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Questa ci mancava

In Afghanistan si continua a morire e l’impressione è sempre la stessa ovvero che le cose si raccontino in maniera quantomeno approssimativa, ma all’Italia (e ad una buona parte dei suoi media) sembra che la cosa interessi poco, c’è il bunga-bunga di cui parlare…roba seria, alto che un conflitto più lungo della seconda guerra mondiale.

La morte dell’alpino Luca Sanna 32 anni  e il ferimento del suo commilitone Luca Barisonzi, che rischia di portare per tutta la vita i segni dell’attacco, è avvenuta in una circostanza sin’ora mai toccata al contingente italiano, ovvero quello di un infiltrato tra le fila dell’esercito afghano che ha sparato ed è fuggito via, in uno dei “caposaldi” intorno alla base di Bala Morghab, florida terra di nessuno al confine con il Turkmenistan. Ormai è una piaga diffusa quella degli infiltrati all’interno di un esercito che sembra stare in piedi per fare “numeri”  (di ieri la notizia di un piano per portare quasi a 400mila unità le forze di sicurezza – vedi qui ) ovvero consentire agli occidentali di ritirare il grosso delle truppe.

Poco distante da Bala Morghab, a Qal-e-Now, capitale provinciale, pochi mesi fa, proprio un infiltrato del genere aveva ucciso due istruttori spagnoli. Solo una manciata di giorni addietro, più a sud, a Sangin, l’inferno in terra per gli inglesi prima e i Marines ora, un militare americano aveva ammazzato un soldato afghano prima di essere ucciso dal commilitone.
Dei 36 militari italiani uccisi in Afghanistan, pochissimi sono morti per colpi di arma da fuoco (se non ricordo male, il primo è stato il maresciallo Pezzulo, nel 2008 a Sorobi) quasi tutti invece per colpa di ordigni Ied, ma il loro numero negli ultimi mesi è drammaticamente aumentato (Romani, Miotto, ieri Sanna). Oggi possiamo contare la prima vittima della collaborazione con un esercito afghano non sempre affidabile, dove i confini tra indisciplina, stress da shock traumatico e infiltrazione vera e propria sono labili. Questa, purtroppo, ci mancava; ce la saremmo risparmiata molto volentieri: è la misura di una missione sempre più impegnativa e quindi più rischiosa; rischio (nonostante le affermazioni di La Russa che intende coinvolgere sul punto anche il generale Petraeus) sostanzialmente “incomprimibile” perchè più ti avvicini alla sponda del fiume, più ti bagni.

Anche questa volta, il racconto all’opinione pubblica è stato quantomeno approssimativo. Quando ieri ho letto il lancio d’agenzia, poche righe, sulla sparatoria nella base…beh gli scenari che mi sono venuti in mente sono stati appunto due, il primo quello di un attacco “complesso” alla fortificazione (ma si sarebbe dovuto trattare di un attacco su vasta scala, difficilmente condotto con armi leggere), il secondo – appunto – quello di un infiltrato. Del resto Bala Morghab è un’area da manuale per la collaborazione tra truppe di nazionalità diversa (americane, italiane, spagnole e appunto afghane). L’ho detto subito ad un collega con il quale stavo parlando al telefono e che mi ha riferito la notizia in tempo reale.

Il ministro alla Difesa (vedi qui) con la sua stoffa da comunicatore ha subito lanciato lo slogan-notizia del terrorista con la divisa dell’esercito afghano, insomma un attacco di qualcuno travisato da militare non di un militare vero e proprio (eventualità che però in Afghanistan è riferita soprattutto alle forze di polizia). Il ministro definiva “meno probabile” che fosse un infiltrato nell’esercito afgano, arruolatosi proprio per compiere azioni di questo tipo. Oggi ovviamente alla Camera è stata raccontata un’altra storia“era un infiltrato nell’esercito afgano, cioè uno dei militari” che prestavano servizio insieme ai soldati italiani nell’avamposto di Bala Murghab. L’uomo era nell’esercito afgano “da tre mesi”. Non mi riesco a spiegare questi “errori” di comunicazione se non come la fretta di dare le notizie o con la voglia di lanciare messaggi rassicuranti agli italiani, perchè è sempre meglio parlare di un terrorista in divisa piutosto che raccontare che combattiamo fianco a fianco con qualcuno, in certi casi, pronto ad ammazzarci da un momento all’altro.
Non mi sembra ci abbia fatto caso nessuno, del resto sono i giorni del bunga-bunga che vuoi che ce ne freghi di quello che fanno 4000 italiani nel Paese soprannominato la tomba degli imperi per quanti Paesi stranieri ha messo in ginocchio?

Ultima fermata, Gulistan

Mentre i vivi litigano, e se ne discute non senza ipocrisie, c’è voluta la sincerità delle parole lasciateci da un giovane caduto alpino per mostrare a chi si ostina a guardare il dito, tutto quello che c’è intorno. C’ho messo qualche giorno per scrivere questo post, perchè di solito evito di fare commenti “geopolitici” nei giorni destinati al lutto come purtroppo è stato l’ultimo del 2010. Nei giorni successivi poi, ho visto aprirsi una fisarmonica di eventi e dichiarazioni sulle quali mi sembrava il caso di riflettere.

Matteo Miotto ha scritto nel suo testamente di voler essere sepolto nella parte del cimitero di Thiene dedicata ai caduti di guerra. Sembra una decisione privata, per me sono parole di verità nella vicenda afghana. Al di là della facile retorica, dovrebbe spingere molti a spostare lo sguardo dal dito, a guardare a cosa quel dito stia puntando.
Matteo è morto in guerra, da professionista sapeva che c’era questa eventualità e l’ha scritto nel suo testamento. Non voglio riapre il discorso sulla natura della missione italiana, finiremmo con il parlare della Costituzione e perderci la sostanza ovvero che in Afghanistan si combatte una guerra e la politica (tutta) non si assume la responsabilità di dirlo al Paese. Di dire agli italiani che quella è una guerra, magari giusta (come ritiene il Premio Nobel per la Pace, il presidente Obama e – più implicitamente – tantissimi governi di mezzo mondo) ma null’altro che una guerra.

Quanto sia importante questa verità l’abbiamo capito nei giorni successivi alla morte di Matteo, in una vicenda dove quella decisione di un giovane alpino diventava sempre più altamente simbolica, proprio ora e mai come ora.
Il ministro La Russa arrivato ad Herat la sera del 5 gennaio, racconta che Miotto non è morto come inizialmente detto (colpito da un cecchino) ma colpito durante un attacco “multiplo” alla sua base. Due scenari ben diversi. La Russa polemizza con i militari che l’hanno informato tardi, parla del “riflesso di un vecchio metodo, di cercare di indorare la pillola della realtà dei fatti, di dire la verità ma nel modo più indolore possibile” – ovvero riapre la polemica con il metodo del governo Prodi (che poi proprio sull’Afghanistan scivolò la prima volta). Oggi sul Corriere della Sera, la smentita del Capo di Stato Maggiore, il generale Camporini apre uno scontro senza precedenti tra i vertici civili e quelli militari delle forze armate. Il ministro La Russa deve convocare in mattinata una conferenza stampa per ricucire lo strappo con le stellette.
Qualcuno mi sembra provi a leggere lo scontro secondo le categorie dell’italico “politichese”. Qualunque cosa sia successa l’ultimo giorno dell’anno nel Gulistan (e molti dubbi continuano ad esserci), queste onde “telluriche” altro non sono che frutto del peso dell’Afghanistan; qualunque entità metta le mani in quel Paese – lo dice la storia – si ritrova profondamente destabilizzata, solo negli ultimi tempi penso alle dimissioni del governo olandese o a quelle del presidente tedesco. Ora sbattono le porte di Palazzo Baracchini, la sede del Ministero alla Difesa, a Roma.

L’altra cosa a cui punta il dito, lo stesso dito dal quale gli occhi non riescono a staccarsi, è un distretto della provincia di Farah. Si chiama Gulistan, il posto dei fiori in lingua dharì, sempre più – drammaticamente – fiori di lutto per gli italiani. Dal primo settembre i nostri militari sono arrivati per estendere la presenza del governo di Kabul, tradotto per tagliare le retrovie dei talebani che nella confinante provincia di Helmand, la loro roccaforte, sono sempre più messi alle strette dalle massicce operazioni anglo-americane, ma hanno bisogno della strada della droga e della strada della ritirata verso il nord. Fino ad agosto l’op-box Tripoli ovvero una parte della provincia di Farah, Gulistan compreso, era in mano agli americani più del doppio dei 350 italiani che hanno preso il loro posto, asserragliati in tre fortini, chiaramente pochi per il compito loro assegnato e per dedicarsi ad un territorio così vasto.
Dal primo settembre i sei caduti riportati dagli italiani sono morti qui, cinque in Gulistan, uno nel confinante distretto di Bakwah. C’è bisogno di dire altro per capire che inferno sia quella zona in passato terreno solo delle forze speciali per brevi raid? Un terreno tutto da “riconquistare” dove solo poche settimane fa sono arrivati i primi militari afghani (anche per questo gli italiani finiscono con l’essere pochi). In confronto l’estensione della “bolla di sicurezza” di Bala Morghab corre il rischio di sembrare una passeggiata.
E siamo ancora in inverno, da marzo in poi la situazione – è facile prevederlo – si farà sempre più difficile, all’epoca in campo sarà schierata la prima aliquota di parà della Folgore che quest’anno copriranno il turno estivo (da aprile) della missione italiana.

Penso alla visita del generale Petraeus e del generale Camporini, il giorno di Natale, proprio a Bakwah. Rileggo i comunicati, quello in italiano dove spicca questa frase “Bakwah è una delle aree dove maggiormente si concentrano gli sforzi degli italiani nell’implementare la sicurezza, di concerto con i militari afghani. Sicurezza che i cittadini percepiscono di giorno in giorno e che va di pari passo con la fiducia nel lavoro delle forze di coalizione.” Quello destinato ai media internazionali (scritto in inglese), dove all’incirca nello stesso punto compare invece questa frase: “Bakwa is one of the more volatile areas in RC-West, and the Soldiers based there often engage insurgents in kinetic activities.” Ovvero “Bakwa è una delle aree più instabili dell’RC-West, i soldati di stanza qui spesso combattono con i ribelli”. Li rileggo e penso a quanto siano pesanti le parole di verità scritte da un giovane alpino morto a migliaia di chilometri da casa, scritte da chi pensa a dire le cose come stanno non all’effetto che le sue parole potranno produrre.

Purtroppo penso anche a cosa saranno i prossimi mesi nell’infero del Gulistan.

Attacco ad Herat, perchè preoccuparsi

Cinque kamikaze; indosso il burqa a coprire la cintura esplosiv; l’ormai classica tecnica del primo che si fa esplodere per aprire la strada agli altri che irrompono sparando; la reazione delle guardie della sicurezza che riesce a fermarli, uccidendoli. Secondo le ultime ricostruzioni, sarebbe questa la dinamica dell’attacco di stamane alle sede Onu di Herat. Un’attacco che, per fortuna, è andato a vuoto. Oltre agli attentatori, ci sarebbero solo un paio di guardie ferite, il personale delle Nazioni Unite è riuscito a rifugiarsi nella “strong room” dell’edificio, al sicuro. Nel pomeriggio sarà poi evacuato nella vicina base italiana, Camp Arena, all’aeroporto di Herat, dove passerà la notte.

Nonostante sia fallito, l’attacco di oggi è preoccupante. Se nell’ottobre del 2009, poco prima del (poi cancellato) ballottaggio delle elezioni presidenziali, a Kabul era stato colpita una guest house utilizzata dalle Nazioni Unite, uccidendo sei funzionari di Unama, è la prima volta che si colpisce una sede ufficiale della missione – un salto “mediatico” di qualità. Ed è la prima volta che un attacco così massiccio e potenzialmente devastante, viene condotto ad Herat che sin’ora – nonostante il peggioramento degli ultimi mesi – è stata considerata una città sicura per gli standard afghani. Del resto la responsabilità della sicurezza nell’area urbana potrebbe essere presto passata formalmente alle forze di sicurezza afghane, in quel processo (in parte sostanziale, in parte simbolico) che vuole dare “visibilità” al disimpegno delle forze Isaf. 

Più che la rivendicazione talebana, fatta pervenire all’agenzia AFP, in realtà è la dinamica a portare la firma degli studenti coranici, in un ‘area dove si intrecciano interessi di potenti locali e dei potenti vicini iraniani e dove quindi è facile equivocare l’origine di certi fenomeni. Che cosa possa significare questo attentato è presto per dirlo. Come l’attacco alla sede di UsAid (la cooperazione statunitense) di quest’estate in un’altra ex-area sicura, Kunduz, potrebbe però essere un nuovo segno della strategia della guerriglia di espansione dell’area di operazioni. L’obiettivo è sempre più di portare il terrore in tutto il Paese, in maniera più diffusa e più omogenea guardando la mappa. E’ una risposta mediatica, strategica e logistica alle offensive Isaf in aree come l’Helmand e Kandahar (vedi questi aggiornamenti dal campo pubblicati da NY Times e AFP nei giorni scorsi) che stanno spingendo i guerriglieri a lanciare attacchi nel resto del Paese, perchè per loro è impossibile fronteggiare direttamente le truppe organizzate di un potente esercito regolare come quello americano ma è molto facile diffondere il terrore, destabilizzare altre aree e “fare notizia”. Devono inoltre, spesso, spostarsi per trovare rifugio e per cercare aree dove è più facile colpire, “sbilanciando” le truppe straniere ormai sempre più concentrate sul sud.

Non è ancora chiaro se l’attacco di Herat di oggi faccia parte di questa strategia, di certo è un segnale da tenere sotto controllo con grande attenzione. Dopo la “caduta” del Nord-Est (ormai segnato da una fortissima presenza di guerriglieri, afghani e non), il nord-ovest con l’eccezione di alcune sacche (come l’ “italiana” Bala Morghab) è ancora parzialmente stabile. Il che vuol dire che potrebbe essere il prossimo bersaglio di una campagna di attacchi dall’alto profilo mediatico, come avrebbe potuto essere quello di oggi, e di terrore a vasto raggio per destabilizzare le autorità localo. In questo le province nord-orientali di Taqar e Kunduz offrono un copione almeno in parte, tristemente, replicabile.

Duecento attacchi in sei mesi, almeno uno al giorno

 

 

Passaggio di consegne ad Herat (foto ufficio Pio Rc-West)

 

E’ stato un passaggio di consegne tra alpini, quello di Herat. Da oggi la regione ovest della missione Isaf, quella a comando italiana, è “affidata” alla Brigata Julia, che purtroppo ha già perso quattro uomini, pochi giorni fa in Gulistan, dispiegati per coprire la nuova task force south-east, in una sorta di “anticipo” dello schieramento odierno. La Taurinense lascia dopo sei mesi durissimi, impegnata nel semestre caldo meteorologicamente che è poi quello più “caldo” anche in termini di combattimenti, vecchia regola quasi mai smentita in Afghanistan. Gli alpini della Taurinense hanno subito duecento attacchi, più di uno al giorno, sessantuno gli ordini neutralizzati ma che altri cinque sono esplosi e hanno ucciso in due occasioni. “La minaccia è stata neutralizzata” in diverse occasioni, che tradotto dal glaciale gergo militare significa che sono stati uccisi un numero imprecisato (perchè non reso noto) di ribelli. Nei sei mesi peggiori di sempre per la missione italiana in Afghanistan, sono dieci i nostri soldati uccisi. Purtroppo una triste e matematica conferma dell’andamento di tutta la missione Isaf che nel 2010 ha perso più uomini che mai. Di seguito il comunicato finale sulla missione diffuso oggi dal Maggiore Mario Renna:

HERAT, Afghanistan (18 ottobre) – La brigata alpina Julia ha assunto oggi la guida per i prossimi sei mesi del Regional Command West, il comando NATO responsabile per la regione occidentale dell’Afghanistan forte di oltre 7000 militari di undici nazioni, tra cui 3.600 italiani, metà dei quali fanno parte del corpo degli Alpini. Il generale Marcello Bellacicco ha ricevuto oggi la bandiera della NATO dalle mani del generale Claudio Berto, comandante della Taurinense, alla presenza del Sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto e del comandante dell’ISAF Joint Command, il generale statunitense David Rodriguez. Nel periodo tra aprile e ottobre di quest’anno il contingente internazionale guidato dal generale Claudio Berto ha operato su un’area grande quanto l’Italia del nord, popolata da circa 3 milioni di persone, con molti risultati di rilevo all’attivo: zone un tempo terreno d’azione dagli insorti oggi pacificate e ripopolate, centinaia di progetti di sviluppo realizzati, migliaia di poliziotti e soldati afgani addestrati, centinaia di ordigni disinnescati dal genio.

Le operazioni sono state condotte in collaborazione con le forze di sicurezza locali secondo un approccio italiano che ha visto mettere la popolazione afgana  al centro degli sforzi, coinvolgere le comunità e i leader locali nell’affrontare i problemi legati alla sicurezza e allo sviluppo, realizzare i progetti di ricostruzione tramite risorse locali, usare flessibilità senza rinunciare ad essere determinati, adoperare le armi solo se attaccati e quando necessario. A nord, a Bala Murghab il 2° reggimento Alpini, insieme a forze statunitensi e afgane, è stato protagonista della costruzione di una ‘bolla di sicurezza’ di 20 km di estensione che ha difeso da attacchi esterni mediante un sistema di capisaldi e trincee, consentendo il ritorno alla normalità per 8000 persone fuggite a causa degli insorti. Parallelamente, all’interno della ‘bolla’ è stato lanciato un programma internazionale di aiuti a sostegno della popolazione, che ha risposto con favore al nuovo corso, facendo tra l’altro registrare alle elezioni politiche dello scorso 18 settembre uno dei tassi di affluenza più elevati della provincia. Al centro e a sud del’area di responsabilità, le unità del Regional Command West hanno operato a fianco delle forze di sicurezza afgane per estendere il raggio d’azione del governo, in particolare nei distretti remoti delle provincie di Herat e Farah. Il 3°, il 7° e il 9° reggimento Alpini hanno prodotto insieme alla polizia e all’esercito di Kabul uno sforzo puntuale e costante per contrastare la presenza degli insorti e proteggere la popolazione. Gli specialisti del genio hanno neutralizzato e distrutto centinaia di ordigni, spesso segnalati dalla popolazione afgana alle forze di polizia locali.

Nei sei mesi del mandato della Taurinense alla guida di RC-W, i quattro PRT presenti nelle province occidentali di Badghis, Farah, Ghowr ed Herat hanno condotto 384 progetti a breve e medio termine che sono stati integrati nei piani di sviluppo delle autorità governative locali. Di speciale importanza è stato l’impegno nel sostenere i programmi governativi di reintegrazione di ex-combattenti nelle comunità di provenienza, che stanno coinvolgendo decine di insorti orientati a deporre le armi. In particolare, il PRT Italiano di Herat ha condotto oltre 130 progetti per un totale di 18 milioni di Euro nei settori dell’istruzione, della sanità, delle comunicazioni e dello sviluppo socio-economico della provincia, triplicando il budget del Ministero della Difesa mediante l’accesso a fondi esteri.

Sul fronte dell’addestramento e della preparazione delle forze di sicurezza afgane, i Carabinieri hanno lavorato intensamente ed efficacemente brevettando oltre 4000 reclute dell’Afghan Civil Order Police, la polizia afgana con caratteristiche spiccatamente militari addestrata presso i centri di Adraskan ed Herat gestiti dai militari dell’Arma. In vista di una sempre maggiore autonomia nel training è stato inoltre lanciato un programma di formazione degli istruttori afgani. La Task Force Grifo della Guardia di Finanza ha contribuito alla formazione specifica dei quadri della polizia di frontiera e delle dogane, impegno di una certa importanza visto che la regione ovest presenta confini di migliaia di kilometri con l’Iran e il Turkmenistan.

L’ottima riuscita della partnership con il 207mo Corpo d’Armata dell’esercito afgano è stata facilitata dall’opera dell’Operational Mentoring and Liaison Team,  l’unità multinazionale a guida italiana che quotidianamente ha accompagnato in operazione e in addestramento tutti i battaglioni afgani schierati nell’ovest del Paese. Un’attività analoga è stata sistematicamente svolta dai Carabinieri del Police Mentoring and Liaison Team nei confronti del comando del 606mo Corpo della polizia di stanza a Herat Tutte le operazioni si sono avvalse dell’apporto di velivoli ad ala fissa e rotante inquadrati in task force statunitensi, spagnole e italiane.

Di notevole importanza è stato il contributo della Joint Air Task Force (JATF) dell’Aeronautica Militare e della Task Force Fenice dell’Aviazione dell’Esercito, che, mettendo in campo una grande gamma di capacità, hanno prodotto centinaia di missioni di ricognizione, scorta, trasporto, aviolancio e osservazione. Gli AMX e i Predator dell’Aeronautica hanno giocato un ruolo di peso nella protezione dei convogli e nel contrasto alla minaccia degli ordigni improvvisati, mentre i Mangusta dell’Esercito hanno svolto un compito essenziale nell’appoggio alle truppe a terra, che sono state rifornite con regolarità grazie ai C130J della JATF e ai CH47 di Fenice, che con gli AB205 e 412 ha inoltre assicurato missioni di collegamento e scorta. Il generale Claudio Berto ha ricordato il sacrificio dei dieci militari italiani caduti in Afghanistan negli scorsi sei mesi, rimarcando “l’intensità delle attività operative e il valore aggiunto dell’approccio italiano che coniuga con successo sicurezza e sviluppo, al servizio del popolo afgano nel processo di normalizzazione del Paese, senza trascurare le comunità e le aree meno avvantaggiate”.

Ma allora le bombe non servono?

Herat, Camp Arena, giornata di TOA ovvero di cambio di contingente per la missione italiana. Dopo sei mesi durissimi, lasciano gli alpini della Taurinense e arrivano, come da programma, quelli della Julia. Un collega fa una domanda al comandante (uscente) dell’RC-West, ovvero dell’area ovest della missione Isaf, ovvero quella a comando italiano. La domanda, rivolta al generale Claudio Berto, riguarda il dibattito (che tanto ha tenuto banco nei giorni destinati al lutto per la morte dei quattro alpini della Julia, uccisi in Gulistan) sull’armamento dei caccia italiani, jet utilizzati per ricognizione e non dotati di bombe; “dotazione” che invece il Ministro La Russa vorrebbe autorizzare non senza polemiche e scetticismi.

Ecco quanto riporta l’Ansa:

Con i caccia Amx armati di bombe ci sarebbe stata maggiore sicurezza per i militari italiani in Afghanistan? Si sarebbero evitate vittime? E’ una ”domanda difficile” alla quale il generale Berto, che per sei mesi ha comandato la regione ovest della missione Isaaf preferisce non rispondere. ”C’e’ pero’ da dire una cosa: che gli assetti aerei non sono mai mancati” a supporto del contingente nazionale. Questo perche’ ogni volta che sono stati chiesti, spiega il generale Berto, ”la Nato ha provveduto” a portare soccorso. ”Per quanto riguarda invece gli elicotteri – aggiunge il generale – il contingente nazionale ha tutti gli assetti necessari per operare autonomamente”

Perchè rischiare vittime civili?

Le salme dei quattro alpini della Julia uccisi a Farah sono arrivate a Ciampino; piove senza sosta a Roma quasi a voler rendere l’atmosfera ancora più cupa. Domani le esequie dei caduti italiani nel lontano Gulistan, ai quali – sono sicuro – va il pensiero di tutti gli italiani, è una magra consolazione per le famiglie ma fa bene saperlo in giorni di retorica più o meno interessata. Eppure il grosso dell’attenzione mediatica è sulle bombe da mettere sui nostri caccia in Afghanistan. Il ministro La Russa è un ministro molto attento alle richieste dei militari, come lo era il suo predecessore Parisi ma con una Rifondazione in meno. Non è una cosa di per sè sbagliata, è come un ministro all’Educazione che tiene a cuore ed ascolta le richieste di professori ed alunni. Durante la conferenza stampa convocata poco dopo la diffusione della notizia della strage del Gulistan, sabato, il ministro La Russa ha parlato anche del tema delle bombe sugli aerei italiani. Non so se l’ha fatto sull’onda dell’emozione o perchè, da navigato politico, pensava che quella sarebbe potuta essere l’occasione giusta per rilanciare un dibattito (da mesi “intestino” alle forze armate) in un momento di grande emotività per l’opinione pubblica.

Sono necessarie le bombe? La risposta probabilmente è sì, sono necessarie. In Afghanistan senza copertura aerea è praticamente impossibile per i militari occidentali tirarsi fuori dai guai, vincere alcune battaglie o almeno “pareggiarle”. Sin’ora i militari italiani sono stati “coperti” nelle operazioni di CAS (close air support) dagli elicotteri d’attacco italiani Mangusta, che però hanno dei limiti (per esempio la velocità d’impiego, quella per arrivare da un punto all’altro) e dai caccia americani. Gli americani però sono sempre più impegnati nell’Helmand e a Kandahar per poter rispondere a tutte le richieste d’intervento e quindi a volte sono “unavailable”. L’Italia ha due predator, aerei senza pilota, disarmati e diversi caccia AMX che hanno sostituito i Tornado, utilizzati prevalentemente in ricognizione ma per i quali è stato poi autorizzato l’utilizzo del cannoncino di bordo. Un’autorizzazione, a quanto pare, simbolica visto che notizie sul suo utilizzo non ne sono mai arrivate, del resto sparare con una mitragliatrice in picchiata da duemila metri è roba da mandrake.

Armare i caccia è una mossa opportuna? La risposta è probabilmente no. La missione italiana sin’ora – per quanto è dato sapere dalle comunicazioni ufficiali, in zona mancano fonti indipendenti – ha fatto registrare una sola vittima civile, la bambina letteralmente decapitata da un colpo di mitragliatrice calibro 50 sulla strada verso l’aeroporto di Herat, nel maggio 2009. Si trattò all’epoca di uno dei tristemente classici (in Afghanistan) incidenti di “escalation of force”: la macchina corre, viene avvertita dall’equipaggio del veicolo militare, non si ferma, i miltari pensano sia un kamikaze…e poi, poi…
Iniziare a bombardare per gli italiani significa correre il serio rischio di entrare nel “settore” delle vittime civili, dal quale sin’ora ci siamo tenuti per fortuna fuori. In Afghanistan, il grosso delle vittime civili uccise dalla coalizione, viene uccisa in bombardamenti aerei, non a caso la prima direttiva di McChrystal riguardava proprio una restrizione all’utilizzo di supporto aereo. Il suo precedessore McKiernan era “saltato” dopo la strage nella provincia di Farah, area a controllo italiano, dove i commando afghani e gli statunitensi avevano ammazzato “per sbaglio” oltre cento innocenti scambiati per talebani. Una brutta storia che il New Times svelò, dopo i tentativi di copertura militare.
Tra l’altro iniziare a bombardare significa farlo non solo per le proprie truppe, di cui magari puoi conoscere lo scrupolo nella richiesta di Cas, ma anche per tutte le altre. E’ giusto correre un rischio del genere? Ne vale la pena? Probabilmente no. Se ne parlerà in Parlamento – leggo – spero se ne parli con cognizione di causa, cosa che sin’ora è raramente avvenuta, preferendo le posizioni ideologiche alla competenza.

Le parole. Torniamo a parlare di “parole”, sulla scia del post di ieri. Ogni volta che c’è stato un caduto nei tempi recenti, il ministro La Russa ha tirato in ballo anche tecnicismi militari. Dopo la morte del parà Alessandro di Lisio, mitragliere di un Lince saltato in aria proprio a Farah, il ministro aveva parlato di torrette blindate per proteggere il mitragliere. E’ una storia esemplare per capire di cosa stiamo parlando: una decina di Lince con torretta modificata (ovvero automatizzata quindi senza mitragliere “esposto” all’esterno) sono arrivati in Afghanistan e – per quanto se ne sa – non sono stati quasi mai usati perchè troppo pesanti, a rischio di “ribaltamento” e soprattutto perchè quello che l’ “uomo in ralla” riesce a vedere non è quello che si “vede” attraverso una telecamera.  Si è poi discusso dei nuovi mezzi Freccia, per poi scoprire l’acqua calda ovvero che non possono sostituire i Lince, proprio come un fuoristrada non può sostituire un pulmino. Ora invece stiamo parliamo di armare i caccia. Non metto in dubbio che lo spirito di fondo sia quello di dare più pezzi e più protezione ai nostri soldati, il punto è che tutti questi tecnicismi allontano il cuore del problema: quella afghana è una guerra e come tale ha dei rischi altissimi, ad ogni blindatura più resistente si risponde con un esplosivo più potente. L’Italia è pronta a correre i rischi di questa guerra? Ad accettarla per quello che è? Oppure di volta in volta, di caduto in caduto, si continuerà a cercare di parlare d’altro, di dettagli magari mediaticamente intriganti ma pur sempre dettagli?

Mettiamo la Freccia

"Freccia" a Shindand
"Freccia" a Shindand

A lungo attesti, i Freccia sono arrivati in Afghanistan. Nella foto (scattata dall’ufficio Pio del comando italiano) se ne vede uno in azione a Shindand, dove opera la Task Force Center ovvero uno dei tre battle group italiani. Il Freccia è un mezzo “digitale” (per via della tecnologia di cui dispone) e può portare fino ad otto militari, più i tre membri dell’equipaggio. Pesa 28 tonnellate e conta su oltre 500 cavalli di potenza. “Una compagnia di Freccia dell’82° Reggimento fanteria “Torino” di stanza a Barletta è attualmente schierata a Shindand, a sud di Herat, in seno alla Task Force Centre, costituita dal 3° reggimento Alpini di Pinerolo – si legge nel comunicato ufficiale – La compagnia partecipa ad operazione di pattuglia e scorta insieme alle compagnie alpine dotate di blindati Lince”. Il Freccia è un mezzo molto sicuro, più del Lince, ma ovviamente ben più limitato – per via di peso e dimensioni – nel suo impiego che (proprio come con i carri Dardo) dovrebbe essere circoscritto al deserto pietroso tra Herat e Farah.

E’ sempre importante sapere che ci si preoccupi di dotare chi rischia la vita di equipaggiamenti all’avanguardia (dell’arrivo dei Freccia ha più volte parlato il Ministro La Russa, anche in coincidenza con fatti tragici come la morte di nostri soldati). E’ anche importante sottolineare (per evitare fraintendimenti nell’opinione pubblica) che nuovi mezzi, per quanto più sicuri, non possono azzerare i rischi della missione afghana, che sin’ora ha sempre confermato la regola che a blindatura maggiore corrisponde una maggiore carica di esplosivo, che a maggior protezione corrisponde un attacco più aggressivo. La logica a spirale della guerra che in Afghanistan pare ancora più amara che altrove.

Rifinanziamento della missione, parla Gino Strada

Mentre in parlamento va avanti l’iter per il rifinanziamento della missione italiana in Afghanistan, parla Gino Strada. Ecco l’intervista tratta da CNR media

Gino Strada, con che animo vive questo nuovo voto del Senato che rifinanzia la missione italiana in Afghanistan?

“Vivo questo voto con l’animo disgustato da questa classe politica, che definisco di delinquenti politici. Perché quando una classe politica, la stragrande maggioranza del parlamento, vota contro la Costituzione del proprio paese, delinque contro la propria Costituzione, quindi il termine è appropriato. Oltre questo c’è lo sdegno per chi non vuol vedere la strage di civili che sta avvenendo in questi giorni, proprio in queste ore, dove si stanno compiendo crimini di guerra inauditi. Non solo si massacrano civili ma si impedisce che i feriti vengano evacuati negli ospedali. Di questo, ovviamente, abbiamo numerose testimonianze, da parte dei pochi che sono riusciti a superare i cordoni che le forze di occupazione hanno disposto intorno ai luoghi dei bombardamenti. Chiediamo ancora, con forza, che si apra un corridoio umanitario per soccorrere la popolazione civile di Marjah”.

Il Ministro La Russa ha detto che i nostri aerei non possono commetteri gli errori fatti dagli americani che hanno bombardato dei civili.

“Al ministro chiedo, e allora cosa sono i nostri, aerei da turismo? Cosa fanno, portano in giro i turisti a vedere i bombardamenti? Cosa ci fanno gli aerei militari in zone dove si sta bombardano? Sono affermazioni ridicole. Piuttosto, possiamo indicare alcuni dei pericolosi terroristi feriti dalle operazioni militari nella zona di Marjah. Feriti, perché i morti non li vediamo. Un ragazzo di 10 anni di nome Fasel, una bambina di 12 di nome Rojah che stava prendendo acqua al pozzo e si è presa una pallottola in un fianco, Said, di 7 anni, con una pallottola nel torace, un bambino di 9 anni di nome Akter che stava guardando dalla finestra quando gli hanno sparato in testa… questi sono i talebani”.

Pensa che nel nostro paese ci sia una percezione reale di quello che succede in Afghanistan?

“I nostri politici non sanno niente dei talebani, non sanno di cosa parlano. Non saprebbero nemmeno indicare l’Afghanistan su una cartina muta. Purtroppo, questa è la gente che prende decisioni costano la vita a tanti afgani. E che costa una quantità di soldi impressionanti agli italiani. Siamo un paese dove si perdono centinaia di migliaia di posti di lavoro e si buttano via centinaia di milioni in una guerra per sostenere questo piuttosto che quel governo afghano. Mi piacerebbe avere un parlamento decente. Sull’Afghanistan continuano a dire agli italiani bugie clamorose, palle gigantesche. L’unica cosa da fare è smettere di sostenere questa classe politica. Io, personalmente, mi rifiuto di andare a votare. Lo farò quando ci saranno politici degni di questo nome”.

Daniele De Luca CNR media 22/02/10

Mazzette ai talebani, la seconda puntata

Il Times di Londra non molla, in ossequio alla sua tradizione (quella di uno dei giornali più prestigiosi ed indipendenti del mondo) pur di fronte alle smentite del governo italiano (che vi ha aggiunto una minaccia di querela), della Nato e dei diretti interessanti (i francesi); oggi il quotidiano britannico pubblica una seconda puntata (qui il link) alla sua denuncia di presunti pagamenti alla guerriglia effettuati dai servizi italiani per comprarsi un po’ di pace nelle aree di operazione delle nostre truppe.

Ieri l’articolo provava a smontare uno dei casi di maggior successo dell’Isaf in Afghanistan, quello di Sorobi (vedi la sintesi in un post di questo blog), affermando che in realtà la pace era stata comprata per giunta senza dirlo agli alleati, causando così indirettamente la strage dei parà francesi appena subentrati agli italiani nell’agosto del 2008.

Oggi, invece amplia il fenomeno estendendolo anche al Rc-West, in pratica all’area dove è concentrato il grosso delle nostre truppe con base ad Herat ma attive anche nelle due difficilissime province di Bala Morghab e Farah. Secondo l’articolo di oggi (vedi una sintesi in italiano qui):

A Taleban commander and two senior Afghan officials confirmed yesterday that Italian forces paid protection money to prevent attacks on their troops.

Mr Ishmayel said that under the deal it was agreed that “neither side should attack one another. That is why we were informed at that time, that we should not attack the Nato troops.” The insurgents were not informed when the Italian forces left the area and assumed they had broken the deal. Afghan officials also said they were aware of the practice by Italian forces in other areas of Afghanistan.

A senior Afghan government official told The Times that US special forces killed a Taleban leader in western Herat province a week ago. He was said to be one of the commanders who received money from the Italian Government. A senior Afghan army officer also repeated the allegation, adding that agreements had been made in both Sarobi and Herat.

Non sono in grado esprimermi sulle accuse del Times
(per giunta rivolte ai servizi più che ai militari italiani), di certo appaiono surrogate da fonti diverse e citano persino intercettazioni telefoniche dei servizi americani, ma è altrettanto sicuro che nell’ovest soprattutto negli ultimi sei mesi (ma ricordiamo anche la scorsa “calda” estate con l’Aeromobile nelle stesse zone) gli italiani sono stati in combattimento quasi ogni giorno, che è un elemento sicuramente contraddittorio rispetto al quadro delineato da questi articoli.

Un’osservazione personale. Fermo restando che la tentazione che potrebbe emergere è quella di derubricare tutto alla voce “pessimi rapporti tra Berlusconi e la stampa internazionale” (insomma che piuttosto di affrontare la questione si dica che è solo frutto di screzi e dispetti) e che, comunque, gli effetti sull’immagine internazionale del nostro premier (quello che lui stesso ha definito lo “sputtanamento”) dopo la vicenda escort, non aiuti a dare forza alle pur categoriche smentite governative. Secondo me il punto di tutta questa storia è però un’altro: c’è bisogno di chiarire tutto e farlo subito, non solo per motivi di decoro nazionale (…perdita della faccia…mettiamola così) ma soprattutto perchè i militati sul campo, quelli che rischiano la vita ogni giorno, possono essere seriamente penalizzati da una storia del genere se non chiarita o lasciata (italicamente) perdere per essere poi dimenticata. Chi si trova in prima linea con addosso accuse del genere rischia di non essere più considerato un buon alleato da chi combatte al suo fianco (afghani, americani, francesi, spagnoli che siano) ovvero rischia di ritrovarsi “isolato” e quindi rischia di rischiare molto di più.

Dalla Folgore alla Sassari, e non solo

Folgore ad Herat, 2 ottobre 2009 np©09
Folgore ad Herat, 2 ottobre 2009 np©09

Nelle prossime settimane, la brigata Folgore lascerà l’Afghanistan al termine del suo turno di dispiegamento iniziato formalmente con il toa (il “trasferimento di autorità” come recita l’acronico inglese) del 4 aprile scorso quando gli alpini della Julia passarono la bandiera della missione proprio ai paracadutisti. Il posto della Folgore verrà preso per i prossimi sei mesi dalla brigata Sassari, i cui effettivi stanno già arrivando da qualche giorno proprio ad Herat.

Ultimo ammaina Bandiera alla Fob di Musahy
Ultimo ammaina Bandiera alla Fob di Musahy ©Pio Kabul 09

In contemporanea, anche con il trasferimento all’Anp (la polizia afghana) della fob “Sterzing” della valle del Musahy, a sud di Kabul, si prepara la “fine” da mesi annunciata della presenza italiana nella capitale, dove la base di Camp Invicta verrà passata al contingente turco. Una scelta che si inquadra nelle necessità di Isaf di presidiare il resto del territorio piuttosto che la capitale affidata alle forze di sicurezza locali.

Il terzo battle group (anche se adesso nella dicitura ufficiale si preferisce chiarmale task force) verrà così trasferito nell’RC-West dove si rafforzerà la presenza nella zona di Shindand, distretto più meridionale e più travagliato della provincia di Herat, per giunta zona pastù in area tagika. Una zona strategica perchè va a colmare sulla “mappa” un vuoto tra la presenza italiana a Farah e le due basi di Herat lungo la ring road (o “highway one”) la strada più importante di tutto l’Afghanistan. Inoltre Shindand, che era una base importantissima per le truppe sovietiche (che per giunta vi hanno lasciato un enorme deposito di munizioni, a lungo mal sorvegliato dalle forze di sicurezza locali…), diventerà il caposaldo sul versante occidentale del paese della ri-nascente aviazione afghana. Al momento non si tratta che di pochi elicotteri e qualche mig, ma ridare al governo afghano il controllo dello spazio aereo è un passaggio chiave per ridurre (in un futuro per ora lontano) la presenza militare straniera nel paese. La presenza italiana a Shindand inizialmente si limitava ad un gruppo di OMLT, i consiglieri militari che addestrano l’esercito afghano del 207esimo corpo d’armata, da luglio però vi opera la task force elettorale messa sù proprio per il periodo del voto (le altre due TF sul terreno sono quella nord e quella sud) e che nei prossimi mesi lascerà il proprio posto alle nuove truppe non più impegnate a Kabul.

Venerdì ad Herat è stato il presidente del Senato, Renato Schifani. Una visita, che ho seguito per il Tg3, e che è stata la prima di un esponente istituzionale dopo il peggior attacco mai subito dal contingente italiano in Afghanistan, quello del 17 settembre. Ad Herat, per l’occasione, c’era anche una rappresentanza del 186mo reggimento della Folgore, che opera a Kabul e di cui facevano parte i sei caduti della airport road.