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Bomba su bomba

Dove non era riuscito un ministro politico (e che politico…visto che La Russa era impegnato a tempo pieno anche ai vertici del Pdl, sostegno chiave del governo), c’è riuscito un ministro tecnico. Come ci raccontava ieri Giampaolo Cadalanu su Repubblica (in solitaria nel panorama mediatico italiano), l’ammiraglio Di Paola ha dato il via libera all’utilizzo di tutti gli armamenti in dotazione ai jet italiani in Afghanistan. In pratica, i caccia italiani (dopo i Tornado, ora fanno base ad Herat gli Amx dell’Aeronautica) potranno utilizzare anche le bombe.


I nostri aerei inizialmente erano utilizzati
solo per la ricognizione, dopo la polemica sulle eventuali bombe (utilizzo caldeggiato da La Russa) si finì col consentire solo l’utilizzo del cannoncino di bordo (peraltro forse più pericoloso delle bombe per via della sua imprecisione).

Con questa decisione la missione italiana a tutti gli effetti entra in un’area ad altissimo rischio. I bombardamenti alleati sono la principale causa di vittime civili da parte della coalizione internazionale in Afghanistan. Nel’Rc-West, l’area di competenza italiana, si combatte una guerra a tutti gli effetti, per cui il ricorso ai bombardamenti (che già avviene ma con supporto aereo americano) non è un’ulteriore escalation ma solo un gran problema che ci stiamo andando a cercare, in Afghanistan una casa è un covo di guerriglieri come quello che sembra una posizione di fuoco del nemico è solo una casa di povera gente.
Inoltre gli aerei saranno pure nazionali ma vengono messi a disposizione della coalizione, tradotto quando a “chiamare” il bersaglio saranno truppe non italiane, i nostri piloti italiani si assumeranno responsabilità con informazioni che magari risponderanno a standard (diciamo cosí) meno prudenti dei nostri.
Proprio in un’area di competenza italiana (ma durante una missione afghano-americana), nei pressi di Farah, è avvenuta la peggior strage di innocenti che questa guerra ricordi; strage che portò Obama a cacciare il comandante generale dell’Isaf.

Questa ci mancava

In Afghanistan si continua a morire e l’impressione è sempre la stessa ovvero che le cose si raccontino in maniera quantomeno approssimativa, ma all’Italia (e ad una buona parte dei suoi media) sembra che la cosa interessi poco, c’è il bunga-bunga di cui parlare…roba seria, alto che un conflitto più lungo della seconda guerra mondiale.

La morte dell’alpino Luca Sanna 32 anni  e il ferimento del suo commilitone Luca Barisonzi, che rischia di portare per tutta la vita i segni dell’attacco, è avvenuta in una circostanza sin’ora mai toccata al contingente italiano, ovvero quello di un infiltrato tra le fila dell’esercito afghano che ha sparato ed è fuggito via, in uno dei “caposaldi” intorno alla base di Bala Morghab, florida terra di nessuno al confine con il Turkmenistan. Ormai è una piaga diffusa quella degli infiltrati all’interno di un esercito che sembra stare in piedi per fare “numeri”  (di ieri la notizia di un piano per portare quasi a 400mila unità le forze di sicurezza – vedi qui ) ovvero consentire agli occidentali di ritirare il grosso delle truppe.

Poco distante da Bala Morghab, a Qal-e-Now, capitale provinciale, pochi mesi fa, proprio un infiltrato del genere aveva ucciso due istruttori spagnoli. Solo una manciata di giorni addietro, più a sud, a Sangin, l’inferno in terra per gli inglesi prima e i Marines ora, un militare americano aveva ammazzato un soldato afghano prima di essere ucciso dal commilitone.
Dei 36 militari italiani uccisi in Afghanistan, pochissimi sono morti per colpi di arma da fuoco (se non ricordo male, il primo è stato il maresciallo Pezzulo, nel 2008 a Sorobi) quasi tutti invece per colpa di ordigni Ied, ma il loro numero negli ultimi mesi è drammaticamente aumentato (Romani, Miotto, ieri Sanna). Oggi possiamo contare la prima vittima della collaborazione con un esercito afghano non sempre affidabile, dove i confini tra indisciplina, stress da shock traumatico e infiltrazione vera e propria sono labili. Questa, purtroppo, ci mancava; ce la saremmo risparmiata molto volentieri: è la misura di una missione sempre più impegnativa e quindi più rischiosa; rischio (nonostante le affermazioni di La Russa che intende coinvolgere sul punto anche il generale Petraeus) sostanzialmente “incomprimibile” perchè più ti avvicini alla sponda del fiume, più ti bagni.

Anche questa volta, il racconto all’opinione pubblica è stato quantomeno approssimativo. Quando ieri ho letto il lancio d’agenzia, poche righe, sulla sparatoria nella base…beh gli scenari che mi sono venuti in mente sono stati appunto due, il primo quello di un attacco “complesso” alla fortificazione (ma si sarebbe dovuto trattare di un attacco su vasta scala, difficilmente condotto con armi leggere), il secondo – appunto – quello di un infiltrato. Del resto Bala Morghab è un’area da manuale per la collaborazione tra truppe di nazionalità diversa (americane, italiane, spagnole e appunto afghane). L’ho detto subito ad un collega con il quale stavo parlando al telefono e che mi ha riferito la notizia in tempo reale.

Il ministro alla Difesa (vedi qui) con la sua stoffa da comunicatore ha subito lanciato lo slogan-notizia del terrorista con la divisa dell’esercito afghano, insomma un attacco di qualcuno travisato da militare non di un militare vero e proprio (eventualità che però in Afghanistan è riferita soprattutto alle forze di polizia). Il ministro definiva “meno probabile” che fosse un infiltrato nell’esercito afgano, arruolatosi proprio per compiere azioni di questo tipo. Oggi ovviamente alla Camera è stata raccontata un’altra storia“era un infiltrato nell’esercito afgano, cioè uno dei militari” che prestavano servizio insieme ai soldati italiani nell’avamposto di Bala Murghab. L’uomo era nell’esercito afgano “da tre mesi”. Non mi riesco a spiegare questi “errori” di comunicazione se non come la fretta di dare le notizie o con la voglia di lanciare messaggi rassicuranti agli italiani, perchè è sempre meglio parlare di un terrorista in divisa piutosto che raccontare che combattiamo fianco a fianco con qualcuno, in certi casi, pronto ad ammazzarci da un momento all’altro.
Non mi sembra ci abbia fatto caso nessuno, del resto sono i giorni del bunga-bunga che vuoi che ce ne freghi di quello che fanno 4000 italiani nel Paese soprannominato la tomba degli imperi per quanti Paesi stranieri ha messo in ginocchio?

Ultima fermata, Gulistan

Mentre i vivi litigano, e se ne discute non senza ipocrisie, c’è voluta la sincerità delle parole lasciateci da un giovane caduto alpino per mostrare a chi si ostina a guardare il dito, tutto quello che c’è intorno. C’ho messo qualche giorno per scrivere questo post, perchè di solito evito di fare commenti “geopolitici” nei giorni destinati al lutto come purtroppo è stato l’ultimo del 2010. Nei giorni successivi poi, ho visto aprirsi una fisarmonica di eventi e dichiarazioni sulle quali mi sembrava il caso di riflettere.

Matteo Miotto ha scritto nel suo testamente di voler essere sepolto nella parte del cimitero di Thiene dedicata ai caduti di guerra. Sembra una decisione privata, per me sono parole di verità nella vicenda afghana. Al di là della facile retorica, dovrebbe spingere molti a spostare lo sguardo dal dito, a guardare a cosa quel dito stia puntando.
Matteo è morto in guerra, da professionista sapeva che c’era questa eventualità e l’ha scritto nel suo testamento. Non voglio riapre il discorso sulla natura della missione italiana, finiremmo con il parlare della Costituzione e perderci la sostanza ovvero che in Afghanistan si combatte una guerra e la politica (tutta) non si assume la responsabilità di dirlo al Paese. Di dire agli italiani che quella è una guerra, magari giusta (come ritiene il Premio Nobel per la Pace, il presidente Obama e – più implicitamente – tantissimi governi di mezzo mondo) ma null’altro che una guerra.

Quanto sia importante questa verità l’abbiamo capito nei giorni successivi alla morte di Matteo, in una vicenda dove quella decisione di un giovane alpino diventava sempre più altamente simbolica, proprio ora e mai come ora.
Il ministro La Russa arrivato ad Herat la sera del 5 gennaio, racconta che Miotto non è morto come inizialmente detto (colpito da un cecchino) ma colpito durante un attacco “multiplo” alla sua base. Due scenari ben diversi. La Russa polemizza con i militari che l’hanno informato tardi, parla del “riflesso di un vecchio metodo, di cercare di indorare la pillola della realtà dei fatti, di dire la verità ma nel modo più indolore possibile” – ovvero riapre la polemica con il metodo del governo Prodi (che poi proprio sull’Afghanistan scivolò la prima volta). Oggi sul Corriere della Sera, la smentita del Capo di Stato Maggiore, il generale Camporini apre uno scontro senza precedenti tra i vertici civili e quelli militari delle forze armate. Il ministro La Russa deve convocare in mattinata una conferenza stampa per ricucire lo strappo con le stellette.
Qualcuno mi sembra provi a leggere lo scontro secondo le categorie dell’italico “politichese”. Qualunque cosa sia successa l’ultimo giorno dell’anno nel Gulistan (e molti dubbi continuano ad esserci), queste onde “telluriche” altro non sono che frutto del peso dell’Afghanistan; qualunque entità metta le mani in quel Paese – lo dice la storia – si ritrova profondamente destabilizzata, solo negli ultimi tempi penso alle dimissioni del governo olandese o a quelle del presidente tedesco. Ora sbattono le porte di Palazzo Baracchini, la sede del Ministero alla Difesa, a Roma.

L’altra cosa a cui punta il dito, lo stesso dito dal quale gli occhi non riescono a staccarsi, è un distretto della provincia di Farah. Si chiama Gulistan, il posto dei fiori in lingua dharì, sempre più – drammaticamente – fiori di lutto per gli italiani. Dal primo settembre i nostri militari sono arrivati per estendere la presenza del governo di Kabul, tradotto per tagliare le retrovie dei talebani che nella confinante provincia di Helmand, la loro roccaforte, sono sempre più messi alle strette dalle massicce operazioni anglo-americane, ma hanno bisogno della strada della droga e della strada della ritirata verso il nord. Fino ad agosto l’op-box Tripoli ovvero una parte della provincia di Farah, Gulistan compreso, era in mano agli americani più del doppio dei 350 italiani che hanno preso il loro posto, asserragliati in tre fortini, chiaramente pochi per il compito loro assegnato e per dedicarsi ad un territorio così vasto.
Dal primo settembre i sei caduti riportati dagli italiani sono morti qui, cinque in Gulistan, uno nel confinante distretto di Bakwah. C’è bisogno di dire altro per capire che inferno sia quella zona in passato terreno solo delle forze speciali per brevi raid? Un terreno tutto da “riconquistare” dove solo poche settimane fa sono arrivati i primi militari afghani (anche per questo gli italiani finiscono con l’essere pochi). In confronto l’estensione della “bolla di sicurezza” di Bala Morghab corre il rischio di sembrare una passeggiata.
E siamo ancora in inverno, da marzo in poi la situazione – è facile prevederlo – si farà sempre più difficile, all’epoca in campo sarà schierata la prima aliquota di parà della Folgore che quest’anno copriranno il turno estivo (da aprile) della missione italiana.

Penso alla visita del generale Petraeus e del generale Camporini, il giorno di Natale, proprio a Bakwah. Rileggo i comunicati, quello in italiano dove spicca questa frase “Bakwah è una delle aree dove maggiormente si concentrano gli sforzi degli italiani nell’implementare la sicurezza, di concerto con i militari afghani. Sicurezza che i cittadini percepiscono di giorno in giorno e che va di pari passo con la fiducia nel lavoro delle forze di coalizione.” Quello destinato ai media internazionali (scritto in inglese), dove all’incirca nello stesso punto compare invece questa frase: “Bakwa is one of the more volatile areas in RC-West, and the Soldiers based there often engage insurgents in kinetic activities.” Ovvero “Bakwa è una delle aree più instabili dell’RC-West, i soldati di stanza qui spesso combattono con i ribelli”. Li rileggo e penso a quanto siano pesanti le parole di verità scritte da un giovane alpino morto a migliaia di chilometri da casa, scritte da chi pensa a dire le cose come stanno non all’effetto che le sue parole potranno produrre.

Purtroppo penso anche a cosa saranno i prossimi mesi nell’infero del Gulistan.

Perchè rischiare vittime civili?

Le salme dei quattro alpini della Julia uccisi a Farah sono arrivate a Ciampino; piove senza sosta a Roma quasi a voler rendere l’atmosfera ancora più cupa. Domani le esequie dei caduti italiani nel lontano Gulistan, ai quali – sono sicuro – va il pensiero di tutti gli italiani, è una magra consolazione per le famiglie ma fa bene saperlo in giorni di retorica più o meno interessata. Eppure il grosso dell’attenzione mediatica è sulle bombe da mettere sui nostri caccia in Afghanistan. Il ministro La Russa è un ministro molto attento alle richieste dei militari, come lo era il suo predecessore Parisi ma con una Rifondazione in meno. Non è una cosa di per sè sbagliata, è come un ministro all’Educazione che tiene a cuore ed ascolta le richieste di professori ed alunni. Durante la conferenza stampa convocata poco dopo la diffusione della notizia della strage del Gulistan, sabato, il ministro La Russa ha parlato anche del tema delle bombe sugli aerei italiani. Non so se l’ha fatto sull’onda dell’emozione o perchè, da navigato politico, pensava che quella sarebbe potuta essere l’occasione giusta per rilanciare un dibattito (da mesi “intestino” alle forze armate) in un momento di grande emotività per l’opinione pubblica.

Sono necessarie le bombe? La risposta probabilmente è sì, sono necessarie. In Afghanistan senza copertura aerea è praticamente impossibile per i militari occidentali tirarsi fuori dai guai, vincere alcune battaglie o almeno “pareggiarle”. Sin’ora i militari italiani sono stati “coperti” nelle operazioni di CAS (close air support) dagli elicotteri d’attacco italiani Mangusta, che però hanno dei limiti (per esempio la velocità d’impiego, quella per arrivare da un punto all’altro) e dai caccia americani. Gli americani però sono sempre più impegnati nell’Helmand e a Kandahar per poter rispondere a tutte le richieste d’intervento e quindi a volte sono “unavailable”. L’Italia ha due predator, aerei senza pilota, disarmati e diversi caccia AMX che hanno sostituito i Tornado, utilizzati prevalentemente in ricognizione ma per i quali è stato poi autorizzato l’utilizzo del cannoncino di bordo. Un’autorizzazione, a quanto pare, simbolica visto che notizie sul suo utilizzo non ne sono mai arrivate, del resto sparare con una mitragliatrice in picchiata da duemila metri è roba da mandrake.

Armare i caccia è una mossa opportuna? La risposta è probabilmente no. La missione italiana sin’ora – per quanto è dato sapere dalle comunicazioni ufficiali, in zona mancano fonti indipendenti – ha fatto registrare una sola vittima civile, la bambina letteralmente decapitata da un colpo di mitragliatrice calibro 50 sulla strada verso l’aeroporto di Herat, nel maggio 2009. Si trattò all’epoca di uno dei tristemente classici (in Afghanistan) incidenti di “escalation of force”: la macchina corre, viene avvertita dall’equipaggio del veicolo militare, non si ferma, i miltari pensano sia un kamikaze…e poi, poi…
Iniziare a bombardare per gli italiani significa correre il serio rischio di entrare nel “settore” delle vittime civili, dal quale sin’ora ci siamo tenuti per fortuna fuori. In Afghanistan, il grosso delle vittime civili uccise dalla coalizione, viene uccisa in bombardamenti aerei, non a caso la prima direttiva di McChrystal riguardava proprio una restrizione all’utilizzo di supporto aereo. Il suo precedessore McKiernan era “saltato” dopo la strage nella provincia di Farah, area a controllo italiano, dove i commando afghani e gli statunitensi avevano ammazzato “per sbaglio” oltre cento innocenti scambiati per talebani. Una brutta storia che il New Times svelò, dopo i tentativi di copertura militare.
Tra l’altro iniziare a bombardare significa farlo non solo per le proprie truppe, di cui magari puoi conoscere lo scrupolo nella richiesta di Cas, ma anche per tutte le altre. E’ giusto correre un rischio del genere? Ne vale la pena? Probabilmente no. Se ne parlerà in Parlamento – leggo – spero se ne parli con cognizione di causa, cosa che sin’ora è raramente avvenuta, preferendo le posizioni ideologiche alla competenza.

Le parole. Torniamo a parlare di “parole”, sulla scia del post di ieri. Ogni volta che c’è stato un caduto nei tempi recenti, il ministro La Russa ha tirato in ballo anche tecnicismi militari. Dopo la morte del parà Alessandro di Lisio, mitragliere di un Lince saltato in aria proprio a Farah, il ministro aveva parlato di torrette blindate per proteggere il mitragliere. E’ una storia esemplare per capire di cosa stiamo parlando: una decina di Lince con torretta modificata (ovvero automatizzata quindi senza mitragliere “esposto” all’esterno) sono arrivati in Afghanistan e – per quanto se ne sa – non sono stati quasi mai usati perchè troppo pesanti, a rischio di “ribaltamento” e soprattutto perchè quello che l’ “uomo in ralla” riesce a vedere non è quello che si “vede” attraverso una telecamera.  Si è poi discusso dei nuovi mezzi Freccia, per poi scoprire l’acqua calda ovvero che non possono sostituire i Lince, proprio come un fuoristrada non può sostituire un pulmino. Ora invece stiamo parliamo di armare i caccia. Non metto in dubbio che lo spirito di fondo sia quello di dare più pezzi e più protezione ai nostri soldati, il punto è che tutti questi tecnicismi allontano il cuore del problema: quella afghana è una guerra e come tale ha dei rischi altissimi, ad ogni blindatura più resistente si risponde con un esplosivo più potente. L’Italia è pronta a correre i rischi di questa guerra? Ad accettarla per quello che è? Oppure di volta in volta, di caduto in caduto, si continuerà a cercare di parlare d’altro, di dettagli magari mediaticamente intriganti ma pur sempre dettagli?

Mazzette ai talebani, ultimi sviluppi

Il Times di Londra, ieri, ha pubblicato un altro riscontro alla sua denuncia di presunti pagamenti degli italiani ai capi talebani per comprarsi un po’ di pace in Afghanistan, ecco l’articolo. Nello stesso numero di ieri del quotidiano londinese c’era anche un editoriale dal titolo emblematico (“the italian job” come il famoso film degli anni’60 su un gruppo di spericolati rapinatori). Eccone alcuni passaggi emblematici:

The Italian Government has furiously denied our report, including our statement that the US Ambassador submitted a formal complaint about Italian payments to local insurgents in Herat province. Opposition politicians in France are demanding explanations, and ought to receive them. We unreservedly stand by our account.

The Italian strategy is a scandal.

Deals that are negotiated locally cannot be deals that are negotiated separately, however. That is the route to Allied discord, disarray and unnecessary death. That is the charge against Italy’s strategy in Afghanistan. Silvio Berlusconi’s Government must answer it.

Nella giornata di ieri è arrivata anche la smentita del governo afghano ma vista la credibilità dell’esecutivo di Kabul ed i pessimi rapporti con la stampa anglo-americana, mi sembra non aiuti a fare chiarezza.

Oggi, a RaiNews24, l’autore dell’inchiesta del Times, Tom Coghlan (ringrazio la collega Celia Guimaraes per avermela segnalata) ha fornito il quadro del suo lavoro, mi sembra interessante questo passaggio:

L’informazione che abbiamo ricevuto è molto specifica, e parla di servizi segreti italiani e le nostre fonti ci hanno anche detto che l’esercito italiano non era a conoscenza di questi pagamenti e sicuramente non ne era a conoscenza il comandante italiano a Surabi come ci ha espressamente detto una delle nostre fonti, e che è un ottimo ufficiale e che l’unità di stanza a Surabi era una ottima unità, ma questi pagamenti sono stati fatti dai servizi segreti italiani con l’obiettivo di ridurre al minimo le perdite italiane perché questo era un imperativo politico.

Imperativo politico, in altre parole il quadro politico che sarebbe stato favorevole a questo presunto mercimonio ovvero le difficoltà del governo Prodi sull’Afghanistan, missione che divideva la sua eterogenea e risicata maggioranza.


Stasera intervistato
da Fabio Fazio, il Ministro La Russa ha parlato anche della denuncia del Times, ribadendo i suoi toni molto duri ecco una sintesi dall’Ansa:

“Confermo che si tratta di spazzatura – ha detto La Russa – escludo categoricamente che siano mai stati pagati talebani o
insorti”. Secondo il ministro, l’ ”equivoco” potrebbe essere nato dal fatto che ”i servizi hanno il dovere di aiutare i
nostri soldati ad avere un buon rapporto con le popolazioni locali e quindi – ha spiegato – usano anche i soldi a favore dei
capi villaggio, in modo da creare le condizioni per la ricostruzione”. “Lo fanno tutti – prosegue – e non solo e’
normale ma e’ doveroso”. Dunque, ha concluso il ministro, dietro queste notizie “credo che ci sia una volonta’ ben orchestrata di creare
dissenso, dissidio o per lo meno un po’ di frattura tra i vari contingenti, come tra quello italiano e tedesco. C’e’ chi ha
interesse che noi non ci si guardi e invece una delle cose più importanti che si e’ realizzata in Afghanistan e’ questa
coesione tra i contingenti internazionali”

Penso che siamo ancora lontani da un punto finale su questa vicenda e l’unico modo per chiarirla – a mio avviso – è opporre fatti e circostanze precise – non solo i pur apprezzabili toni duri – ai fatti, alle circostaze, alle fonti citate da parte del Times. Lo si deve ai cittadini ma in primo luogo a chi rischia la vita ogni giorno sul campo laggiù in Afghanistan.

Sparano i Tornado, polemiche militari

Dopo la morte del primo caporal maggiore Alessandro Di Lisio a Farah, il Ministro La Russa durante la sua visita in Afghanistan (alla quale ho partecipato per il Tg3)  aveva annunciato una serie di interventi per rafforzare la sicurezza del contingente, fuori dalla metafora politica io direi per tenere il passo dell’escalation bellica in corso nel Paese.

Il Ministro aveva parlato di più predator (aerei senza pilota da ricognizione, al momento ce ne sono due ad Herat), torrette per il mitragliere più protette sui Lince (tra le ipotesi torrette motorizzate comandabili dall’interno, in maniera tale da evitare che il mitragliere spari dall’interno) e il ricorso ai Tornado anche per fare fuoco. I Tornado sono i jet italiani arrivati in Afghanistan nell’autunno scorso (fanno base a Mazar-i-Sharif) e da allora utilizzati solo per ricognizione non per bombardare. Durante il volo verso l’Afghanistan, il Ministro ci aveva detto di pensare all’utilizzo dei Tornado anche come “copertura aerea” ma non con le bombe bensì con il cannoncino di bordo assimilabile allo stesso degli elicotteri Mangusta (utilizzato e come, da tempo). Oggi in questa intervista al Corriere, La Russa conferma che si è entrati nella fase operativa: “Dopo aver informato le Ca­mere, ho dato via libera ai co­mandanti. A loro valutare. Parliamo non delle bombe, che sull’aereo non portiamo neanche. Ma del cannoncino dei Tornado, simile a quello degli elicotteri Mangusta”


Una scelta che ha già sollevato polemiche e per giunta autorevoli.
Nel fine settimana, all’Ansa, l’ex-capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, il Generale Tricarico, aveva detto (il maiuscolo è un problema di formattazione che non riesco a risolvere): “FAR FUOCO CON I CANNONCINI DEI TORNADO NON SOLO E’ INUTILE, MA ANCHE PERICOLOSO PERCHE’ IN SCENARI COME QUELLO AFGANO IL RISCHIO DI DANNI COLLATERALI E’ CERTO”.

“COLPIRE UN TALEBANO CON LE ARMI DI BORDO DI UN TORNADO E’ FACILE COME VINCERE AL SUPERENALOTTO, MENTRE IL RISCHIO DI CENTRARE BERSAGLI DIVERSI, CIVILI INNOCENTI, E’ ALTISSIMO”

“TECNICAMENTE E’ COSI’, TUTTI LO SANNO. PROPRIO PER QUESTO LE ARMI DI BORDO DEI CACCIA NON SONO
STATE MAI USATE NEPPURE NEI 78 GIORNI DI OPERAZIONI AEREE SUI BALCANI”,

Secondo Tricarico se si vuole offrire copertura aerea ai militari impegnati a terra senza rischi di vittime civili (io direi, limitando questo rischio) bisogna armare i predator. Gli italiani hanno una versione di questi aerei senza pilota che non ha armi ovvero non senza missili “hellfire” anche detti “fire and forget” ovvero spara e dimenticatene (non è un riferimento alla morale ma alla loro capacità di seguire il bersaglio). Tra l’altro Tricarico ricorda la vecchia polemica di Rifondazione che contestò il nome aggressivo di questo veivolo come segno della natura bellica della missione durante le divisioni “afghane” all’interno del governo Prodi.

Un’ultima osservazione sull’intervista al Ministro. Almeno temporalmente noto che dopo la mia intervista al Generale Castellano (vedi post più sotto, all’interno il link al pezzo del Tg3), per la prima volta sulla stampa italiana si parla dei talebani uccisi. Ecco il passaggio, sempre dall’intervista di oggi al Corriere:

Se viene ucciso un militare italiano, la Difesa lo dichiara: dal 2001 in Afghanistan ne sono morti 15. Manca però un dato: quanti mili ziani afghani sono stati uccisi dai nostri soldati in scontri a fuoco?
«Il numero preciso non vie ne tenuto. Non c’è una conta bilità anche perché è difficile accertarlo. Di certo il numero degli insorti — talebani, trafficanti di droga, tutti coloro che compiono atti ostili — è superiore alle perdite subite dai contingenti internaziona li. E di molto».

Quelli colpiti da italiani?
«Anche per i nostri il rapporto è di sicuro più alto. Quando i nostri sono stati costretti a difendersi, gli altri hanno subito perdite. Tra i contingenti siamo quelli che hanno avuto meno lutti, an che se non per questo meno dolorosi».

Troppe coincidenze nei cieli afghani

Iniziano davvero ad essere troppi e troppo concentrati gli incidenti aerei in questa prima metà di luglio, per non preoccuparsi di quello che sta succedendo nei cieli afghani. Questa la lista degli incidenti a cui mi riferisco:

08/07/09 poco dopo il decollo cade un elicottero militare canadese “Griffon” nella provincia di Zabul, tre le vittime (due soldati britannici e uno canadese, riaprendo tra l’altro le polemiche sugli errori del governo di Londra in una gara d’appalto di alcuni anni addietro per l’acquisto di ch-47)

14/07/09 un elicottero Mi-26 di un contractor moldavo cade nei pressi della (perennemente sotto attacco) fob britannica di Sangin (provincia di Kandahar). Per le autorità locali e per la compagnia è stato abbattuto da un non meglio precisato missile. Sei le vittime, tutte civili, alle quali si aggiunge una bambina afghana che si trovava a terra.

– 18/07/09 un F15 della US Air Force si schianta nella provincia di Ghazni (Afghanistan orientale) dopo poche ore i portavoce militari ritirano i primi comunicati e confermano la morte dei due “Top gun” a bordo. Viene negato il “fuoco nemico”, l’equipaggio del caccia in missione con quello precipitato – riferisce l’AP – precisa ulteriormente di non aver visto segni di attacco. Il comunicato ufficiale precisa: “While we know it was not hostile fire, we will not speculate on what may have caused the crash, this can only be determined after the thorough investigation of trained investigators.”

19/07/09 un elicottero Mi-8 di un contractor russo (la Vertikal-T) si schianta al decollo dall’aeroporto militare di Kandahar, sedici le vittime, tutti civili a bordo del veivolo. Cause ignote ma fonti militari, come al solito dichiarano:  “what we do know is that it was not a result of insurgent activity”

19/07/09 un elicottero dell’esercito americano è costretto ad un atterraggio d’emergenza nei pressi di un avamposto nella provincia di Kunar, dal quale stava decollando. Il comunicato precisa. “There was no enemy activity in the area at the time”

– 20/07/09 al decollo dall’aeroporto di Kandahar si è schiantato un tornado britannico, i due piloti sono riusciti a salvarsi grazie ai sedili “ejettabili”.

Che cosa sta succedendo? E’ difficile dirlo, per ora, ma è evidente che tutti questi incidenti non possono essere una coincidenza. L’Afghanistan è uno dei posti del mondo dov’è più difficile e più necessario volare. Difficile per la quota, le condizioni climatiche spesso estreme, l’ambiente che va dal deserto all’alta montagna, il costante pericolo di attacchi. Necessario perchè l’afghanistan ha solo una strada per ampi tratti degna di questo nome (la ring road). La regola è strade sulle quali per percorrere 100 km ci possono volere 4 come 24 ore. E’ per questo motivo che il tallone d’achille di Isaf ed Enduring Freedom sta proprio nel supporto aereo, in particolare gli elicotteri sono sempre troppo pochi rispetto alle necessità e quei “pochi” che ci sono, sono ultrasfruttati. Mentre la “ricostruzione” dell’aeronautica di Kabul è ancora solo un esperimento, è forte il ricorso ai contractors, per lo più per il trasporto di acqua in bottiglia (sì, siamo in Afghanistan appunto) edi  altri materiali. Un lavoro che disolito fanno vecchi elicotteri sovietici (bianchi, ne ho visto alcuni persino con le insegne dell’Onu reduci da chissà quali missioni africane) robusti ma disarmati, un bersaglio più facile dei veivoli militari.

Alla luce di tutto ciò, non è difficile capire perché nel conflitto tra sovietici e mujaheddin quando quest’ultimi vennero dotati (dalla Cia) degli stinger nell’87, la sconfitta sovietica divenne una certezza. Lo stinger è un missile “a spalla” pensato per abbattere elicotteri ed aerei, ovvero per azzerare – in quel caso – il vantaggio chiave dei russi sugli afghani, la forza aerea.

Questa, per ora inspiegabile, catena di incidenti preoccupa e non poco. Troppo strano che si tratti di coincidenze, troppo presto per capire se si è materializzato lo scenario peggiore per gli occidentali (che conservano due vantaggi sui ribelli, forza aerea e visione notturna) ovvero che i talebani siano riusciti ad acquisire armi in grado di mettere sistematicamente a rischio i veivoli nemici. Se così fosse la Missione afghana sarebbe seriamente ipotecata. Fonti militari mi hanno spiegato che il monitoraggio degli attacchi aerei è molto attento al comando Isaf perchè dal loro ritmo dipende il passo delle operazioni. Certo la mancanza di rivendicazioni (tranne che l’episodio di Sangin) non fanno protendere per l’ipotesi peggiore, ma se tutti questi incidenti sono dovuti – come alcune fonti militari, confidenzialmente, hanno ipotizzato in colloqui con il sottoscritto – a manutenzioni per forza di cose frettolose e all’iperutilizzo dei mezzi (e dei piloti), beh non ci sarebbe mica da star tranquilli.

Ps: forse con inconsapevole autoironia, ho scritto questo post a bordo dell’aereo passeggeri dell’Aeronautica italiana (il “volo di Stato”) che ha portato in Afghanistan il ministro La Russa. Per la prima volta un veivolo italiano “senza contromisure” (ovvero senza flares, senza armi, ecc. ecc.) attera ad Herat, speriamo sia l’inizio di un utilizzo più selettivo dei C-130 e del trasporto “in teatro” con i “charter” Boeing o Airbus, civili, gli stessi che portano fino ad Abu Dhabi (da qui si procede poi per l’ultimo tratto in C-130).  Sarebbe un bene per i C-130 e per le truppe sottoposte ad un viaggio davvero pesante e che ho condiviso con loro decine di volte.