopo l’hotel Serena nel 2008, stasera è toccato all’hotel Intercontinental, l’albergo dove negli anni d’oro si andava in vacanza a Kabul, è stato attaccato da un commando di attentatori suicidi, la battaglia infuria in un complesso che è molto grande, posto su una collina e accessibile da più lati anche se la strada carrabile è unica. Nel 2001 era stato quasi centrato da un razzo ma da allora l’Intercontinental era sembrato come coperto da uno scudo magico (o da un patto di quelli che ti sfuggono in Afghanistan, ma di cui vedi gli effetti). Mai attaccato nonostante sia l’albergo dove – per mille motivi – si riuniscono spesso i governatori di province e i capi distretto o comunque parte della dirigenza governativa e si tengono frequenti conferenze stampa. L’Intercontinental (l’affiliazione alla omonima catena è finita nel ’79) è soprattutto questo oltre che un hotel frequentato anche dagli occidentali, come ormai lo stanno descrivendo quasi tutte le testate.
A Kabul è ormai notte fonda, la battaglia intorno al complesso infuria, si parla di una decina di vittime e almeno sei kamikaze, domani ne sapremo qualcosa in più, sperando in un bilancio meno drammatico di quello che potrebbe essere.

Il governatore della Banca centrale afghana si è dato alla fuga ma non è scappato con la cassa. Ha messo le mani nel pasticcio della Kabul Bank che equivale ad averle messe nella presa della corrente e ora ha paura per la sua vita. E’ all’estero.
La Kabul Bank (ne ho scritto tante volte) è la più importante banca privata del Paese, simbolo del neocapitalismo afghano, ridotta a bancomat dei soliti noti, amici (e parenti) del potere, per spericolate operazioni immobiliari a Dubai. Da quando la banca centrale è intervenuto per salvare l’istituto di credito, ha denunciato il coinvolgimento dei vertici del governo ed ora Abdul Qadeer Fitrat ha paura per la sua vita. Il governo ha risposto emettendo un mandato di cattura e accusandolo di ladrocinii vari.

A pochi mesi dal suo faticoso insediamento (a settembre le elezioni e poi un lungo conteggio dei risultati), 62 neo-eletti in Parlamento su 269, pochi giorni fa, sono stati mandati a casa dalla corte speciale allestita da Karzai per combattere i brogli. Peccato che per questo ci sia la commissione elettorale indipendente e quella anti-frodi anch’essa indipendente e la mossa del presidente è stata quindi anticostituzionale. Del resto ci aveva provato quattro mesi fa a fermare l’insediamento della camera bassa (quella elettiva) di fronte alla sconfitta dei suoi candidati, ora l’esplosione a scoppio ritardato. La commissione elettorale ha rigettato la scelta di Karzai, ribadendo che gli unici risultati validi sono i suoi. Il Parlamento ho sfiduciato Karzai e il procuratore capo della magistratura afghana. Lo scontro istituzionale è totale, va in frantumi l’ultimo simulacro di democrazia a cui poteva aggrapparsi l’occidente.

Sul fronte strettamente bellico…beh le notizie continuano (purtroppo) ad abbondare…la Cnn è tornata nella valle del fiume Kunar  per constatare (la sintesi la faccio io) che nulla è cambiato in questi anni, colpi di mortaio arrivano e colpi di mortaio vanno…all day long!
Questo passaggio mi hanno colpito, è esattamente quello che ho visto io di persona: “A few days after the losses here, the unit dropped $3 million in bombs in just 24 hours. That stopped the attacks — for five days”.
Intanto mentre qualche on line italiano dimenticava di aggiornare il bilancio delle vittime ridimensionato rispetto alle prime notizie ben più drammatiche (se i drammi si misurano dal numero dei morti…), nella provincia di Logar morivano circa quaranta persone in un attacco suicida contro un ospedale. La massima attenzione mediatica l’ha avuta, in questi giorni, però la drammatica storia della bambina di otto anni a cui i talebani hanno messo in mano un bomba, fatta esplodere a distanza per colpire un gruppo di poliziotti. Nelle stesse ore (se la memoria non mi inganna), un kamikaze in sedia a rotella si è fatto esplodere in Iraq. Più che per le migliorate capacità delle forze di sicurezza ho come l’impressione che le forze anti-governative cerchino, nella loro macabra follia, espedienti del genere per riconquistare l’attenzione dei media…Un po’ come quel generale americano che ha calcolato i costi dell’aria condizionata per le truppe americane in Iraq e Afghanistan. Roba da mandarlo ad “arrostire” nell’aria a 50 gradi dell’estate nell’Helmand.

A  proposito in Afghanistan che succede? Mah, penso niente…niente di importante…

Morto Bin Laden, la guerra continua

Ormai avevano smesso di cercarlo sulle montagne al confine con il Pakistan, ormai da almeno tre anni la missione delle migliaia di soldati americani in Afghanistan era diventata fermare i ribelli anti-governativi, identificati dai media come talebani solo per comodità verbale ma in realtà un misto di bande locali, truppe di signori della guerra e appunto uomini degli studenti coranici. L’attenzione dell’intelligence era rivolta ormai oltre confine in Pakistan appunto dove gli aerei senza pilota hanno bombardato mai come nel 2010 e nel 2011.

Eppure la notizia dell’uccisione di Bin Laden è un gran sollievo per l’Afghanistan. “Abbiamo sempre detto per anni e ogni giorno che la guerra al terrorismo non va condotta nei villaggi afghani, non nelle case degli afghani poveri e oppressi”, ha dichiarato stamane il presidente Karzai che da anni, come tutti gli afghani, punta il dito contro il Pakistan, dove non solo Bin Laden aveva la sua base, ma dove la guerriglia afghana prepara e rifornisce il suo conflitto contando sulla compiacenza del governo di Islamabad.

Nonostante Karzai abbia detto ai talebani di considerare questa morte come un monito, l’uccisione di Bin Laden non apre spiragli di pace, la presenza di Al Qaeda nel Paese era ormai ridotta ai minimi termini: un centinaio di uomini aveva spiegato il capo della Cia qualche tempo fa. Addirittura l’uccisione, pochi giorni fa, del leader della filiale afghana di Al Qaeda era passata sotto silenzio, una notizia minore per il suo impatto sulla guerra.
Guerra che inevitabilmente continua.

Per un pugno di pistacchi

Kabul, malintesa modernità np© 2010
Kabul, malintesa modernità np© 2010

 

Non so se sia illegale, in America lo sarebbe stato di sicuro, in Italia non so. Non me l’hanno chiesto in aereoporto, non me lo sono chiesto nemmeno da solo, per distrazione più che altro. Dal mio ultimo viaggio afghano ho riportato a casa un paio di chili dei miei pistacchi preferiti. Comprati da Salahuddin, nel suo negozio stracarico di frutta secca, pistacchi e mandorle nel cuore di Shar-e-Now a Kabul.
I pistacchi afghani sono magici, ogni volta che entri in casa – anche in quelle più povere – ti aspettano a terra in un piccolo vassoio assieme all’uva passa e a qualche caramella confezionata in Pakistan; novità recente, “del benessere” che ha soppiantato le caramelle artigianali vendute dai carretti per strada fino a qualche anno fa. Mentre la malintesa modernità segna le strade della capitale  assieme ai cantieri della speculazione edilizia, i pistacchi afghani vengono dal nord del Paese. Io amo quelli della provincia di Baghdis, dove crescono spontanei e sembrano quasi “foreste”. Sono più buoni di quelli iraniani che si riconoscono per la pennellata di giallo (zafferano?) sul guscio, qualcuno mi ha detto che una volta sono stati persino tra i protagonisti di Terra Madre a Torino. I pistacchi di Bagdhis costano più di quelli iraniani, devi insisterli per averli perchè si vendono con più difficoltà.
In Italia, li sguscio, li lavo e butto via una tonnellata di terra rossa, la polvere afghana che penetra dappertutto. Li offro agli amici o ci faccio un pesto che incanta tutti. Non sono salati i pistacchi afghani ma hanno più carattere, un gusto delicato ma più deciso di quelli italiani e mediterranei in genere, tanto che per un dolce non li userei mai. Insomma, sono quasi la sintesi di un Paese.

Che c’entra tutta questa storia sui pistacchi afghani con l’Afghanistan? Con la guerra? Con il corano bruciato? Con le sofferenze di un intero popolo? Beh, c’entra nella misura in cui a volte voglio pensare al Paese più bello del mondo per la sua bellezza, per l’ospitalità della sua gente, per i sapori regalati dalla fatica su terra desertica anche quando è fatta di pietre e non di sabbia. A Baghdis, c’è Bala Morghab, il fronte nord degli italiani, di quella provincia sentiamo parlare solo per i combattimenti non per “tesori” come questi. In quei pistacchi forse c’è una speranza per l’Afghanistan, come c’è nello zafferano, nei semi di sesamo, nei melograni, in un’agricoltura capace di ricostruire l’immagine di un Paese oltre che di sfamarlo.

Come Folgore…

La settimana scorsa i parà della Folgore hanno cominciato a lasciare l’Italia, destinazione Herat. Tra pochi giorni ci sarà il TOA ovvero il trasferimento del comando dagli alpini appunto ai paracadutisti. L’Afghanistan è stato mediaticamente fagocitato dalle vicende libiche, semplicemente non se ne parla più, “non c’è spazio in pagina”; del resto molti dei giornalisti internazionali normalmente impegnati in quel Paese li ho rivisti al confine libico-tunisino o li leggo/vedo da quel di Benghazi.
Sta capitando sui media di tutto il mondo ma in Italia non era poi così difficile dimenticarsi dell’Afghanistan, vista la già scarsa e intermittente attenzione riservata dalle testate di casa nostra alla missione di un Paese a tutti gli effetti in guerra. Eppure questo semestre di missione per i parà sarà molto duro, con le loro capacità militari – che hanno già dimostrato nel 2009 – sono chiamati a mettere mano ad una serie di problemi non da poco: a cominciare dal Gulistan e da tutto l’area dell’ex-opbox Tripoli nella parte sud-orientale della provincia di Farah, senza dimenticare la turbolenta Bala Morghab. Questa volta, per giunta, conoscono meglio il terreno e quindi è presumibile che si muoveranno più in profondità e con più sicurezza anche verso obiettivi e no-go zone (per gli occidentali) ancora “intatte”.
Il tutto in un quadro nuovo, con l’incognita della sicurezza ad Herat in fase di passaggio alle forze afghane, un quadro fluido che libererà altre truppe per l’impiego in aree più calde rispetto alla tranquilla Herat ma non esclude che gli italiani avranno occasione di correre in supporto di ANA e ANP in caso di grossi guai nella capitale provinciale.
Saranno sei mesi caldi, cominciano nel silenzio – con sommo sollievo, ipotizzo, del mondo politico –  ma è un silenzio che non durerà. Auguri ai parà. Auguri all’Afghanistan.