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Che succede in Afghanistan?

Che succede in Afghanistan? Scusate la domanda banale ma è così banale che se la dovrebbero porre tutti (dico proprio tutti, a cominciare dai contribuenti di mezzo occidente che pagano una costosissima missione militare e altrettanto costosi aiuti allo sviluppo). Eppure mi sembra non se la ponga nessuno, tra nuovi conflitti e la vecchia (in fatto di Afghanistan) abitudine a girarsi dall’altra parte perchè tanto – nonostante le dichiarazioni di circostanza – domina la convinzione che raddrizzare quel Paese sia impossibile.

Con questa domanda torno a scrivere di quel Paese lontano chiamato Afghanistan dove muoiono civili afghani e ragazzi/e occidentali; torno a scrivere dopo una lunga pausa nella quale ho pubblicato molto su facebook ma non sono riuscito a lavorare sul blog per mille motivi. Forse ho somatizzato il silenzio che ormai avvolge quel Paese…Ma veniamo a qualche possibile risposta alla domanda.

Partiamo dalla notizia della serata. Dopo l’hotel Serena nel 2008, stasera è toccato all’hotel Intercontinental, l’albergo dove negli anni d’oro si andava in vacanza a Kabul, è stato attaccato da un commando di attentatori suicidi, la battaglia infuria in un complesso che è molto grande, posto su una collina e accessibile da più lati anche se la strada carrabile è unica. Nel 2001 era stato quasi centrato da un razzo ma da allora l’Intercontinental era sembrato come coperto da uno scudo magico (o da un patto di quelli che ti sfuggono in Afghanistan, ma di cui vedi gli effetti). Mai attaccato nonostante sia l’albergo dove – per mille motivi – si riuniscono spesso i governatori di province e i capi distretto o comunque parte della dirigenza governativa e si tengono frequenti conferenze stampa. L’Intercontinental (l’affiliazione alla omonima catena è finita nel ’79) è soprattutto questo oltre che un hotel frequentato anche dagli occidentali, come ormai lo stanno descrivendo quasi tutte le testate.
A Kabul è ormai notte fonda, la battaglia intorno al complesso infuria, si parla di una decina di vittime e almeno sei kamikaze, domani ne sapremo qualcosa in più, sperando in un bilancio meno drammatico di quello che potrebbe essere.

Il governatore della Banca centrale afghana si è dato alla fuga ma non è scappato con la cassa. Ha messo le mani nel pasticcio della Kabul Bank che equivale ad averle messe nella presa della corrente e ora ha paura per la sua vita. E’ all’estero.
La Kabul Bank (ne ho scritto tante volte) è la più importante banca privata del Paese, simbolo del neocapitalismo afghano, ridotta a bancomat dei soliti noti, amici (e parenti) del potere, per spericolate operazioni immobiliari a Dubai. Da quando la banca centrale è intervenuto per salvare l’istituto di credito, ha denunciato il coinvolgimento dei vertici del governo ed ora Abdul Qadeer Fitrat ha paura per la sua vita. Il governo ha risposto emettendo un mandato di cattura e accusandolo di ladrocinii vari.

A pochi mesi dal suo faticoso insediamento (a settembre le elezioni e poi un lungo conteggio dei risultati), 62 neo-eletti in Parlamento su 269, pochi giorni fa, sono stati mandati a casa dalla corte speciale allestita da Karzai per combattere i brogli. Peccato che per questo ci sia la commissione elettorale indipendente e quella anti-frodi anch’essa indipendente e la mossa del presidente è stata quindi anticostituzionale. Del resto ci aveva provato quattro mesi fa a fermare l’insediamento della camera bassa (quella elettiva) di fronte alla sconfitta dei suoi candidati, ora l’esplosione a scoppio ritardato. La commissione elettorale ha rigettato la scelta di Karzai, ribadendo che gli unici risultati validi sono i suoi. Il Parlamento ho sfiduciato Karzai e il procuratore capo della magistratura afghana. Lo scontro istituzionale è totale, va in frantumi l’ultimo simulacro di democrazia a cui poteva aggrapparsi l’occidente.

Sul fronte strettamente bellico…beh le notizie continuano (purtroppo) ad abbondare…la Cnn è tornata nella valle del fiume Kunar  per constatare (la sintesi la faccio io) che nulla è cambiato in questi anni, colpi di mortaio arrivano e colpi di mortaio vanno…all day long!
Questo passaggio mi hanno colpito, è esattamente quello che ho visto io di persona: “A few days after the losses here, the unit dropped $3 million in bombs in just 24 hours. That stopped the attacks — for five days”.
Intanto mentre qualche on line italiano dimenticava di aggiornare il bilancio delle vittime ridimensionato rispetto alle prime notizie ben più drammatiche (se i drammi si misurano dal numero dei morti…), nella provincia di Logar morivano circa quaranta persone in un attacco suicida contro un ospedale. La massima attenzione mediatica l’ha avuta, in questi giorni, però la drammatica storia della bambina di otto anni a cui i talebani hanno messo in mano un bomba, fatta esplodere a distanza per colpire un gruppo di poliziotti. Nelle stesse ore (se la memoria non mi inganna), un kamikaze in sedia a rotella si è fatto esplodere in Iraq. Più che per le migliorate capacità delle forze di sicurezza ho come l’impressione che le forze anti-governative cerchino, nella loro macabra follia, espedienti del genere per riconquistare l’attenzione dei media…Un po’ come quel generale americano che ha calcolato i costi dell’aria condizionata per le truppe americane in Iraq e Afghanistan. Roba da mandarlo ad “arrostire” nell’aria a 50 gradi dell’estate nell’Helmand.

A  proposito in Afghanistan che succede? Mah, penso niente…niente di importante…

Il fango pakistano

C’è anche un risvolto politico nelle ondate di piena che stanno scendendo lungo il bacino idrografico dell’Indo, spostando sempre più a valle – verso sud e verso est – la tragedia pakistana, alluvioni che hanno colpito a vario titolo tra i tredici ed i quindici milioni di persone nel paese; una tragedia senza precedenti che va avanti da due settimane, forse senza l’attenzione mediatica che meriterebbe. Mentre l’emergenza si allarga, nel nord-est, nelle FATA (le aree tribali, pasthun, al confine con l’Afghanistan) dove inizialmente hanno colpito le piogge monsoniche – giorni e giorni dopo – non è nemmeno chiaro quale sia la situazione visto che è difficile passare tra le montagne se non a dorso di mulo. Anche perchè dopo le alluvioni stanno arrivando le frane.

Il presidente Zardari, vedovo della compianta Benazir Bhutto, mentre il suo Paese affondava nel fango, non ha ritenuto di lasciare il lungo tour europeo. In Inghilterra, dove le comunità pakistane sono numerose, si è preso – tra le altre contestazioni – persino una scarpa, tiratagli dalla folla di connazionali in stile-Bush. E’ stato un suicidio politico per un presidente già debole. Intanto sul campo si è visto l’esercito che ha guadagnato crediti agli occhi dell’opinione pubblica, una tirata a lucido per il potere forte della società pakistana e che di questo passo tornerà a piazzare un suo graduato sulla poltrona più importante del Paese. Nelle FATA, come nella valle dello swat, l’esercito si è visto di meno, anche perchè quella è una zona di guerra e non è casa sua. Lì comandano i talebani e si stanno vedendo sul campo ad aiutare i sopravvissuti le organizzazioni caritatevoli islamiche, molto spesso un punto a favore degli integralisti. Difficile pensare che i sei chinook (elicotteri da trasporto a doppia pala) mandati dagli americani oltre frontiera, possano riequilibrare la battaglia d’immagine che è in corso sul campo. Da quanto se ne sa, i risvolti politici che galleggiano nel fango pakistan stanno preoccupando sempre più i diplomatici americani.
Mentre nuove ondate di piena sono attese lungo il fiume Kabul e il fiume Kunar che dall’Afghanistan arrivano in Pakistan, non è chiaro che cosa succederà nei prossimi mesi ai vertici di un Paese decisivo quanto pericolo nella cosiddetta “guerra al terrore” o meglio per gli esiti della guerra sul confinante suolo afghano.

Tutti a casa (2)

Piro e Botta a Korengal np©08
Piro e Botta a Korengal np©08

La valle non è più la “maledetta valle”. Come racconta questo resoconto del NY Times l’esercito americano ha abbandonato Korengal, una spaccatura in mezzo a montagne di tremila metri coperte di foreste (quantomeno) secolari, nella provincia di Kunar, al confine con il Pakistan, che molti ricordano come la “maledetta valle” o la “valle della morte”. Nel gergo tecnico che i militari tanto amano e che, forse, serve loro a non spaventarsi quando si parla di vita o di morte, Korengal era il posto più cinetico di tutto l’Afghanistan, traduco: quello dove si spara e ti sparano dalla mattina alla sera. A rendere famosa la valle ci hanno pensato questa sua qualità, le vittime militari, quelle civili e alcuni giornalisti come Tim Heterrington (che ci ha vinto il world press award del 2008) e poi con lui Sebastian Junger, co-autore del documentario Restrepo che ha vinto il Sundace ed è da poco in circolazione (ecco il suo editoriale sul NY Times). La chiusura di KOP è uno di quegli argomenti polarizzanti che i militari americani discuteranno per anni e che forse finirà in un film (un primo “filmino” ce l’hanno già girato i talebani). Della chiusura di Kop (l’unica doccia al mondo dove l’aereazione era fornita dai buchi di una sventagliata di mitragliatrice) ha scritto anche l’analista militare Gianandrea Gaiani sul Sole24Ore che tra l’altro (e lo ringrazio) mi cita per i miei reportage dalla valle. La foto pubblicata sopra mi ritrae con Gianfranco Botta del Tg3 prima della partenza dal Kop, da qui anche la risata liberatoria di entrambi. Insieme vinceremo poi il Premio Alpi proprio per un pezzo girato lì.

Non vorrei fare un’analisi militare e strategica sulla chiusura di Korengal, anche perchè ne ho già parlato mesi fa in questo post, anticipando proprio la chiusura di quel “fortino”. Vorrei solo fare delle considerazioni assolutamente personali. La valle non è più maledetta perchè i militari l’hanno lasciata, chi è riuscito a lasciarla tutto di un pezzo può essere felice. Saranno felici anche gli abitanti dei piccoli villaggi di quella spaccatura nella roccia che continuiamo a voler chiamare valle, un pezzo di medioevo nel terzo millennio; forse ora potranno dimenticare il lato orribile della tecnologia che abbiamo portato lassù come gli AC-130 e i missili hellfire. Korengal è l’icona dell’assurdità della guerra. Per chi crede in questo valore, è anche un monumento all’eroismo, inteso come sacrificio fine a se stesso e senza farsi troppe domande. Pensare che Kop non ci sia più, fa venire un senso di desolazione: a che sono serviti anni di combattimenti, vite perse e tonnellate di bombe? A nulla, è la risposta. L’unico conforto può venire da una speranza, quella di tornare a vedere quelli che sono tra i paesaggi più belli del mondo, senza giubotto antiproiettile e un Apache pronto a tirarti fuori dai guai. Forse capiterà, un giorno.

“Restrepo” e la retorica anti-embed

Restrepo - Battle Company in Korengal
Restrepo - Battle Company in Korengal

I film sull’Afghanistan, in generale, sono pochissimi (la memoria corre al magnifico “Ritorno a Kandahar”), tra quelli sulla guerra (più recente) in Afghanistan ricordo solo “Leoni per Agnelli”. Pochi anche i documentari, per esempio il duro “Taxi to the Dark Side”. A questa lista si è da poco aggiunto un film-documentario che ha aperto e chiuso il festival di Sundance 2010, baluardo del cinema non-commerciale negli Stati Uniti. Lo ha chiuso perchè dopo la serata inaugurale del festival è tornato in scena durante la serata di premiazione; ha vinto la sezione dei documentari.

Il film si chiama “Restrepo”, e mi ci sento particolarmente legato pur non avendolo visto, perchè ho incrociato la strada degli autori e ho vissuto esperienze e luoghi raccontati in questo film-documentario oltre ad aver conosciuto sul campo, a Korengal, parte dei soldati che ne sono protagonisti, gli uomini della battle company della 173ma brigata aviotrasportata dell’esercito americo, 2ndo Battaglione “The Rock”.

“Restrepo” è stato girato da Sebastian Junger e Tim Hetherington. Il primo è famoso per il suo capolavoro letterario di docu-fiction “La Tempesta Perfetta” (da cui il film omonimo), con trascorsi da reporter di guerra in Afghanistan negli anni ’90. Il secondo, è un fotoreporter diventato famoso per aver scattato sempre nella valle di Korengal (meglio nota come la valle della morte provincia di Kunar, Afghanistan orientale) la foto che gli fatto vincere il world press award del 2008 (“la stanchezza di un uomo, la stanchezza di una nazione – qui per vedere la foto, entrambi scrivono per Vanity Fair). Il film ha un punto di forza: è stato girato lungo tutto l’anno di servizio nella valle, una decina di viaggi embed che hanno portato i due autori a coprire praticamente tutte le esperienze vissute da questi uomini nel luogo che incarna la guerra in Afghanistan e tutte le sue contrattizioni. (solitamente gli embed non arrivano ad un mese di durata per mille motivi pratici dei giornalisti che li svolgono). Gli autori hanno poi incontrato di nuovo gli stessi militari a Vincenza, dove la 173ma fa base, per raccogliere i loro ricordi su quell’infernale anno.

“Noi siamo già famosi” mi ha detto, una volta, uno degli anziani della valle (che nel film si vedono durante estenuanti e inconcludenti shura, riunoni tribali) durante la mia permanenza lassù, in uno scenario naturale bellissimo a parte i bombardamenti e le imboscate. Una frase che dice tutto sul destino di quella valle, ormai un’icona della guerra in Afghanistan citata persino in diverse menzioni di premi giornalistici (tra cui l’Ilaria Alpi, assegnato nel 2008 a me ed al collega Gianfranco Botta del Tg3) ed ora addirittura in recensioni cinematografiche.

“Restrepo” sembra straordinario (dico sembra perchè non l’ho visto- mi baso sulla mia conoscenza del lavoro dei due e sui materiali preliminari pubblicati in questi ultimi tre anni “in pillole” come articoli, servizi tv, ecc. ecc.). Un impietoso quadro delle contraddizioni e del tono di surreale della guerra in Afghanistan, con le quali devono ogni giorno confrontarsi le truppe occidentali, immerse in un’ambiente ostile o – nella migliore delle ipotesi – incomprensibile. Un film da vedere per capire meglio perchè in Afghanistan si gioca una sorta di “tris” sul campo di battaglia, il “tic-tac-toe”…un gioco dove alla fine non vince mai nessuno o meglio nessuno può vincere.

Restrepo - Junger ed Hetherington
Restrepo - Junger ed Hetherington

Commento. “Restrepo” è un film embed, ovvero girato al seguito delle truppe americane. Ha vinto il Sundance, icona dell’indipenza. Spero che tutto questo aiuti a superare una preconcetta e salottiera avversione all’embed, cominciata da quando questo termine è entrato in voga (Iraq 2003) sull’onda della (giustificata) rabbia contro una guerra sbagliata, tra le più assurde di sempre. La retorica anti-embed presuppone che articoli, servizi, reportage realizzati al seguito di militari non siano prodotti giornalistici degni di questo nome, diciamo anche non indipendenti, asserviti. Chi si nasconde dietro questa retorica dimentica che, quando non si chiamava embed, con queste modalità sono state raccontate pagine memorabili di guerra che altrimenti non si sarebbe potuto descrivere/mostrare: dallo sbarco in Normandia alla guerra civile spagnola – anche Robert Capa era embed! – per finire alla guerriglia anti-sovietica dei mujaheddin in Afghanistan. Inoltre alcuni fanno finta di non capire o non sanno che ci sono – per esempio nell’Afghanistan di oggi – zone dove semplicemente per i giornalisti non è possibile andare se non al seguito delle truppe, pena la vita o peggio (sofferenza per un intero Paese) un sequestro. Senza l’embed oggi non sarebbe possibile mostrare l’assurdità della guerra in Afghanistan, come dimostra “Restrepo” e tante altre pagine di bel giornalismo scritte di recente. Nel mio piccolo è la stessa cosa che ho provato a fare, trovandomi a scegliere tra non raccontare/mostrare nulla e farlo in modalità embed. Ho scelto la seconda opzione perchè ho sempre pensato che vedere un soldato che spara in mezzo ad inaccessibili montagne o una vittima, una sola vittima civile, oppure una famiglia in fuga dalla propria casa…beh che tutto questo valga centinaia di note ufficiali che fanno la conta delle vittime o di editoriali scritti da colti intellettuali; che lo valga a prescindere dal fatto che quelle immagini siano state riprese al seguito dei soldati occidentali, dei talebani o muovendosi autonomamente (come speriamo di poter fare, prima o poi in Afghanistan). Non sto dicendo che l’embed è il migliore dei mondi possibili, ma solo che ultimamente è molto spesso l’unico. Certo è uno strumento delicatissimo che si presta a manipolazioni e condizionamenti. Soprattutto richiede – forse più che in altri contesti – onestà intelluale, grande sforzo professionale, caparbietà e un sentimento di dovere ulteriore verso il pubblico cui spiegare anche in che condizioni si è lavorato affinchè chi guarda o legge possa fare la sua “tara”, al di là di quella già fatta (auspicabilmente) dall’autore.

Sabato notte, il reportage “Ritorno a Kunar”

Kunar, postazione americana di mortai np©09

“Ritorno a Kunar” è il titolo del reportage girato con il collega Gianfranco Botta nella valle del fiume Pech, provincia di Kunar, Afghanistan orientale, che andrà in onda sabato 23 gennaio su RaiTre, alle 0.45.

La valle è un corridoio naturale di collegamento con il Pakistan, un’area strategica per il controllo militare e la sicurezza di gran parte dell’Afghanistan sul versante orientale. I militari la chiamano “area altamente cinetica”, una definizione rassicurante per dire che questa è l’area dove si combatte di più di tutto il paese. E’ un’area dove si gioca una partita cruciale per il successo della strategia McChrystal (quella sulla base della quale Obama ha deciso di aumentare drasticamente il numero dei militari americani in Afghanistan). Strategia basata sul tentativo di coinvolgere la popolazione civile, rafforzare le istituzioni locali e dare alla gente quello che i guerriglieri non possono dare ovvero la

Postazione mortai - fob HM valle del fiume pech, provincia di Kunar

ricostruzione del paese: strade, ponti, scuole, lavoro.

Il reportage è un documento esclusivo che racconta di una guerra di cui si parla ormai tutti i giorni sui giornali e in tv ma che è per buona parte invisibile perchè si svolge in aree remote, spesso inaccessibili. E’ stato girato nel settembre del 2009 (quindi nel pieno della “fighting season”) ed è una sorta di seguito del reportage girato nella stessa area, nel marzo del 2008, sempre con il collega Gianfranco Botta, rispetto al quale abbiamo anche potuto formulare un giudizio sull’andamento delle cose.

Il racconto mostra buona parte delle difficoltà e delle contraddizioni
del conflitto afghano. In primo luogo il confronto (imboscate, bombardamenti) con un nemico invisibile capace di “colpire e scappare” mettendo in crisi la mastodontica macchina militare americana. Ma mostra anche luoghi bellissimi che sembrano fermi al Medio Evo ed i tentativi di vincere il supporto della popolazione civile.

Agenda del Mondo — Sabato 23 gennaio ore 045 RaiTre

Nuristan, una battaglia persa…di nuovo

Kunar, postazione americana di mortai. Dietro quelle montagna, il Nuristan np©09
Kunar, postazione americana di mortai. Dietro quelle montagne il Nuristan. np©09

Otto militari americani uccisi, due avamposti finiti sotto simultaneo attacco. E’ un film purtroppo già visto, l’episodio avvenuto ieri in Nuristan e le cui proporzioni, pur nei primi racconti, appaiono devastanti.

Un film già visto perchè il 13 luglio del 2008, gli uomini della compagnia chosen del secondo battaglione “The Rock” della 173ma brigata aviotrasportata si erano trovati protagonisti, loro malgrado, di una battaglia drammatica e dai tratti “epici”, di quelle che fanno la storia dell’esercito americano. Pochi mesi prima ero stato embed (con il collega Gianfranco Botta) nella loro area di compotenza (Task Force Bayonet) e quindi quell’episodio mi colpì particolarmente anche perchè conoscevo l’unità coinvolta e il complesso terreno sul quale si era svolta la battaglia, la montuosa area orientale del Paese e specificamente la provincia del Nuristan. Una battaglia durata una giornata intera con un avamposto americano (aperto solo pochi giorni prima) finito sotto attacco, quella di Wanat. Verrà chiuso poco dopo la fine degli scontri, conclusisi con un bilancio di 9 militari caduti, 27 feriti e racconti di uomini che hanno sparato fino all’ultima cartuccia, faccia a faccia con duecento talebani, nell’attesa di un supporto aereo arrivato tardi per vari motivi a cominciare dalla vicinanza con le case del villaggio; il tutto sullo sfondo di un comportamento poco chiaro della corrotta e debole polizia afghana e con l’aiuto della popolazione locale. La battaglia, una volta che Stars and Stripes ne diffuse i dettagli, venne subito definita la “black hawk down” dell’Afghanistan e sono certo che presto la vedremo sul grande schermo (segnalo la sintesi del Washington Post da leggere qui). I sopravvissuti sono stati in buona parte decorati, le vittime facevano tutte base a Vicenza.

Nelle ultime ore si è diffusa la notizia di una battaglia analoga, di cui ancora si sa molto poco. Due gli avamposti (probabilmente non basi operative avanzate ma le ben più piccole “firebase”) finiti sotto attacco nella stessa area al confine con il Pakistan, quella della provincia del Nuristan. In quell’area opera unità della 4rta Divisione di fanteria, con cui sono stato embed poche settimane fa.

Tredici le vittime, otto militari americani e due uomini dell’Anp, la polizia afghana. Ci vorrà almeno qualche giorno per capirne di più ma pare che l’attacco sia stato sferrato, complice la foschia della prima mattina di sabato, da milizie tribali guidate dagli uomini di Hekmatiar. L’attacco si è sostanzialmente concluso con l’intervento aereo, fonti americane riferiscono che contro i ribelli è stato letteralmente lanciato, sganciato, tutto il possibile. Del resto da quelle parti si applica una regola base dei combattimenti, quella dell’elevazione di quota: una volta che spari dall’alto hai una posizione di vantaggio difficilmente colmabile, e i guerriglieri che conoscono benissimo il terreno sanno come sfruttarlo soprattutto di fronte a basi che non possono non essere circondate dalle montagne e che, quindi, rispetto alle posizioni degli insorti si trovano in basso.
Per ora segnalo le prime ricostruzioni dal New York Times e quella ben più dettagliata dal Washington Post (richiede la registrazione, gratuita).

Chiusura della piccole basi. I due avamposti erano destinati ad essere chiusi perchè ormai l’Isaf, con la nuova dottrina McChrystal, ha deciso di concentrarsi sulle aree densamente popolate, ritirandosi (viste anche le risorse limitate) da quelle aree remote dove fanno base i guerriglieri ma che sono aree difficilissime. Il governatore del Nuristan, intanto, continua a parlare del pericolo, in caso di ritiro degli americani, di caduta della provincia nelle mani talebane e di guerriglieri in genere. Lo stesso tipo di allarme che all’inizio dell’estate aveva fatto scattare la complessa e faticosa offensiva di Barge Matal.

Museo di Kabul, una delle misteriose sculture nuristane  np©08
Museo di Kabul, una delle misteriose sculture nuristane np©08

Il Nuristan è una battaglia persa. Un terreno difficilissimo. Si tratta della regione più isolata dell’intero Afghanistan, tanto isolato che la leggenda (mai provata scientificamente ma apparentemente confermata dai “volti” degli abitanti locali) vuole che lì vivano gli “eredi” di Alessandro Magno, “eredi” ovvero dei soldati macedoni e comunque di quelli occidentali di passaggio in quelle valli nella loro marcia verso l’India. Un patrimonio genetico conservatosi fino ad oggi proprio per via dell’inaccessibilità di quelle valli. Inoltre il Nuristan, che significa letteralmente la terra della luce, fino ad un paio di secoli fa veniva definito il Kafiristan, ovvero la terra degli infedeli, i suoi abitanti vennero convertiti da una sorta di animismo all’islam grazie alla lama della scimitarra. Dal punto di vista orografico è una zona montuosa (vedi il bellissimo libro di viaggi degli anni ’50, “a short walk in the Hindu Kush”) fatta sostanzialmente da tre “valli”, da dove è possibile entrare solo dal versante inferiore e dove è impossibile spostarsi lungo l’asse est-ovest. In generale, è difficilissimo spostarsi e mantenere una presenza costante perchè è davvero complicato far arrivare i rifornimenti. Di recente, ho sentito racconti di soldati impegnati nell’offensiva di Barge Matal che, lì sù, erano rimasti persino senz’acqua.

Foto-grafie

Scrutatrice in un seggio elettorale a Kabul - agosto 2009 ©np
Scrutatrice in un seggio elettorale a Kabul - agosto 2009 ©np

Ho aggiunto al blog una nuova pagina, quella delle foto…per vedere basta cliccare qui oppure su uno dei tab, le “linguettine” che compaiono sulla home pagina, sotto la foto di testata. All’interno della pagina ci sono una serie di link che portano direttamente al mio spazio su flickr.com il sito “fotografico” dove conservo il mio materiale, c’è anche un link a fine pagina che porta a tutto l’elenco dei “set”, le gallerie tematiche nel caso a qualcuno potesse interessare.