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Qui Base Afghanistan

La grande assemblea tribale convocata dal presidente Karzai si è conclusa dopo tre giorni di lavori, dei quali gli osservatori occidentali hanno capito molto poco. I meccanismi del potere che si irradiano nella società afghana sono troppo complicati per i non afghani e presuppongono una conoscenza di quel contesto che nessuno (in quest’altra parte del globo) sembra possedere. Per esempio non abbiamo ancora capito se gli anziani, i capi tribali, le donne, gli ex-combattenti e quant’altro chiamati sotto la grande tenda fossero davvero uno spaccato della comunità afghana o solo amici dei Karzai a cui è stata concessa una vacanza a Kabul. Diciamo che (per aggiungere una nota di colore) non sappiamo nemmeno da dove nasca il mito del 39, numero saltato nelle quaranta commissioni della Jirga, perchè in Afghanistan da qualche anno è considerato il numero del “lenone”.

Senza sapere se la Jirga sia stata o meno legittimata a predendere le decisioni che ha preso, non sappiamo quanto gli atti conseguenti che prenderà Karzai saranno davvero condivisi dal popolo afghano.
Di certo Washington è stata accontentata: a condizioni da definire (alias i soldi che la Casa Bianca verserà nelle casse afghane) gli americani potranno restare nel Paese fino al 2014, l’Afghanistan diventerà la più importante base statunitense in questo pezzo di mondo. Posizione strategica per colpire l’Iran, fare paura alla Cina, controllare la “bomba” pakistana. Fanno poco testo le parole di Karzai che, in chiusura di lavori, ha detto che “mai il territorio dell’Afghanistan sarà fonte di minaccia per altre nazioni”.

Del resto Karzai sa che rischia di fare la fine di Najibullah, l’ultimo presidente filo-sovietico, capace di resistere dopo il ritiro dell’armata rossa (l’Isaf si ritira nel 2014) solo grazie agli aiuti militari di Mosca e solo fino a quando quegli aiuti arrivarono. Karzai senza gli Stati Uniti (soldi e potenza di fuoco) a Kabul resterebbe per molto poco.

L’assemblea ha anche “benedetto” (non ha poteri decisionali) la decisione, già presa da anni, di trattare con i talebani. La guerriglia ha già fatto sapere che la Jirga non era altro che una riunione di dipendenti del governo, respingendone le conclusioni.

Venerdi’, Restrepo!

Restrepo - Battle Company in Korengal
Restrepo - Battle Company in Korengal

Per chi riesce a vedere il canale italiano di National Geographic (pacchetto Sky “mondo e culture” o almeno penso si chiami cosi’) quello di stasera e’ un appuntamento da non perdere, in un Paese che ha 4000 soldati in Afghanistan magari qualche bar dovrebbe cancellare dalla lavagna all’esterno “stasera partita di calcio di…” e scrivere “stasera alle 21,10 Restrepo”.

Restrepo e’ il film documentario di Sebastian Junger (“la tempesta perfetta” ma prima ancora lunghi trascorsi afghani con Massoud) e di Tim Hetherington (world press award 2008 per la foto “la stanchezza di un soldato, la stanchezza di una nazione”) girato nel corso del 2007 e di una parte del 2008 con gli uomini della Battle company della 173esima divisione aviotrasportata dell’esercito americano, in un fire outpost ovvero un piccolo fortino assediato (che verra’ poi intitolato ad un caduto, il soldato Restrepo appunto) nella valle della morte, la valle di Korengal. Valle oggi abbandonata dai militari (vedi qui) perche’ era impossibile da controllare e per l’alto numero di caduti e feriti ma anche perche’ le truppe occidental piuttosto che combattere in mezzo al nulla, si stanno concentrando sulle aree piu’ densamente popolate.

Su Restrepo ho scritto un post quasi un anno fa quando ha vinto il premio al Sundance, rinvio a quel post che parlava di come si puo’ raccontare una guerra e raccontarla in maniera anche embed nonostante una certa retorica che, alla fine, fa il gioco di chi vorrebbe le guerre non raccontate affatto.

La valle di Korengal verra’ ricordata nella storia di questa guerra perche’ e’ il luogo in cui si sono materialzzate tutte le contraddizioni e le difficolta militari del combattere in Afghanistan, un monumento all’assurdita del conflitto. In questi giorni sto leggendo “the hidden war” sulla guerra russa in Afghanistan ed i parallelismi con Restrepo sono tanti, la differenza sostanziale e’ che il primo e’ uscito a guerra finita e muro di Berlino caduto. Anche per questo vale la pena di vedere questo documentario sul quale il britannico Indipendent si e’ posto un quesito interessante (vedi qui). Non ho ancora visto (per intero…) Restrepo ma conosco quella valle, conosco quei soldati e le loro storie e so che chi ha avuto la forza e la fortuna di documentare per quasi un anno la loro esperienza nella valle della morte, non puo’ – fosse solo per il materiale girato – che aver eretto un lucido monumento a quanto complesso ed assurdo sia combattere in Afghanistan.

Diario minimo

Ho passato molte ore a leggere una parte, seppur minima, dell’enorme massa di informazioni messe ieri on line da wikileaks.org (qui il data base) con un’inedita collaborazione con tre diverse testate in altrettante giurisdizioni nazionali (per comprenderne il meccanismo si veda questo dettagliato articolo del Guardian) volta ad evitare che le “notizie” si perdessero in questo mare di file che, se stampati, probabilmente occuperebbero decine di scaffali.

La più importante delle rivelazioni contenute in questi documenti mi sembra essere quella sull’imprecisione della TaskForce 373 e sui dubbi di leggitimità sulla suo “scopo sociale” (uccidere capi talebani), per il resto è la conferma (“in the own words” dei militari) di tutta una serie di problemi e di fragilità, tutto sommato noti. Personalmente, tra quello che ho potuto leggere
mi ha molto colpito il diario “minimo” della guerra che emerge da molti di questi rapporti.  Si tratta di piccoli episodi, dai commenti sulla distribuzione di aiuti che entusiasma gli americani (convinti di poter ottenere il supporto della popolazione locale) allo stillicido di attacchi quotidiani che siano contro una scuola, una pattuglia di poliziotti afghani, un gruppo di guardaspalle di politici locali; i racconti dei tanti scontri a fuoco “minori” sino agli attacchi con razzi e colpi di mortaio contro le fob (basi operative avanzate) occidentali. E’ il racconto di una guerra la cui quotidianità, tra disattenzione dei media e le politiche propagandistiche degli uffici stampa militari, svanisce dalle cronache accessibili al pubblico. E’ così che alla gente (se volete ai contribuenti occidentali che questa missione pagano) non arriva che un racconto frammentario del conflitto; racconto che tocca i suoi picchi, sostanzialmente, in occasione di grandi massacri di civili, di vittime militari (soprattutto se della nazionalità di riferimento – quella di chi legge), di visite ufficiali di politici. Un problema generale di tutti i Paesi membri di questa missione (imbarazzante per troppi governi), problema che in un paese come l’Italia è particolarmente evidente. Lo è di meno in America – anche per la sua tradizione di cronaca militare. Anche per questo ho particolarmente apprezzato la scelta del New York Times di pubblicare una di queste storie minori, quella dell’outpost Keating (clicca qui per l’articolo) nell’inaccessibile provincia del Nuristan. Chiunque voglia capire che cosa sia la guerra in Afghanistan dovrebbe leggerlo. Personalmente, nei limiti dei mezzi dati, ho sempre provato a raccontare la guerra nella sua quotidianità, la vita ordinaria dei militari occidentali sul campo. Sono sempre stato convinto che siano queste storie “minori” molto più del giornalismo e dell’opinionismo militante (di ogni versante) a far capire alla gente che cosa sia davvero la missione Afghana e se valga la pena o meno di continuarla. Se navigate dentro i “war diaries” – magari alla caccia della grande notizia che per ora non sembra esserci – non trascurate questi brandelli di storie dal campo. Basta leggerne alcune per capire tutto.

Pietra Tombale

Sarà anche irresponsabile come dice la Casa Bianca pubblicare i 92mila documenti segreti come oggi hanno fatto il New York Times, Der Spiegel e il The Guardian, ma forse è ben più irresponsabile continuare a voler tenere il coperchio sulla pentola in ebollizione di una guerra che è sempre più ingestibile, arrivata com’è ai tempi supplementari, anche e soprattutto grazie alla magnifica strategia degli anni passati di Bush e Rumsfeld. Come è altrettanto irresponsabile, da parte delle fonti governative (americane e non), raccontare all’opinione pubblica internazionale che le cose vanno sì male ma poi non così male come invece si capisce, chiaramente, da questi documenti scritti dai militari in prima persona, ovvero da chi quella guerra combatte a rischio della proprio vita.
Soprattutto se si guarda alla scelta del New Times (ben descritta in questa nota ai lettori) di controllare in dettaglio i documenti, riscontrarne l’autenticità (che del resto il governo americano non mette assolutamente in dubbio in questi primi commenti) e soprattutto di non pubblicare dati sensibili ma non indispensabili a capire il contesto del “racconto” (come per esempio i nomi degli agenti segreti o degli uomini delle forze speciali che operano sul campo come quelli delle fonti afghane – proprio per non metterne in pericolo la vita) si capisce che poi di irresponsabile c’è ben poco.

I dati vengono dall’organizzazione wikileaks.com (vedi qui http://wardiary.wikileaks.org/) che in anticipo rispetto alla pubblicazione di oggi, qualche settimana fa, li ha forniti alle tre testate internazionali – proprio per consentire loro la rielaborazione giornalistica di materiali altrimenti indigesti per la loro enorme mole; farebbero parte dello stock di dati classificati trafugati da un giovane militare americano (attualmente agli arresti in Kuwait, per quanto se ne sa) servendosi semplicemente di un finto cd musicale (in realtà un disco riscrivibile). Dati poi passati – come il video del massacro iracheno dei due giornalisti Reuters e di diversi civili – proprio a wikileaks.org
A proposito se vi trovare a Londra, martedì 27 il fondatore dell’organizzazione sarà ospite del FrontLine Club per una conferenza che si preannuncia interessante. Julian Assange è stato per mesi in fuga in giro per il mondo, proprio per prepare la diffusione di questi documenti e di un’altra vasta quantità dei quali non si sa ancora nulla.

Non ho avuto ancora il tempo di leggere nel dettaglio almeno una parte dei documenti, delle fonti originali (che riserveranno probabilmente anche qualche commento e qualche notizia sull’attività dei militari italiani), ma le sintesi giornalistiche (qui il dossier del NY Times, qui quello del The Guardian, e quello di Der Spiegel – purtroppo per me solo in tedesco) sono molto interessanti ed utili per navigare nel mare magnum di questi rapporti classificati. Sostanzialmente, i filoni delle”rivelazioni” sono quattro e riguardano tutti i punti criciti della guerra in Afghanistan: le vittime civili; l’utilizzo modello far west delle forze speciali; il ruolo dei servizi segreti Pakistan; la guerra delle ied. A prescindere dal racconto che ne emerge (perchè a tratti si legge come un racconto fatto da inconsapevoli protagonisti) queste rivelazioni potrebbero essere ricordate più che per quello che rappresentano di per sè, come un colpo al governo americano già alle prese con non pochi problemi interni. Ovvero come una pietra tombale sull’idea che questa guerra si possa raddrizzare o come ritiene il generale Petraeus che la dottirna McChrystal sia sì buona ma applicata male sin’ora.
Resta ovviamente l’interrogativo sul che fare in Afghanistan, ma leggo in giro (come sul Financial Times di qualche giorno fa) che iniziano ad emergere soluzioni fantasiose come la scissione del sud, elemento base di un costituendo Pashtunistan. La confusione mi sembra essere l’unica certezza, ora che – applicata seppur parzialmente la nuova strategia di Obama – la situazione peggiora invece che migliorare e non c’è più nemmeno la speranza di un anno fa, ovvero che le nuove direttive, le nuove idee potessero capovolgere il quadro del conflitto.

La lezione di Tora Bora – “Rewind”

All’epoca – erano l’autunno del 2001 – i bombardieri americani falciavano i talebani a centinaia e di lì a poco sarebbero finiti (ricamati con la loro scia di bombe) sui tappeti made-in-china venduti in molti negozi afghani: icona di un trionfo.
Con un pugno di uomini delle forze speciali sul terreno per fare “laser painting” degli obiettivi e tanta forza aerea a bombardare seguendo quelle tracce laser, la dottrina Rumsfeld di “economy of force” si stava dimostrando un successo totale – uno “stato canaglia” (anche se forse all’epoca questa definizione non era stata ancora coniata) veniva sconfitto a costi ridotti e in meno di un mese. Insomma guerra da discount, con la qualità di un negozio di grandi marche…

In questo quadro da riscossa post-11 settembre (o almeno così era stata venduta al mondo, oscurando i dubbi di molti sui pericoli di ogni campagna afghana) era sembrata poca roba il fallimento di Tora Bora. Un nome che molti ricordano per la sua musicalità (sembrava quasi scelto apposta dagli uomini del marketing della Casa Bianca per fare da palcoscenico al trionfo finale) e per l’assedio all’estremo rifugio di Bin Laden, conclusosi con (quasi sicuramente) la fuga di Bin Laden al termine di un assedio con più giornalisti sul campo (un centinaio) che militari americani (una settantina).
Di Tora Bora di recente si è tornare a parlare perchè quella sconfitta, all’epoca liquidata come un dettaglio (“…e poi mica era certo che lì ci fosse Bin Laden” – la scrollatina di spalle di fonti dell’amministrazione Usa) è diventata un modello da analizzare per capire il fallimento militare statunitense nel paese. Il senatore (democratico ex-candidato anti-Bush) John Kerry di recente ha denunciato la “sconfitta” di Tora Bora, attraverso il rapporto della commissione parlamentare affari esteri; definita come un fallimento della strategia di “economy of force”. Un assist al presidente Obama che di lì a pochi giorni avrebbe presentato la sua escalation militare e l’aumento di truppe nel paese (qui, l’intervento di Kerry sull’LA Times). In realtà si è parlato molto di questo rapporto perchè per la prima volta c’è un’ammissione ufficiale del fatto che Bin Laden sia scappato all’epoca e non morto in qualche oscuro recesso della montagna. A me, però, la storia sembra interessante per motivi più vasti.

Ma al di là della politica
, per rileggere Tora Bora oggi c’è una grande occasione, il saggio scritto da Peter Berger per The New Repubblic, Bergen è l’analista sul terrorismo della Cnn, autore anche di alcuni libri (uno di questi disponibile anche in italiano).  Chi non conosce le difficoltà del terreno dell’Afghanistan orientale (il complesso di grotte si trova nella provincia di Nangharar) e a maggior ragione chi lo conosce dovrebbe leggere questo saggio. Quella di Tora Bora è una storia esemplare delle difficoltà afghane (in generale, compresa la corruttibilità delle truppe locali e l’odio inter-etnico e tra fazioni) e di come l’atteggiamento americano (mi riferisco alle scelte strategiche della Casa Bianca) abbiano trasformato una guerra vinta facilmente nell’incubo di oggi.
E per chi volesse saperne di più, c’è “Kill Bill Laden” scritto da Dalton Fury, pseudonimo di un commando della delta force che a Tora Bora ha combattuto. Il libro è uscito alla fine del 2008 ben prima di Bergen e Kerry, ma forse all’epoca l’Afghanistan interessava ancora a pochi. Purtroppo…

Addio alla valle della morte

Korengal, postazione mortai np©08
Korengal, postazione mortai np©08

La fob e le firebases nella valle di Korengal dovrebbero chiudere a gennaio; quella “maledetta valle” il luogo più iconico e dannato della guerra in Afghanistan verrà presto abbandonato dalle truppe americane. La cosa non sarà indolore e presumibilmente la destra repubblicana monterà non poche polemiche sulla strategia Obama in Afghanistan. La valle di Korengal è uno dei paesaggi montani più belli del mondo ma anche una valle (in realtà una sorta di frattura in mezzo a montagne altissime) dove si registrano i combattimenti più intesi di tutto l’Afghanistan, poco distante dalla valle del fiume Pech, nella provincia di Kunar.

Korengal è diventata famosa perchè lì è possibile “vedere” combattimenti che solitamente avvengono in ambienti e con modalità ben diverse. E’ l’ambiente montano che lo consente ed è ha “favorito” giornalisti, fotografi e crew televisive che ne hanno fatto il simbolo di un conflitto. Qui è stata scattata – un esempio su tutti – la foto che ha vinto il world press award del 2007, quella di Tim Hetherington sulla stanchezza di un uomo, la stanchezza di una nazione. Personalmente, sono profondamente legato alla valle di Korengal per le emozioni di una straordinaria esperienza umana e professionale che lì ho vissuto nel 2008 con il collega Gianfranco Botta del Tg3. Tra l’altro e’ stato un privilegio andarci e quest’anno eravamo stati “ammessi” di nuovo ma l’elicottero che doveva portarci lì sù aveva un ritardo di soli tre giorni…Un privilegio perchè la popolarità della valle è diventata tale che tutti gli embed in Rc-East ci vogliono andare ma troppi vengono considerati “trouble-maker” dai militari (ragionamento fatto in via informale dai comandanti sul campo), ovvero gente che cerca l’azione per l’azione (leggi i combattimenti) e che quindi potrebbe mettere a rischio non solo se stessi ma soprattutto gli uomini che accompagnano.

La notizia su Korengal l’ho appresa da fonti militari durante il mio embed con la 4rta divisione di fanteria nel settembre scorso, non c’è conferma ufficiale al riguardo ma si tratta di un passo in una strategia più ampia, che nei giorni scorsi ha già riguardato alcuni avamposti nel Nuristan, chiusi. Strategia che viene ben descritta da questo articolo del NY Times di oggi. In pratica, McChrystal vuole concentrarsi sulle zone ad elevata densità di popolazione per garantire loro sicurezza, per esempio nell’afghanistan orientale su Jalalabad e la sua provincia.

Tenere uomini in piccoli e remoti avamposti significa affrontare incredibili problemi logistici (rifornirli è possibile solo con gli elicotteri ed sempre più complicato via via che la guerriglia diventa più forte), esporre i soldati in una sorta di fort Alamo permanentemente sotto attacco e poi soprattutto non cambiare la vita di valli che da secoli sono isolate e vogliono restare isolate. Valli dove per giunta controllare il terreno (ostile e scosceso) è impossibile o meglio ci vorrebbero il quadruplo degli uomini impegnati…altro che una compagnia o un plotone! Insomma il gioco ormai è quello a valorizzare il rapporto tra unità combattenti per numero di abitanti, abbandonando valli che la guerriglia – senza dubbio – usa come rifugi, ma dove con o senza avamposti la situazione cambia poco e la gente non si schiera e forse non si schiererà mai con il governo, un concetto estraneo in luoghi tanto remoti.

Queste aree remote verrebbero sorvegliate da droni e operazioni di forze speciali, in pratica replicando il modello (sin’ora di parziale successo) degli attacchi ai campi di Al Qaeda in Pakistan. Unica eccezione al rapporto tra numero di abitanti e truppe, sarà la valle dell’Helmand ritenuta troppo strategica (fonte di oppio e chiave per il controllo degli spostamenti nella zona). E’ evidente che tutta questa strategia non potrà essere attuata senza un aumento consistente delle truppe proprio come chiede McCrhrystal.

Ad integrazione di questo articolo segnalo questo pezzo del Washington Post che racconta come alla Casa Bianca il ragionamento sul numero di truppe aggiuntive da mandare in Afghanistan si stia basando proprio sull’analisi del territorio e la distribuzione della popolazione nelle diverse province