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Talebani declassificati e talebani scrittori

Inizia la conferenza di Londra, un appuntamento decisivo per il (faticoso ed incerto) futuro della strategia occidentale in Afghanistan, una guerra (o se volete una missione) sempre più impopolare in America; per non parlare dell’Europa dove lo è sempre stata. In questi mesi, segnati dalla decisione di Obama di rafforzare la strategia civile (“ricostruzione” a cominciare dall’agricolutra) ma soprattutto di mandare più truppe in campo secondo la dottrina McChrystal, si è lavorato ad un punto d’accordo con gli alleati europei, il cui contributo è necessario non solo in termini numerici (o meglio di piazzamento sul territorio afghano) ma anche in termini politici per dare corpo al concetto che la Casa Bianca ha ripetuto a lungo ai propri elettori; ovvero che quella in Afghanistan non è una guerra solo americana ma di tutto il mondo occidentale.

In pratica il punto d’accordo trovato con gli alleati europei è quello di aumentare le truppe (dopo oltre un anno di tira e molla, la Germania ha appena deciso un aumento di 500 unità – la Francia non manderà altre unità combattenti ma non esclude l’invio di unità aggiuntive – l’Italia è da tempo il paese che ha dato la risposta più chiara alla richiesta americana con 1000 effettivi in più) ma iniziando, in contemporanea, a parlare di ritiro. Insomma la stessa cosa che ha fatto Obama annunciando aumento delle truppe e ritiro dal (sottolineo dal non nel) 2011 – data per giunta parzialmente smentita da molti a cominciare dal segretario alla difesa Gates.

Non casualmente ospitata dal paese che più di tutti soffre l’impegno afghano (destinato a lasciare strascichi di anni in un Regno Unito già piegato dalla crisi), la Conferenza di Londra sarà dedicata soprattutto al tema della pace. Al centro del dibattito ci sarà la strategia di reintegrazione (vedi un post di questo blog), in qualche modo “sacramentata” da un’intervista del generale McChrystal di pochi giorni fa al Financial Times. E’ in questo quadro che va inserita la decisione di oggi delle Nazioni Unite di eliminare dalla lista delle sanzioni (una sorta di black list post-11 settembre) cinque esponenti dell’ex-regime talebano che non oggi non combattono ma (aggiungiamo noi) sarebbero molto utili per condurre trattative e in parte vi sono già stati coinvolti (in particolare Mutawakil). Ecco chi sono:

  • Abdul Wakil Mutawakil – ministro degli esteri durante il governo dei talebani
  • Faiz Mohammad Faizan – viceministro al commercio
  • Shams-us-Safa – esponente del ministero degli esteri
  • Mohammad Musa – viceministro della pianificazione
  • Abdul Hakim – viceministro alle frontiere

Speriamo che non facciano la fine di quegli esponenti (ex-)talebani, sin’ora ospitati dal governo di Kabul e tenuti sostanzialmente a bagnomaria, “inutilizzati” nonostante possano essere utilissimi. Tra loro c’è un talebano di primo piano, ambasciatore in Pakistan e vero portavoce del regime (vedi l’annuncio che Bin Laden non sarebbe stato consegnato agli americani). Ho incontrato Abdul Salam Zaeef nel 2007 (poco più di una anno dopo il suo rilascio da Guantanamo), alla periferia di Kabul dove vive sotto-protezione o agli arresti domiciliari (come al solito in Afghanistan è sempre complesso capire le cose). In una breve intervista (non l’unica nè la prima concessa ad i media internazionali, la prima ad una tv italiana) in pratica delineò tutti i temi della possibile pace con i talebani, idee generali di cui oggi si torna a parlare ma ignorate a lungo.
L’anno scorso Zaeef ha avuto un altro momento di popolarità mediatica grazie alla sua passione per l’iPhone ma in realtà ha passato gli ultimi due anni a scrivere. Anche per questo non vedo l’ora di mettere le mani sul suo libro “my life with the Taliban” (“La mia vita con i Talebani”). In uscita il primo febbraio, con un operazione di promozione notevole e con importanti editori alle spalle. Il suo primo libro “una fotografia di Guantanamo” – per quanto mi risulti – è uscito solo in pashtù.

Mazzette ai talebani, la seconda puntata

Il Times di Londra non molla, in ossequio alla sua tradizione (quella di uno dei giornali più prestigiosi ed indipendenti del mondo) pur di fronte alle smentite del governo italiano (che vi ha aggiunto una minaccia di querela), della Nato e dei diretti interessanti (i francesi); oggi il quotidiano britannico pubblica una seconda puntata (qui il link) alla sua denuncia di presunti pagamenti alla guerriglia effettuati dai servizi italiani per comprarsi un po’ di pace nelle aree di operazione delle nostre truppe.

Ieri l’articolo provava a smontare uno dei casi di maggior successo dell’Isaf in Afghanistan, quello di Sorobi (vedi la sintesi in un post di questo blog), affermando che in realtà la pace era stata comprata per giunta senza dirlo agli alleati, causando così indirettamente la strage dei parà francesi appena subentrati agli italiani nell’agosto del 2008.

Oggi, invece amplia il fenomeno estendendolo anche al Rc-West, in pratica all’area dove è concentrato il grosso delle nostre truppe con base ad Herat ma attive anche nelle due difficilissime province di Bala Morghab e Farah. Secondo l’articolo di oggi (vedi una sintesi in italiano qui):

A Taleban commander and two senior Afghan officials confirmed yesterday that Italian forces paid protection money to prevent attacks on their troops.

Mr Ishmayel said that under the deal it was agreed that “neither side should attack one another. That is why we were informed at that time, that we should not attack the Nato troops.” The insurgents were not informed when the Italian forces left the area and assumed they had broken the deal. Afghan officials also said they were aware of the practice by Italian forces in other areas of Afghanistan.

A senior Afghan government official told The Times that US special forces killed a Taleban leader in western Herat province a week ago. He was said to be one of the commanders who received money from the Italian Government. A senior Afghan army officer also repeated the allegation, adding that agreements had been made in both Sarobi and Herat.

Non sono in grado esprimermi sulle accuse del Times
(per giunta rivolte ai servizi più che ai militari italiani), di certo appaiono surrogate da fonti diverse e citano persino intercettazioni telefoniche dei servizi americani, ma è altrettanto sicuro che nell’ovest soprattutto negli ultimi sei mesi (ma ricordiamo anche la scorsa “calda” estate con l’Aeromobile nelle stesse zone) gli italiani sono stati in combattimento quasi ogni giorno, che è un elemento sicuramente contraddittorio rispetto al quadro delineato da questi articoli.

Un’osservazione personale. Fermo restando che la tentazione che potrebbe emergere è quella di derubricare tutto alla voce “pessimi rapporti tra Berlusconi e la stampa internazionale” (insomma che piuttosto di affrontare la questione si dica che è solo frutto di screzi e dispetti) e che, comunque, gli effetti sull’immagine internazionale del nostro premier (quello che lui stesso ha definito lo “sputtanamento”) dopo la vicenda escort, non aiuti a dare forza alle pur categoriche smentite governative. Secondo me il punto di tutta questa storia è però un’altro: c’è bisogno di chiarire tutto e farlo subito, non solo per motivi di decoro nazionale (…perdita della faccia…mettiamola così) ma soprattutto perchè i militati sul campo, quelli che rischiano la vita ogni giorno, possono essere seriamente penalizzati da una storia del genere se non chiarita o lasciata (italicamente) perdere per essere poi dimenticata. Chi si trova in prima linea con addosso accuse del genere rischia di non essere più considerato un buon alleato da chi combatte al suo fianco (afghani, americani, francesi, spagnoli che siano) ovvero rischia di ritrovarsi “isolato” e quindi rischia di rischiare molto di più.