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Diario minimo

Ho passato molte ore a leggere una parte, seppur minima, dell’enorme massa di informazioni messe ieri on line da wikileaks.org (qui il data base) con un’inedita collaborazione con tre diverse testate in altrettante giurisdizioni nazionali (per comprenderne il meccanismo si veda questo dettagliato articolo del Guardian) volta ad evitare che le “notizie” si perdessero in questo mare di file che, se stampati, probabilmente occuperebbero decine di scaffali.

La più importante delle rivelazioni contenute in questi documenti mi sembra essere quella sull’imprecisione della TaskForce 373 e sui dubbi di leggitimità sulla suo “scopo sociale” (uccidere capi talebani), per il resto è la conferma (“in the own words” dei militari) di tutta una serie di problemi e di fragilità, tutto sommato noti. Personalmente, tra quello che ho potuto leggere
mi ha molto colpito il diario “minimo” della guerra che emerge da molti di questi rapporti.  Si tratta di piccoli episodi, dai commenti sulla distribuzione di aiuti che entusiasma gli americani (convinti di poter ottenere il supporto della popolazione locale) allo stillicido di attacchi quotidiani che siano contro una scuola, una pattuglia di poliziotti afghani, un gruppo di guardaspalle di politici locali; i racconti dei tanti scontri a fuoco “minori” sino agli attacchi con razzi e colpi di mortaio contro le fob (basi operative avanzate) occidentali. E’ il racconto di una guerra la cui quotidianità, tra disattenzione dei media e le politiche propagandistiche degli uffici stampa militari, svanisce dalle cronache accessibili al pubblico. E’ così che alla gente (se volete ai contribuenti occidentali che questa missione pagano) non arriva che un racconto frammentario del conflitto; racconto che tocca i suoi picchi, sostanzialmente, in occasione di grandi massacri di civili, di vittime militari (soprattutto se della nazionalità di riferimento – quella di chi legge), di visite ufficiali di politici. Un problema generale di tutti i Paesi membri di questa missione (imbarazzante per troppi governi), problema che in un paese come l’Italia è particolarmente evidente. Lo è di meno in America – anche per la sua tradizione di cronaca militare. Anche per questo ho particolarmente apprezzato la scelta del New York Times di pubblicare una di queste storie minori, quella dell’outpost Keating (clicca qui per l’articolo) nell’inaccessibile provincia del Nuristan. Chiunque voglia capire che cosa sia la guerra in Afghanistan dovrebbe leggerlo. Personalmente, nei limiti dei mezzi dati, ho sempre provato a raccontare la guerra nella sua quotidianità, la vita ordinaria dei militari occidentali sul campo. Sono sempre stato convinto che siano queste storie “minori” molto più del giornalismo e dell’opinionismo militante (di ogni versante) a far capire alla gente che cosa sia davvero la missione Afghana e se valga la pena o meno di continuarla. Se navigate dentro i “war diaries” – magari alla caccia della grande notizia che per ora non sembra esserci – non trascurate questi brandelli di storie dal campo. Basta leggerne alcune per capire tutto.

Pietra Tombale

Sarà anche irresponsabile come dice la Casa Bianca pubblicare i 92mila documenti segreti come oggi hanno fatto il New York Times, Der Spiegel e il The Guardian, ma forse è ben più irresponsabile continuare a voler tenere il coperchio sulla pentola in ebollizione di una guerra che è sempre più ingestibile, arrivata com’è ai tempi supplementari, anche e soprattutto grazie alla magnifica strategia degli anni passati di Bush e Rumsfeld. Come è altrettanto irresponsabile, da parte delle fonti governative (americane e non), raccontare all’opinione pubblica internazionale che le cose vanno sì male ma poi non così male come invece si capisce, chiaramente, da questi documenti scritti dai militari in prima persona, ovvero da chi quella guerra combatte a rischio della proprio vita.
Soprattutto se si guarda alla scelta del New Times (ben descritta in questa nota ai lettori) di controllare in dettaglio i documenti, riscontrarne l’autenticità (che del resto il governo americano non mette assolutamente in dubbio in questi primi commenti) e soprattutto di non pubblicare dati sensibili ma non indispensabili a capire il contesto del “racconto” (come per esempio i nomi degli agenti segreti o degli uomini delle forze speciali che operano sul campo come quelli delle fonti afghane – proprio per non metterne in pericolo la vita) si capisce che poi di irresponsabile c’è ben poco.

I dati vengono dall’organizzazione wikileaks.com (vedi qui http://wardiary.wikileaks.org/) che in anticipo rispetto alla pubblicazione di oggi, qualche settimana fa, li ha forniti alle tre testate internazionali – proprio per consentire loro la rielaborazione giornalistica di materiali altrimenti indigesti per la loro enorme mole; farebbero parte dello stock di dati classificati trafugati da un giovane militare americano (attualmente agli arresti in Kuwait, per quanto se ne sa) servendosi semplicemente di un finto cd musicale (in realtà un disco riscrivibile). Dati poi passati – come il video del massacro iracheno dei due giornalisti Reuters e di diversi civili – proprio a wikileaks.org
A proposito se vi trovare a Londra, martedì 27 il fondatore dell’organizzazione sarà ospite del FrontLine Club per una conferenza che si preannuncia interessante. Julian Assange è stato per mesi in fuga in giro per il mondo, proprio per prepare la diffusione di questi documenti e di un’altra vasta quantità dei quali non si sa ancora nulla.

Non ho avuto ancora il tempo di leggere nel dettaglio almeno una parte dei documenti, delle fonti originali (che riserveranno probabilmente anche qualche commento e qualche notizia sull’attività dei militari italiani), ma le sintesi giornalistiche (qui il dossier del NY Times, qui quello del The Guardian, e quello di Der Spiegel – purtroppo per me solo in tedesco) sono molto interessanti ed utili per navigare nel mare magnum di questi rapporti classificati. Sostanzialmente, i filoni delle”rivelazioni” sono quattro e riguardano tutti i punti criciti della guerra in Afghanistan: le vittime civili; l’utilizzo modello far west delle forze speciali; il ruolo dei servizi segreti Pakistan; la guerra delle ied. A prescindere dal racconto che ne emerge (perchè a tratti si legge come un racconto fatto da inconsapevoli protagonisti) queste rivelazioni potrebbero essere ricordate più che per quello che rappresentano di per sè, come un colpo al governo americano già alle prese con non pochi problemi interni. Ovvero come una pietra tombale sull’idea che questa guerra si possa raddrizzare o come ritiene il generale Petraeus che la dottirna McChrystal sia sì buona ma applicata male sin’ora.
Resta ovviamente l’interrogativo sul che fare in Afghanistan, ma leggo in giro (come sul Financial Times di qualche giorno fa) che iniziano ad emergere soluzioni fantasiose come la scissione del sud, elemento base di un costituendo Pashtunistan. La confusione mi sembra essere l’unica certezza, ora che – applicata seppur parzialmente la nuova strategia di Obama – la situazione peggiora invece che migliorare e non c’è più nemmeno la speranza di un anno fa, ovvero che le nuove direttive, le nuove idee potessero capovolgere il quadro del conflitto.

Pietre (e teste) rotolanti

Sembra un dejavù, eppure è tutto vero. Era circa un anno fa quando dalla Casa Bianca arrivava la scelta di fare fuori il capo della missione militare in Afghanistan, il generale McKiernan dopo l’ennesima strage di civili (avvenuta nell’italiano comando di nord-ovest). Obama voleva cambiare pagina, voleva persone nuove al comando capaci di dare un segno di discontinuità e attuare una nuove strategia per l’Afghanistan, la sua – quella sbandierata in campagna elettorale. Ecco perchè decise di fare come Truman durante la guerra di Corea e sostituì, senza troppi complimenti, McKiernan con McChrystal (vedi qui). Oggi, tredici mesi dopo, è McChrystal ad essere rimosso o meglio a vedere accolte “le sue dimissioni”. Eccole nella lettera che il comando Isaf da Kabul si è affrettato a distribuire nel rispetto della forma ma di fronte ad una sostanza che è ben diversa:

Statement by General Stanley McChrystal

This morning the President accepted my resignation as Commander of U.S. and NATO Coalition Forces in Afghanistan. I strongly support the President’s strategy in Afghanistan and am deeply committed to our coalition forces, our partner nations, and the Afghan people. It was out of respect for this commitment — and a desire to see the mission succeed — that I tendered my resignation.

It has been my privilege and honor to lead our nation’s finest.

Il motivo della cacciata di McChrystal, che probabilmente lo porterà alla pensione visto che la sua carriera militare è virtualmente finita, è  in questo articolo (The Runaway General) pubblicato il 22 giugno dal magazine americano “Rolling Stones” dopo un mese trascorso al seguito del generale da Michael Hasting (suo il non-imperdibile libro autobiografico I Lost My Love in Baghdad: A Modern War Story). Un articolo che ha il merito di mettere tra virgolette, ovvero con citazioni testuali, le tensioni nel vertice che dovrebbe governare la strategia afghana alias le già note e/o sospettate tensioni tra McChrystal e il vicepresidente Biden, l’ambasciatore americano Eikenberger e Holbroke l’inviato di Obama per l’area Af-Pak. Cose intuite e intuibili da mesi ma è tutta un’altra storia leggerle in questa esclusiva corrispondenza dall’interno del ristretto gruppo di lavoro del generale più potente del mondo (ormai ex). Senza considerare l’aggiunta delle critiche al presidente (“comandante in capo” di tutti i militari americani, McChrystal incluso). I modi spicci e le frasi dove “shit” diventa il sinonimo pressochè di qualsiasi cosa, fanno parte della cultura dalla quale proviene McChrystal – quella delle forze speciali e – francamente – non mi fanno molta impressione anche se hanno sollevato il grosso del clamore negli Stati Uniti molto attenti alla forma quando è sinonimo di disciplina. Il punto critico dell’intera vicenda, a mio avviso, è quello di un quadro dove la Casa Bianca e i suoi uomini sono ridotti a controfigure (ben al di là dell’immaginabile) e “tutto il potere” è finito nelle mani di un solo uomo che lo utilizza con la spregiudicatezza di una “special op forces” ma senza la statura istituzionale dovuta alla gravità del caso.
Inattesa (vedi per esempio qui tra gli articoli della vigilia) ma inevitabile la rimozione di McChrystal da parte di un presidente mai apparso così debole (complice il caso BP e le passeggiate solitarie sulle spiagge del Golfo). Il punto però adesso è un altro ovvero cosa sarà della strategia afghana di McChrystal? Obama si è affrettato a dire che non cambierà (vedi qui) ma McChrystal non ha solo comandato la missione afghana come accaduto ai suoi predecessori, l’ha anche profondamente rimodellata nel bene e nel male. Per esempio, aumentando la presenza sul territorio e quindi i combattimenti, restringendo in maniera estrema le norme sui bombardamenti aerei e mettendo al centro di ogni azione, il ruolo della popolazione locale. Insomma, la sostituzione di McChrystal non è cosa facile anche se non è di certo di basso profilo la scelta del suo sostituto, il generale Petraeus, il re delle flessioni risbattuto da Tampa, Florida, nel mezzo di un nuovo caos come quello afghano ben diverso dal conflitto iracheno da cui era uscito “vincitore”. Petraeus è in parte ispiratore della strategia di McChrystal ma non sarà facile per lui indossare un abito su misura, cucito per qualcun altro. Tutto ciò non farà altro che sottrarre tempo a scelte cruciali che dovranno essere prese a breve, a cominciare da una valutazione obiettiva di questi mesi di aumento delle truppe e della presenza militare straniera, voluta proprio da McChrystal e in qualche modo estorta alla Casa Bianca con la vicenda di quel rapporto segreto del generale recapitato al Washington Post – vicenda che oggi assume tutto un altro valore.

La maledizione dell’Afghanistan sembra colpire ancora, qualunque Paese straniero si ritrova impegnato in quel Paese finisce con il ritrovarsi destabilizzato al suo interno

Un’ultima osservazione, il lungo articolo di RS merita di essere letto anche perchè racconta aspetti sin’ora inediti del personaggio McChrystal, della cui carriera si sa molto poco; carriera solitamente aggettivata come shady – per via del suo ruolo al vertice delle forze speciali – è in buona parte coperta da quello che in Italia chiameremmo segreto di Stato.

Colpo diplomatico

Tra le righe di un articolo del New York Times di oggi spicca, chiara e tonda, una critica alla diplomazia italiana in Afghanistan. Critica riferita al suo periodo d’oro, conclusosi da poco, quando nostri ambasciatori occupavano alcuni tra i posti chiave della missione internazionale. Questo articolo racconta (non senza entusiasmo) di una nuova figura che sta emergendo nel panorama diplomatico afghano, ovvero quella di Mark Sedwill, nuovo rappresentate civile della Nato nel paese. Il diplomatico britannico viene descritto come una figura molto dinamica capace di rapportarsi bene al Generale McChrystal e di completarne la strategia sul versante civile e della ricostruzione – pare di capire – anche inserendosi nella diatriba tra McChrystal e un altro (ex) generale, l’attuale ambasciatore americano in Afghanistan, Eikenberry che proprio sul lato “civile” dovrebbe supportare McChrystal se con lui non avesse troppi disaccordi.
Nell’articolo, compare un passaggio sul predecessore del diplomatico britannico: Mr. Sedwill expanded what had been a sleepy NATO civilian operation under his predecessor, Fernando Gentilini, an Italian diplomat. Mr. Gentilini had a staff of just 6 people; under Mr. Sedwill, the staff is expanding to 24, drawn from the United States, Britain, Denmark, Canada and Australia.

L’articolo continua descrivendo le capacità di Sedwill
nel mettere in discussione il lavoro di ogni paese dell’alleanza sul fronte della ricostruzione, una buona notizia di certo (se l’attitudine porterà a qualcosa di concreto), ma se letta assieme alla definizione di “sonnachioso”
per il “nostro” precedente mandato…beh, l’Italia non ne esce bene da questo articolo della stampa americana. In realtà, l’Italia è già uscita male dalla partita diplomatica afghana quando non è stata in grado di difendere la “titolarità” dell’ambasciata (chiamiamola così per brevità) europea in Afghanistan, retta fino a marzo da Ettore Sequi (molto rispettato nel panorama politico afghano e in quello delle diplomazia dell’orbita della missione) oggi sostituito da un omologo lituano – scelto sicuramente (?) anche sulla base del contributo nazionale alla missione in Afghanistan dove i lituani hanno ben 170 militari nella remota (quanto affascinante, in vero) e nient’affatto strategica provincia di Ghwor…A proposito, le truppe lituane a breve dovrebbero aumentare di venti unità. L’Italia si appresta ad averne sul campo quasi quattromila a partire dalle prossime settimane.

Forze poco speciali

Qualche giorno fa avevo scritto di quella che poteva sembrare solo una riorganizzazione formale della struttura di comando Nato ed Enduring Freedom, struttura che veniva unificata ma – al momento dell’annuncio – non era ancora chiaro come.  In Afghanistan operano due missioni militari distinte Isaf (a guida Nato, della quale fa parte la maggioranza delle truppe americane) ed Enduring Freedom (ben più piccola e praticamente solo americana, con compiti di caccia a Bin Laden e compagnia), un fatto che ha causato non pochi problemi e molta confusione. Le due missioni, da anni sono però sotto il comando di uno stesso generale che viene scelto tra i quattro stelle delle forze armate americane, quindi c’era da capire bene cosa questa nuova riorganizzazione significasse in termini pratici.

Il New York Times in questo articolo sostiene che la riorganizzazione tocca il cuore del problema, ovvero unifica anche il comando delle forze speciali americane a cui si devono molti degli episodi più tragici (vedi il recente bombardamento nella provincia di Uruzgan di un convoglio di civili) e che di fatto operano secondo le proprie regole e non si coordinano con le forze convenzionali che magari scoprono solo all’ultimo minuto di operazioni in corso. McChristal è probabilmente l’unico generale che avrebbe potuto compiere un passo del genere visto il suo (misterioso) passato tra le forze speciali. Per approfondire l’analisi del cambio di struttura vedi anche qui

Guerriglia contro guerriglia nel Nord

Marjah ©Isaf 2010
Marjah ©Isaf 2010

Mentre Karzai, in una delle sue rarissime uscite dalla capitale (o meglio dal suo palazzo), visita quella Marjah appena riconquistata dagli occidentali per conto dell’esercito afghano e si sente fare “incredibili” richieste dagli anziani incontrati nella moschea (sanità, scuole e l’intervento delle truppe afghane non della polizia nè degli americani per le perquisizioni notturne delle case), nella provincia di Baghlan sta succedendo qualcosa di molto comune nella storia afghana ma assolutamente nuovo nella storia recente della guerriglia anti-governativa. Da ieri “higs” ovvero combattenti di Hibz-e-Islami, la potente fazione anti-governativa guidata dal signore della guerra Heckmatyar (“l’ingegnere”), si stanno scontrando con un gruppo talebano.
Ci sarebbero sin’ora una sessantina di arresti effettuati dai talebani (higs finiti in manette – higs è il nomignolo utilizzato dagli americani per indicare i combattenti di questa fazione) e una cinquantina di vittime, tra le quali al solito anche civili. Si sa ben poco, in realtà, di quello che sta succedendo ma il motivo dello scontro potrebbe essere l’incasso delle tasse che la guerriglia impone sui villaggi dove non c’è controllo da parte del governo. La provincia di Baghlan è strategica per la sua posizione lungo la principale strada che collega la capitale con il nord del Paese.

Intanto mentre emerge il racconto di un “miracolo” afghano (un pilota britannico di CH-47 impegnato in un evacuazione medica, atterrato in mezzo ad una battaglia e colpito alla testa da un proiettile fermatosi nel suo casco – storia emersa perchè a bordo c’era un documentarista di Discovery Channel), c’è una notizia la cui portata sembra sfuggita ai più forse perchè necessità di ulteriori chiarimenti. Su proposta del generale Petraeus, capo del Centcom, il generale McChrystal che guida la missione Isaf ed ha reinventato la dottrina militare occidentale nel paese vedrà la propria autorità crescere e sarà il primo comandante delle due missioni (Isaf ed Enduring Freedom) ad avere praticamente il controllo di tutte le truppe in campo con alcune piccole eccezioni, per esempio le forze speciali americane. Potrebbe essere un passo avanti nel chiarire la confusione tra missioni diverse sullo stesso terreno, ma bisognerà comprendere bene la portata della decisione. A proposito di McChrystal, ecco la sua prima intervista ad un quotidiano italiano.

Nella provincia di Helmand ©Isaf 2010
Nella provincia di Helmand ©Isaf 2010

Sempre McChrystal, a  cui va riconosciuto il merito di aver individuato e corretto molti degli errori strategici della missione occidentale, ha finalmente emesso (dopo quella del luglio scorso sui bombardamenti aerei) una nuova direttiva sui cosiddetti night-raids, le perquisizioni notturne che tanta rabbia hanno creato tra la popolazione afghana.
Secondo la nuova direttiva, azioni del genere dovranno essere condotte solo in presenza di truppe afghane che dovranno essere le prime ad entrare nelle case e e con la presenza personale femminile per eventuali perquisizioni di donne.

“In the Afghan culture, a man’s home is more than just his residence … He has been conditioned to respond aggressively in defense of his home and his guests whenever he perceives his home or honor is threatened,” scrive McChrystal “In a similar situation most of us would do the same.”

Talebani declassificati e talebani scrittori

Inizia la conferenza di Londra, un appuntamento decisivo per il (faticoso ed incerto) futuro della strategia occidentale in Afghanistan, una guerra (o se volete una missione) sempre più impopolare in America; per non parlare dell’Europa dove lo è sempre stata. In questi mesi, segnati dalla decisione di Obama di rafforzare la strategia civile (“ricostruzione” a cominciare dall’agricolutra) ma soprattutto di mandare più truppe in campo secondo la dottrina McChrystal, si è lavorato ad un punto d’accordo con gli alleati europei, il cui contributo è necessario non solo in termini numerici (o meglio di piazzamento sul territorio afghano) ma anche in termini politici per dare corpo al concetto che la Casa Bianca ha ripetuto a lungo ai propri elettori; ovvero che quella in Afghanistan non è una guerra solo americana ma di tutto il mondo occidentale.

In pratica il punto d’accordo trovato con gli alleati europei è quello di aumentare le truppe (dopo oltre un anno di tira e molla, la Germania ha appena deciso un aumento di 500 unità – la Francia non manderà altre unità combattenti ma non esclude l’invio di unità aggiuntive – l’Italia è da tempo il paese che ha dato la risposta più chiara alla richiesta americana con 1000 effettivi in più) ma iniziando, in contemporanea, a parlare di ritiro. Insomma la stessa cosa che ha fatto Obama annunciando aumento delle truppe e ritiro dal (sottolineo dal non nel) 2011 – data per giunta parzialmente smentita da molti a cominciare dal segretario alla difesa Gates.

Non casualmente ospitata dal paese che più di tutti soffre l’impegno afghano (destinato a lasciare strascichi di anni in un Regno Unito già piegato dalla crisi), la Conferenza di Londra sarà dedicata soprattutto al tema della pace. Al centro del dibattito ci sarà la strategia di reintegrazione (vedi un post di questo blog), in qualche modo “sacramentata” da un’intervista del generale McChrystal di pochi giorni fa al Financial Times. E’ in questo quadro che va inserita la decisione di oggi delle Nazioni Unite di eliminare dalla lista delle sanzioni (una sorta di black list post-11 settembre) cinque esponenti dell’ex-regime talebano che non oggi non combattono ma (aggiungiamo noi) sarebbero molto utili per condurre trattative e in parte vi sono già stati coinvolti (in particolare Mutawakil). Ecco chi sono:

  • Abdul Wakil Mutawakil – ministro degli esteri durante il governo dei talebani
  • Faiz Mohammad Faizan – viceministro al commercio
  • Shams-us-Safa – esponente del ministero degli esteri
  • Mohammad Musa – viceministro della pianificazione
  • Abdul Hakim – viceministro alle frontiere

Speriamo che non facciano la fine di quegli esponenti (ex-)talebani, sin’ora ospitati dal governo di Kabul e tenuti sostanzialmente a bagnomaria, “inutilizzati” nonostante possano essere utilissimi. Tra loro c’è un talebano di primo piano, ambasciatore in Pakistan e vero portavoce del regime (vedi l’annuncio che Bin Laden non sarebbe stato consegnato agli americani). Ho incontrato Abdul Salam Zaeef nel 2007 (poco più di una anno dopo il suo rilascio da Guantanamo), alla periferia di Kabul dove vive sotto-protezione o agli arresti domiciliari (come al solito in Afghanistan è sempre complesso capire le cose). In una breve intervista (non l’unica nè la prima concessa ad i media internazionali, la prima ad una tv italiana) in pratica delineò tutti i temi della possibile pace con i talebani, idee generali di cui oggi si torna a parlare ma ignorate a lungo.
L’anno scorso Zaeef ha avuto un altro momento di popolarità mediatica grazie alla sua passione per l’iPhone ma in realtà ha passato gli ultimi due anni a scrivere. Anche per questo non vedo l’ora di mettere le mani sul suo libro “my life with the Taliban” (“La mia vita con i Talebani”). In uscita il primo febbraio, con un operazione di promozione notevole e con importanti editori alle spalle. Il suo primo libro “una fotografia di Guantanamo” – per quanto mi risulti – è uscito solo in pashtù.

Un ballottaggio “sballottato”

Come era facile prevedere (vedi qui e altri post di questo blog) il ballottaggio per l’elezione del presidente dell’Afghanistan non si terrà o se mai si dovesse svolgere non sarà che un proforma. Diventato quest’estate, a sorpresa, l’avversario più quotato del presidente Karzai, arrivato al secondo turno grazie alla revisione del voto che – durata più o meno due mesi – ha tolto a Karzai causa brogli oltre 5 punti percentuale, il Dr. Abdullah questa mattina si è ritirato dalla competizione. Nei giorni scorsi aveva chiesto la rimozione dei funzionari coinvolti nei brogli oltre al presidente della commissione elettorale. Non ritiene che ci siano le condizioni per un processo elettorale affidabile.

In realtà tecnicamente Abdullah non può ritirarsi nè ha chiesto ai suoi sotenitori di boicottare il voto ma la sua uscita di oggi ha un forte valore politico perchè toglie a Karzai la possibilità di riaccreditarsi politicamente. In particolare gli americani hanno voluto il ballottaggio affinchè Karzai ne potesse uscire rilegittimato dopo i brogli estivi che hanno minato un presidente già a corto di autorità ed autorevolezza. Un ballottaggio che tutti sapevano non si sarebbe svolto ma – si ipotizzava – grazie ad un accordo di coabitazione al potere tra i due, dando così spazio al nuovo (Abdullah) e ad i suoi tagiki ma garantendo una continuità più credibile a Karzai e ad i suoi pashtun. Od almeno a questo avrebbe lavorato, dietro le quinte, la macchina della diplomazia internazionale nelle ultime settimane.
Nessuno, però, si sarebbe aspettato l’uscita di Abdullah; uscita che non poco ha fatto arrabbiare gli americani (vedi il commento di Hillary Clinton con o senza Abdullah, non si toglie credibilità al voto).

Perchè Abdullah si è ritirato? Il quadro è talmente confuso è che l’unica certezza di cui disponiamo è che Karzai continuerà ad essere presidente per altri cinque anni. Anche se si votasse in condizioni normali (fraud-free) è chiaro che Abdullah, fosse solo per motivi etnici, non partirebbe avvantagiato e il favorito rimasto comunque Karzai.
E allora Abdullah potrebbe essersi ritirato per provare a salvare una trattativa (arenata, altrimenti avrebbe prodotto risultati giorni fa) per un governo di co-abitazione oppure perchè di trattativa non c’era più speranza e bisognava salvare la faccia. Di certo ha prodotto un danno forte soprattutto agli americani, che ricordiamolo hanno posposto ogni decisione sull’invio di nuove truppe proprio al dopo elezioni, perchè la nuova strategia del generale McCrhystal può essere vincente solo se c’è un governo credibile e non corrotto.

Cosa succederà adesso? In questa situazione nebulosa è difficile dirlo. L’Onu invoca una soluzione “legale” ovvero leggi “politica”, la commissione elettorale e il comitato di Karzai dicono che si voterà lo stesso per un voto farsa che metterebbe a rischio, di nuovo,  altre vite – con i talebani che minacciano un’ondata di attacchi. C’è da considerare che nonostante le rassicurazioni e gli appelli di Abdullah non è escluso che si arrivi a violenze di piazza soprattutto nel nord, con i suoi sostenitori arrabbiati con il governo. Comunque sia, se non si trova una soluzione politica a perdere saranno tutti: la famiglia Karzai si arrichirà per un altro po’ di anni mentre gli viene meno la terra sotto i piedi con i talebani che avanzano; Abdullah da astro (ri)nascente passerà per un’inaffidabile. Gli occidentali non sapranno più con chi dialogare e la guerriglia si avvantaggerà – come ha fatto sin’ora – dell’odio della popolazione verso un governo corrotto.

Per  fortuna in Afghanistan, le sorprese sono sempre possibili – non necessariamente positive – ma possibili anche in maniera clamorosa.
Mi viene in mente l’intervista ad Ashraf Ghani, girata dopo il voto, nella quale il candidato più illuminato del panorama politico afghano mi disse che l’unica soluzione non poteva che essere un accordo politico. Peccato che per fare gli accordi – aggiungo oggi – bisogna essere almeno in due e pensarla più o meno alla stessa maniera.

Addio alla valle della morte

Korengal, postazione mortai np©08
Korengal, postazione mortai np©08

La fob e le firebases nella valle di Korengal dovrebbero chiudere a gennaio; quella “maledetta valle” il luogo più iconico e dannato della guerra in Afghanistan verrà presto abbandonato dalle truppe americane. La cosa non sarà indolore e presumibilmente la destra repubblicana monterà non poche polemiche sulla strategia Obama in Afghanistan. La valle di Korengal è uno dei paesaggi montani più belli del mondo ma anche una valle (in realtà una sorta di frattura in mezzo a montagne altissime) dove si registrano i combattimenti più intesi di tutto l’Afghanistan, poco distante dalla valle del fiume Pech, nella provincia di Kunar.

Korengal è diventata famosa perchè lì è possibile “vedere” combattimenti che solitamente avvengono in ambienti e con modalità ben diverse. E’ l’ambiente montano che lo consente ed è ha “favorito” giornalisti, fotografi e crew televisive che ne hanno fatto il simbolo di un conflitto. Qui è stata scattata – un esempio su tutti – la foto che ha vinto il world press award del 2007, quella di Tim Hetherington sulla stanchezza di un uomo, la stanchezza di una nazione. Personalmente, sono profondamente legato alla valle di Korengal per le emozioni di una straordinaria esperienza umana e professionale che lì ho vissuto nel 2008 con il collega Gianfranco Botta del Tg3. Tra l’altro e’ stato un privilegio andarci e quest’anno eravamo stati “ammessi” di nuovo ma l’elicottero che doveva portarci lì sù aveva un ritardo di soli tre giorni…Un privilegio perchè la popolarità della valle è diventata tale che tutti gli embed in Rc-East ci vogliono andare ma troppi vengono considerati “trouble-maker” dai militari (ragionamento fatto in via informale dai comandanti sul campo), ovvero gente che cerca l’azione per l’azione (leggi i combattimenti) e che quindi potrebbe mettere a rischio non solo se stessi ma soprattutto gli uomini che accompagnano.

La notizia su Korengal l’ho appresa da fonti militari durante il mio embed con la 4rta divisione di fanteria nel settembre scorso, non c’è conferma ufficiale al riguardo ma si tratta di un passo in una strategia più ampia, che nei giorni scorsi ha già riguardato alcuni avamposti nel Nuristan, chiusi. Strategia che viene ben descritta da questo articolo del NY Times di oggi. In pratica, McChrystal vuole concentrarsi sulle zone ad elevata densità di popolazione per garantire loro sicurezza, per esempio nell’afghanistan orientale su Jalalabad e la sua provincia.

Tenere uomini in piccoli e remoti avamposti significa affrontare incredibili problemi logistici (rifornirli è possibile solo con gli elicotteri ed sempre più complicato via via che la guerriglia diventa più forte), esporre i soldati in una sorta di fort Alamo permanentemente sotto attacco e poi soprattutto non cambiare la vita di valli che da secoli sono isolate e vogliono restare isolate. Valli dove per giunta controllare il terreno (ostile e scosceso) è impossibile o meglio ci vorrebbero il quadruplo degli uomini impegnati…altro che una compagnia o un plotone! Insomma il gioco ormai è quello a valorizzare il rapporto tra unità combattenti per numero di abitanti, abbandonando valli che la guerriglia – senza dubbio – usa come rifugi, ma dove con o senza avamposti la situazione cambia poco e la gente non si schiera e forse non si schiererà mai con il governo, un concetto estraneo in luoghi tanto remoti.

Queste aree remote verrebbero sorvegliate da droni e operazioni di forze speciali, in pratica replicando il modello (sin’ora di parziale successo) degli attacchi ai campi di Al Qaeda in Pakistan. Unica eccezione al rapporto tra numero di abitanti e truppe, sarà la valle dell’Helmand ritenuta troppo strategica (fonte di oppio e chiave per il controllo degli spostamenti nella zona). E’ evidente che tutta questa strategia non potrà essere attuata senza un aumento consistente delle truppe proprio come chiede McCrhrystal.

Ad integrazione di questo articolo segnalo questo pezzo del Washington Post che racconta come alla Casa Bianca il ragionamento sul numero di truppe aggiuntive da mandare in Afghanistan si stia basando proprio sull’analisi del territorio e la distribuzione della popolazione nelle diverse province

Di nuovo polemiche su Sorobi

Non è una storia nuova, quella delle polemiche sull’imboscata di Sorobi e sull’attività delle truppe italiane nell’area. Nei giorni successivi alla morte dei dieci parà francesi in quell’area, in un’imboscata avvenuta tra il 18 e il 19 agosto del 2008 (la peggior perdita per l’esercito transalpino dai tempi del Libano), i media francesi sollevarono una generica polemica sulle responsabilità degli italiani (che avevano appena lasciato la zona dopo una presenza di circa sei mesi legata all’assunzione del comando della capitale Rc-C all’interno della missione Isaf) e dei loro rapporti con i guerriglieri nella zona. La polemica ora ritorna ma in maniera molto più puntuale sulle colonne del Times di Londra che in un articolo ben dettagliato e apparentemente surrogato da fonti diplomatiche e militari, accusa i servizi italiani di aver pagato la guerriglia, sostanzialmene, per “comprare” un po’ di pace nell’area. Un fatto non comunicato ai “successori” delle nostre truppe, i francesi, indirettamente esponendoli a quella tragica imboscata – questa almeno la ricostruzione del quotidiano britannico. Ecco alcuni estratti dall’articolo del London Times:

The Times has learnt that when French soldiers arrived to assume control of the Sarobi area, east of Kabul, in mid-2008, they were not informed that the departing Italians had kept the region relatively peaceful by paying local Taleban fighters to remain inactive.

Western officials say that because the French knew nothing of the payments they made a catastrophically incorrect threat assessment.

US intelligence officials discovered through intercepted telephone conversations that the Italians had been buying off militants in other areas, notably in Herat province in the far west.

In June 2008, several weeks before the ambush, the US Ambassador in Rome made a démarche, or diplomatic protest, to the Berlusconi Government over allegations concerning the tactic.

A number of high-ranking officers in Nato have now told The Times that payments were subsequently discovered to have been made in the Sarobi area as well.

Quindi, secondo il Times, la scoperta di questi pagamenti nell’area di Sorobi (si pronuncia Surobì) scatenò all’epoca un caso diplomatico e militare pur mai venuto alla luce. Durissima questa mattina la reazione del nostro governo (che – noto a margine – con il Times ha un “conto aperto” viste le recenti polemiche su Berlusconi, escort, ecc. ecc.) e l’annuncio di una querela. Per completezza di cronaca, c’è da notare che il dispiegamento a Sorobi è avvenuto a cavallo tra i due governi, è iniziato durante quello Prodi ed è terminato quando quello Berlusconi si era da poco insediato (un fatto che il titolo del Times on line prova a mettere in evidenza: Italian Prime Minister attempts to blame previous government over Taleban payments that left French troops exposed).

Per una sintesi in italiano della vicenda e per dettagli sulla polemica vedi gli articoli di Repubblica e quelli del Corriere (che tra l’altro ha diffuso in anticipo la notizia dell’articolo in via di pubblicazione). Per un ricostruzione dell’imboscata di Sorobi e soprattutto del dopo, vedi questa voce di wikipedia (in francese) con una lunga lista di fonti.

Anche se il London Times è uno dei quotidiani più prestigiosi del mondo e l’articolo (al contrario delle polemiche francesi dell’anno scorso) pare poggiare su fonti e dettagli specifici, c’è da dire che la vicenda resta ancora poco chiara e tutta da provare, anche perchè si tende a scindere la responsabilità dei militari da quella dei servizi, rendendo il quadro ancora più confuso. Pur essendo stato (e non senza grossi rischi e difficoltà, con il collega Gianfranco Botta del Tg3) a Sorobi, non sono in grado di esprimermi su questa storia. Mi sembra però utile, al fine di meglio inquadrare la vicenda, fornire un po’ di dettagli sullo “scenario”.

La zona di Sorobi è un’area non in mano ai talebani ma agli uomini di Hekmatyar, è un’area ad alto rischio sulla quale – durante il turno di dispiegamento degli italiani – si sono concentrate grandi attenzioni perchè all’epoca si temeva che la capitale Kabul potesse “cadere” in mani talebane (di lì a pochi mesi gli americani avrebbero schierato forze massicce nelle vicine province di Wardak e Logar). Sorobi si trova ad una trentina di chilometri di distanza dalla capitale ma soprattutto lungo la Jalalabad road, la strada lungo la quale arrivano a Kabul la maggior parte delle merci e soprattutto i rifornimenti Nato dal Pakistan.

Una storia di successo. Il caso di Sorobi è stato a lungo considerato presso il quartier generale della Nato, un caso di successo citato persino dal generale McChrystal. Gli italiani riuscirono a tenere sotto controllo la situazione in un’area esplosiva con la tecnica del “bastone e della carota” ovvero con massicci aiuti umanitari e progetti di ricostruzione legati però alla lealtà della popolazione locale, della serie “se mi aiuti, se mi fai scoprire depositi di armi e droga, se mi segnali i movimenti della guerriglia, noi aiuteremo te”. Una strategia non costata poco agli italiani, nel senso che i nostri militari hanno spinto sul pedale della sicurezza per la popolazione civile garantendo una “reperibilità” 24 ore su 24 ai loro contatti sul territorio, in primis agli anziani dei villaggi leali all’Isaf. In pratica sono sempre stati pronti ad intervenire quando squillava il telefonino, persino a notte fonda, per garantire la sicurezza di chi stava con loro, una versione “anticipata” della dottrina McCrhystal.

I combattimenti. Tra l’altro – pur nel silenzio “voluto” dal Ministero alla Difesa alla vigilia delle elezioni e nella lunga preparazione elettorale – gli italiani sono stati spesso impegnati in combattimenti, non semplici e spesso durati ore. Quelle impegnate nella zona non erano, tra l’altro,  truppe qualsiasi; si trattava in buona parte di rangers, i parà degli alpini, e di unità selezionate della Folgore. Per un racconto di quegli scontri, si veda in particolare “Afghanistan, ultima trincea” di Micalessin e Biloslavo.

L’imboscata di Sorobi verrà tra l’altro ricordata per le critiche ricevute all’organizzazione dei militari francesi. Pur nel rispetto della tragedia umana subita dalle forze armate transalpine, bisogna ricordare che diverse fonti concordano che le unità coinvolte nella battaglia vennero colte chiaramente di sorpresa su un terreno orograficamente ostile (tanto ostile che erano dovuti scendere dai mezzi e stavano procedendo a piedi), senza armamento pesante, senza munizioni e radio a sufficienza, senza supporto aereo e per giunta a metà giornata (quindi solo con poche ore di luce davanti a loro, non a caso i combattimenti terminarono a notte fonda). A rendere le dimensioni della tragedia ci pensò una grande e giovane fotogiornalista francese che scatenà una polemica nazionale sull’opportunità di pubblicare le sue immagini, polemica che a tutt’oggi trovo incomprensibile quanto fastidiosa per la libertà di stampa. Veronique de Viguerie fotografò i talebani autori dell’imboscata con indosso l’equipaggiamento tolto ai caduti (del servizio non trovo più traccia nell’archivio di ParisMatch, ma ne ho recuperato l’immagine simbolo qui). Immagini che testimoniarono quanto ravvicinati fossero i combattimenti (fatto raro in Afghanistan) e quindi quanto i militari francesi vennero presi di sopresa, alcuni dei quali pare uccisi e/o mutilati a colpi di pugnale, una volta rimasti senza munizioni. C’è da dire che il Times oltre ad utilizzare per il suo articolo di oggi proprio l’immagine simbolo della disfatta, ricorda chiaramente i limiti delle truppe francesi nell’occasione.

said one senior Nato officer. “They had no heavy weapons, no pre-arranged air support, no artillery support and not enough radios.”

Sono elementi questi innegabili che a seconda del versante della polemica possono essere utilizzati con finalità diverse, per sostenere che i comandi francesi hanno preso quella recon patrol alla leggera e che quindi hanno subito perdite per carenze organizzative e di pianificazione oppure che erano usciti in quel modo perchè gli italiani gli avevano detto che l’area era tranquilla (così sostiene il Times). Quando ho parlato con militari italiani presente all’epoca nell’area (l’ultima volta mi è capitato solo una decina di giorni fa) mi hanno sempre detto tutti la stessa cosa (mi riferisco a colloqui informali, non con fonti ufficiali), ovvero che i francesi si erano avventurari in quel pattugliamento convinti che si potesse fare così perchè “se lo fanno gli italiani, lo possiamo fare anche noi…” ma senza contare sull’organizzazione delle nostre truppe nè su i loro legami con le fonti sul territorio. Del resto i francesi in quell’area erano appena arrivati.

In sintesi, fermo restando il peso specifico dell’articolo del Times e la necessità di fare luce su queste accuse perchè senza chiarezza la credibilità di alleati dei militari italiani verrebbe minata, il racconto dei nostri soldati che hanno tirato a campare a Sorobi e di pagamenti che gli avrebbero spianato la strada, confligge con la storia sul campo fatta di sacrifici, combattimenti, rapporti con la popolazione locale e – non dimentichiamolo – con la perdita del primo Maresciallo Giovanni Pezzulo (vedi qui e qui) ucciso in un’imboscata avvenuta durante una distribuzione di aiuti umanitari.