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La banda del buco

Affittate una casa a trecento metri di distanza dal carcere di Kandahar. Metteci dentro un nutrito gruppo di fiancheggiatori talebani che per mesi scavino un tunnel, così profondo da passare sotto la trafficata “ring road” e sotto un paio di posti di blocco. Un tunnel che passi sotto il muro altissimo del penitenziario, un muro rinforzato come il resto della struttura dopo l’attacco del 2008 con un autobomba che portò all’evasione di mille talebani ed a giorni di dolorosi attacci contro la città.

Beh! prendete tutto questo e alla fine non avrete un film ma una storia vera: questa. Perchè tutta questa storia è accaduta per davvero. Nella notte tra Pasqua e l’italica pasquetta, il tunnel è arrivato sotto una cella del braccio politico della prigione, è stato sfondato il pavimento di cemento, spostato il tappetto che lo copriva e nel buco si sono calati quasi 500 detenuti, quasi tutti talebani, compresi numerosi capi. Dall’altra parte ad aspettarli c’erano macchine col motore accesso. Solo 26 fuggiaschi sono stati ripresi, altri 2 uccisi in un conflitto a fuoco.
Un fatto gravissimo l’ha definito il presidente Karzai, del resto se in quel buco sono entrate 100 persone all’ora, ci sono volute quasi cinque ore per farli fuggire tutti. Un po’ troppo per non sospettare che abilità o meno dei talib, dentro la prigione ci fossero degli appoggi consistenti alias basisti tra i secondini. O meglio qualcuno più importante dei secondi visto che nei giorni scorsi è stato arrestato il capo della prigione e si è scoperto che i servizi di intelligence sapevano del possibile attacco, che i detenuti talebani avevano il diritto a visite dall’esterno, copie delle chiavi delle celle e telefonini…

Ma il vero problema, oltre all’inaffidabilità delle forze di sicurezza afghane alle quali gli occidentali cominceranno a breve a passare le consegne, è la fuga in sè. La stagione dei combattimenti è cominciata, i ranghi dei talebani erano stati fortemente indeboliti dai raid delle forze speciali, vanificati in una notte. Quei capi e quei soldati talebani sono di nuovo in giro, militari afghani e stranieri se li troveranno presto di fronte sul campo di battaglia nella ostica provincia di Kandahar che tante vite è costato sin’ora provare a riportare ad un minimo di controllo. E’ questo il buco più profonde di tutta questa storia di scavi e di tunnel…

Idioti transoceanici

Anche a Kandahar arriva l’onda di odio anti-occidentale che sta scuotendo l’Afghanistan. Una decina i morti, diversi i feriti, i giornalisti aggrediti e tenuti a distanza dal corteo che stamane ha attraversato la città patria del movimento talebano. Una nuova, probabilmente non l’ultima, manifestazione islamista come quella di ieri a Mazar-i-Sharif una delle città più tranquille dell’Afghanistan dove pero’ la folla inferocita ha dato l’assalto alla locale sede dell’Onu, quattro guardie – esperti gurka nepalesti – travolti dai dimostranti, uccisi come i tre funzionari delle Nazioni Unite, un norvegese, un romeno, uno svedese. La polizia che spara sulla folla e fa altre vittime, almeno cinque e diversi feriti. E’ il peggior attacco di sempre contro l’Onu in Afghanistan, persino peggiore dell’attacco alla foresteria di Kabul nell’autunno del 2009.

A scatenare questa violenza la notizia di un pastore americano, esponente di una chiesa minore (fatta in casa – in America si può), che sulla scia degli annunci fatti dal pastore Terry Jones in settembre, ha processato, condannato e bruciato una copia del Corano. E a chi lo accusa di aver causato quelle vittime oggi Jones risponde, non è colpa mia ma solo dello spirito violento della religione islamica.
Una storia che ci conferma come la stupidità bigotta che abita nella più remota provincia americana possa fare danni incalcolabili anche oltreoceano, a migliaia di kilometri. Ci dice anche un’altra cosa: fermo resto che la dinamica dell’assalto mi sembra ancora molto strana e che ci potrebbero essere stati errori nella sicurezza del compound Onu, se fosse vero che i talebani hanno agito mescolandosi alla folla si confermerebbe la loro ormai ridotta capacità di colpire obiettivi militari limitandosi a “soft target”. Stamane, inoltre, hanno provato a colpire camp Phoenix, la base americana nella città di Kabul, con un commando suicida vestito in burqa. Assalto fallito.

Un click per Joao

A rileggerla oggi, purtroppo, la storia professionale del fotografo portoghese Joao Silva suona come una sorta di segno premonitore; noto per essere uno dei quattro fotoreporter del “bang-bang club” che si dedicarono a coprire la violenza di strada nel Sud Africa del post-aparteheid negli anni ’90.

Joao Silva è stato gravemente ferito nella provincia di Kandahar, saltato su una mina mentre era al seguito della quarta divisione di fanteria dell’esercito americano. Lo ha reso noto il New York Times, per conto del quale era in Afghanistan. La dinamica dell’incidente non è chiara e forse non lo sarà fin quando – speriamo presto – Joao sarà in grado di raccontarla. Soprattutto per chi lavora con le immagini ed ha bisogno di spostarsi alla ricerca di cambi di campo e inquadrature alternative, lavorare al seguito delle truppe in Afghanistan è sempre più rischioso soprattutto quando si avanza anticipando la colonna o il convoglio a cui si è aggregati. Soprattutto al sud, favoriti dal terreno piatto (a volte desertico a volte coperto da una fitta vegetazione e dai canali dell’irrigazione, trincee “naturali”) i ribelli ricorrono in maniera sempre più massiccia agli IED, gli ordigni nascosti e sempre meno individuabili. Ormai il loro potere esplosivo è cresciuto talmente tanto da non rendere indispensabile l’ “imbottitura” con schegge metalliche e chiodi che ne aumentano la forza distruttrice (come sparare migliaia di proiettili in ogni direzione, allo stesso momento) ma le rendono anche visibili ai metal-detector. L’incidente è avvenuto nel distretto di Arghandab, l’area che gli americani da mesi stanno provando a riportare sotto controllo con piccole operazioni diffuse, dopo il fallimento della spettacolare quanto vana offensiva della relativamente poco distante Marja nel febbraio scorso

Silva è l’ennesimo giornalista che viene seriamente ferito (o muore, per fortuna non è questo il caso) durante un embed sul mobile e sfuggente fronte afghano. Non è chiaro quanto gravi siano le ferite riportate da Silva, ferite che sarebbero concentrate alla gambe. Il sito di Silva racconta del suo straordinario lavoro, visitarlo è forse l’unico modo che abbiamo per stargli vicino in un momento del genere.

Svolta in Afghanistan

Da dicembre 55 soldati dell’esercito nazionale delle isole Tonga verranno schierati in Afghanistan, prima parte di un contingente che in totale arriverà a 275 unità (sempre in turni di 55). Il parlamento ha votato il loro dispiegamento con 22 voti a favore e nessun contrario, giustificando la risposta alla chiamata del governo britannico con la necessità di rispondere al problema della disoccupazione. I soldati di Tonga guadagneranno 30 sterline al giorno e verranno impiegati in compiti di force protection, ovvero sorveglianza della principale base britannica, Camp Bastion nell’Helmand. Un impiego che ha fatto giudicare la missione più sicura di quella svolta in Iraq nel dopo-2003. Qui la notizia dal Matangi on line. Qui dal britannico daily telegraph. Tonga ha solo 100mila abitanti, quindi è il Paese che in assoluto contribuisce alla missione Isaf col maggior numero di truppe in rapporto alla popolazione. Il titolo ironico non è dovuto alla qualità dei soldati di Tonga, quanto al fatto che il loro dispiegamento in Iraq sollevò clamore perchè fu la riprova che la coalizione di George Bush in realtà non era che un monocolore americano. Se oggi il governo britannico deve spendere 2.6 milioni di sterline (dai trasporti alle divise) e occuparsi anche dell’addestramento per dare un po’ di fiato al suo malandato esercito, messo alle corde dalla missione afghana, beh non è davvero un buon segno.

Il (grande) gioco intorno al Mullah Baradar

Ho aspettato circa un mese prima di commentare, con questo post, la notizia dell’arresto del mullah Baradar, il capo militare dei talebani, considerato molto vicino al mullah Omar (mi astengo dalle numerazione tipo numero due dell’organizzazione o dalla definizione di braccio destro, visto che queste organizzazioni hanno sempre dimostrato di avere molte braccia). Ho aspettato perchè la notizia aveva ed ha del clamoroso troppo per non prendersi del tempo per provare a capire cosa fosse successo davvero. Le rivelazioni degli ultimi giorni sono un aiuto in questa direzione. Ma andiamo con ordine.

A metà febbraio il NY Times apprende della notizia dell’arresto ma, su richiesta della Casa Bianca, ne ritarda la pubblicazione. Dopo lo scoop del giornale newyorkese, il 17 febbraio, le autorità pakistane confermano la cattura – inizialmente definita dalla stampa americana come un segno della nuova collaborazione tra Cia e ISI, i rispettivi servizi segreti dei due Paesi (per approfondire vedi qui). Successivamente viene fatta circolare la versione (che suona davvera come un modo per metterci una pezza diplomatica) di un arresto tutto sommato nato per caso. La cattura – tra l’altro – avviene (casualmente?) durante l’offensiva di Marjah, l’ “opening salvo” come la definisce il generale McChrystal di un’operazione su più aree critiche del Paese, destinata a durare mesi.
Negli stessi giorni vengono arrestati altre tre quadri intermedi dei Talebani, sempre in Pakistan, come i governatori “ombra” delle province di Baghlan e Kunduz. Successivamente, il 7 marzo, l’Ap diffonde la notizia dell’arresto di Adam Gadahn, il portavoce statunitense di Al Qaeda, notizia poi smentita ma che se confermata avrebbe confermato un totale cambio di scenario in Pakistan.

Il Pakistan è il padre politico e finanziario (con la tasca dei sauditi e dei contribuenti americani) del movimento dei talebani, ed è questa una verità storica ormai inconfutabile. E’ altrettanto certo che i capi dei talebani e di Al Qaeda (Bin Laden incluso, se ancora vivo) si nascondano in territorio pakistano e che nello stesso territorio ci siamo i campi di addestramento dove il movimento è rinato militarmente nel post-2001. Lo chiamiamo sospetto ma è una quasi-certezza quella che l’ISI, i servizi pakistani, sappiano precisamente dove siano i loro nascondigli, finora (quasi  mitologicamente) immaginati tra le montagne al confine tra i due paesi mentre poi si scopre che Baradar viveva a Karachi. Sin’ora i pakistani, nella loro controversa alleanza con gli Stati Uniti non hanno mai fornito piena collaborazione, se non forse sul versante dei cosiddetti talebani pakistani che tanti problemi stanno creando al governo di Islamabad, per cui questa serie di arresti poteva rappresentare una svolta radicale, storica, in questo complicato rapporto. Ma non è così stando alle rivelazioni di Kei Eide.

L’ex-inviato Onu per l’Afghanistan, in un’intervista di fine mandato alla Bbc del 19 marzo, racconta che l’arresto di Baradar ha interrotto le trattative segrete tra Nazioni Unite e Talebani. E’ la conferma di prima mano all’indiscrezione diffusa dalla Ap il quindici marzo che raccontava di un Karzai furioso dopo l’arresto di Baradar, suo contatto tra i Talebani, anche per la poca chiarezza del ruolo americano nella vicenda. Baradar, secondo le fonti citate dall’Ap e vicine a Karzai, sarebbe stato disponibile a partecipare alla jirga della pace ad aprile.
Secondo Eide: “The effect of [the arrests], in total, certainly, was negative on our possibilities to continue the political process that we saw as so necessary at that particular juncture,” – ovvero l’arresto ha chiuso un canale di comunicazione e mandato all’aria un anno di lavoro – “The Pakistanis did not play the role that they should have played…. They must have known who they were, what kind of role they were playing, and you see the result today” – ovvero nuove ombre sui pakistani dei quali è anche difficile vedere una strategia univoca (l’ISI segue chiaramente una propria politica fuori dal controllo e dalle intezioni del debole governo Zardari). E’ ipotizzabile che vogliano alzare il prezzo del caos afghano e chiarire che senza il loro intervento qualsivoglia trattativa non sia nemmeno immaginabile. Intanto, sullo sfondo della vicenda, continua il braccio di ferro sull’estradizione di Baradar in Afghanistan – dove gli americani avrebbero totale accesso al prigioniero, cosa che non starebbe accadendo durante la sua detenzione in territorio pakistano.

Ma lo scenario delle interpretazioni ha anche tutta una serie di sotto-varianti, per esempio quella che gli americani abbiano deliberatamente voluto fermare il canale diretto di Karzai per evitare che le trattative si aprissero prima delle prossime operazioni militari nel Paese, pensate per “ripulire” aree chiave come Kandahar e Kunduz – (fresca la rivelazione di un alto ufficiale tedesco su una prossima offensiva anche nel nord). Per meglio capire i rapporti tra Karzai e Baradar si veda questa analisi che cita , oltre al rapporto tribale tra i due, anche un episodio successivo all’ingresso di Karzai nel paese nel 2001.
Da ultimo c’è anche la possibilità che il mullah Omar contrario ad ogni tipo di trattativa abbia “impacchettato” Baradar e in qualche modo abbia favorito il suo arresto.

Il grande gioco è così grande che non se ne riesce a vedere la fine diceva “qualcuno”…

Due morti in dieci giorni, addio alla tregua invernale

Rupert Hamer - The Sunday Mirror
Rupert Hamer - The Sunday Mirror

Quando muoiono dei militari in Afghanistan, ricomincia il dibattito su perchè siano stati mandati così lontano da casa e cosa stiano facendo laggiù. Quando muore un giornalista, la risposta è semplice e non richiede un dibattito sulla guerra al terrore: era laggiù per raccontare cosa sia davvero la guerra. A tutti, in particolare – in tempi di festività – a chi stappa lo spumante e taglia il panettone al caldo della propria casa con l’unico pericolo che qualche imbecille spari a mezzanotte un fuoco d’artificio illegale. Perchè una guerra si può raccontare solo dalla prima linea.

“If I blow up, I’ll blow up”. Se salto in aria, salto in aria – si ripetono, quasi sempre, prima di partire in convoglio i militari (e i giornalisti) che stanno salendo su un mezzo “blindato” in Afghanistan. Per fortuna, non capita quasi mai, quasi…ma lo spettro dell’esplosione ti accompagna per tutto il percorso e oltre.

Il nitrato d’ammonio è un magnifico fertilizzante, in Pakistan si può comprare anche quello ad alta concentrazione: l’ideale per “impastare” una bomba come quelle che nei freddi comunicati militari vengono definite “homemade bomb”, ordigni fatti in casa. L’utilizzo di fertilizzante piuttosto che di vecchie munizioni (colpi di mortaio, rpg e varie che in Afghanistan abbondano) rende l’IED così prodotto virtualmente invisibile ai metal detector, perchè di metallo non ne contiene affatto.

Proprio per l’esplosione di un ordigno del genere, ieri, come capitato sin’ora a centinaia di militari, è morto un altro giornalista: Rupert Hamer del britannico “The Sunday Mirror”. Stava viaggiando con un convoglio di US Marines nella provincia di Hellmand, con lui sono morti un militare americano e uno afghano, altri quattro sono stati seriamente feriti. Assieme ad Hammer c’erà un fotoreporter della stessa testata, Philip Coburn, 43 anni, ferito ma in condizioni definite stabili (una rassicurazione sul fatto che non è a rischio della vita ma definizione che nulla dice sulla portata delle sue ferite). Hamer è il secondo giornalista embed nel sud del paese con le truppe occidentali, a venir ucciso dopo Michelle Lang del “The Calgary Herald” – morta in circostanze analoghe.

Nel suo ricordo del collega scomparso, il giornale britannico scrive:

Rupert believed that the only place to report a war was from the front line, and as our defence correspondent he wanted to be embedded with the US marines at the start of their vital surge into Southern Afghanistan. One of his last acts was to organise a special Christmas newspaper produced solely for the troops packed with messages from loved ones which was flown out by the RAF three weeks ago. He was a fine, fearless, and skilled writer who joined the paper 12 years ago. Affectionately known as Corporal Hamer in the office, he was a gregarious figure , a wonderful friend who was hugely popular with his colleagues”.

La morte di Hammer come l’uccisione della Lang al di là della loro drammaticità, incancellabile per chi fa il loro stesso lavoro e per chi (magari senza rendersene conto di quanto sia complesso produrli) legge, guarda o ascolta i racconti da un paese in guerra, mette in evidenza un dato nuovo sul fronte afghano. Nel sud del paese sembra si stia smentendo un classico assioma: ovvero che la guerra in Afghanistan è una guerra stagionale, interrotta da una “climatica” tregua invernale. Un apparente cambiamento che sarà il caso di tenere sotto controllo nelle prossime settimane. Per ora ci resta l’amarezza di due colleghi morti a cavallo tra dicembre e gennaio, il periodo più tranquillo (almeno sin’ora) per stare in prima linea, di solito richiesto dalle testate solo per celebrare il natale e il capodanno dei militari all’estero. Non a caso Hammer aveva appena realizzato un numero speciale della sua testata pensato proprio per le feste natalizie del contingente britannico. Chiamatelo pure scherzo del destino, non riporterà in vita nè Lang nè Hamer, nè i militari morti assieme a loro.

Troppe coincidenze nei cieli afghani

Iniziano davvero ad essere troppi e troppo concentrati gli incidenti aerei in questa prima metà di luglio, per non preoccuparsi di quello che sta succedendo nei cieli afghani. Questa la lista degli incidenti a cui mi riferisco:

08/07/09 poco dopo il decollo cade un elicottero militare canadese “Griffon” nella provincia di Zabul, tre le vittime (due soldati britannici e uno canadese, riaprendo tra l’altro le polemiche sugli errori del governo di Londra in una gara d’appalto di alcuni anni addietro per l’acquisto di ch-47)

14/07/09 un elicottero Mi-26 di un contractor moldavo cade nei pressi della (perennemente sotto attacco) fob britannica di Sangin (provincia di Kandahar). Per le autorità locali e per la compagnia è stato abbattuto da un non meglio precisato missile. Sei le vittime, tutte civili, alle quali si aggiunge una bambina afghana che si trovava a terra.

– 18/07/09 un F15 della US Air Force si schianta nella provincia di Ghazni (Afghanistan orientale) dopo poche ore i portavoce militari ritirano i primi comunicati e confermano la morte dei due “Top gun” a bordo. Viene negato il “fuoco nemico”, l’equipaggio del caccia in missione con quello precipitato – riferisce l’AP – precisa ulteriormente di non aver visto segni di attacco. Il comunicato ufficiale precisa: “While we know it was not hostile fire, we will not speculate on what may have caused the crash, this can only be determined after the thorough investigation of trained investigators.”

19/07/09 un elicottero Mi-8 di un contractor russo (la Vertikal-T) si schianta al decollo dall’aeroporto militare di Kandahar, sedici le vittime, tutti civili a bordo del veivolo. Cause ignote ma fonti militari, come al solito dichiarano:  “what we do know is that it was not a result of insurgent activity”

19/07/09 un elicottero dell’esercito americano è costretto ad un atterraggio d’emergenza nei pressi di un avamposto nella provincia di Kunar, dal quale stava decollando. Il comunicato precisa. “There was no enemy activity in the area at the time”

– 20/07/09 al decollo dall’aeroporto di Kandahar si è schiantato un tornado britannico, i due piloti sono riusciti a salvarsi grazie ai sedili “ejettabili”.

Che cosa sta succedendo? E’ difficile dirlo, per ora, ma è evidente che tutti questi incidenti non possono essere una coincidenza. L’Afghanistan è uno dei posti del mondo dov’è più difficile e più necessario volare. Difficile per la quota, le condizioni climatiche spesso estreme, l’ambiente che va dal deserto all’alta montagna, il costante pericolo di attacchi. Necessario perchè l’afghanistan ha solo una strada per ampi tratti degna di questo nome (la ring road). La regola è strade sulle quali per percorrere 100 km ci possono volere 4 come 24 ore. E’ per questo motivo che il tallone d’achille di Isaf ed Enduring Freedom sta proprio nel supporto aereo, in particolare gli elicotteri sono sempre troppo pochi rispetto alle necessità e quei “pochi” che ci sono, sono ultrasfruttati. Mentre la “ricostruzione” dell’aeronautica di Kabul è ancora solo un esperimento, è forte il ricorso ai contractors, per lo più per il trasporto di acqua in bottiglia (sì, siamo in Afghanistan appunto) edi  altri materiali. Un lavoro che disolito fanno vecchi elicotteri sovietici (bianchi, ne ho visto alcuni persino con le insegne dell’Onu reduci da chissà quali missioni africane) robusti ma disarmati, un bersaglio più facile dei veivoli militari.

Alla luce di tutto ciò, non è difficile capire perché nel conflitto tra sovietici e mujaheddin quando quest’ultimi vennero dotati (dalla Cia) degli stinger nell’87, la sconfitta sovietica divenne una certezza. Lo stinger è un missile “a spalla” pensato per abbattere elicotteri ed aerei, ovvero per azzerare – in quel caso – il vantaggio chiave dei russi sugli afghani, la forza aerea.

Questa, per ora inspiegabile, catena di incidenti preoccupa e non poco. Troppo strano che si tratti di coincidenze, troppo presto per capire se si è materializzato lo scenario peggiore per gli occidentali (che conservano due vantaggi sui ribelli, forza aerea e visione notturna) ovvero che i talebani siano riusciti ad acquisire armi in grado di mettere sistematicamente a rischio i veivoli nemici. Se così fosse la Missione afghana sarebbe seriamente ipotecata. Fonti militari mi hanno spiegato che il monitoraggio degli attacchi aerei è molto attento al comando Isaf perchè dal loro ritmo dipende il passo delle operazioni. Certo la mancanza di rivendicazioni (tranne che l’episodio di Sangin) non fanno protendere per l’ipotesi peggiore, ma se tutti questi incidenti sono dovuti – come alcune fonti militari, confidenzialmente, hanno ipotizzato in colloqui con il sottoscritto – a manutenzioni per forza di cose frettolose e all’iperutilizzo dei mezzi (e dei piloti), beh non ci sarebbe mica da star tranquilli.

Ps: forse con inconsapevole autoironia, ho scritto questo post a bordo dell’aereo passeggeri dell’Aeronautica italiana (il “volo di Stato”) che ha portato in Afghanistan il ministro La Russa. Per la prima volta un veivolo italiano “senza contromisure” (ovvero senza flares, senza armi, ecc. ecc.) attera ad Herat, speriamo sia l’inizio di un utilizzo più selettivo dei C-130 e del trasporto “in teatro” con i “charter” Boeing o Airbus, civili, gli stessi che portano fino ad Abu Dhabi (da qui si procede poi per l’ultimo tratto in C-130).  Sarebbe un bene per i C-130 e per le truppe sottoposte ad un viaggio davvero pesante e che ho condiviso con loro decine di volte.

La mappa del “terreno umano”

Herat np © 2009
Herat - np © 2008

Prendete un comandante di compagnia (ovvero un giovane ufficiale) mettetelo a capo di una Fob (una base operativa avanzata) magari in una remota valle dove, per esempio, da secoli non si vede il segno di un’autorità esterna (esercito, polizia, governo, ecc. ecc.) diverso dagli anziani della tribù dominante (perchè spesso ce n’è più di una sullo stesso territorio). Beh, mi è capitato di vederne diversi in Afghanistan e francamente l’impressione che ne ho avuto è che stessero provando a fare un lavoro (quello del mediatore culturale) per il quale non erano stati formati. Insomma che le forze armate (a prescindere dal paese di provenienza) gli stessero chiedendo di fare qualcosa diversa da quella per la quale avevano studiato. Diversa dal combattere, diverso dal garantire la sicurezza, diverso dal ricostruire (che pure per un militare, salvo gli specialisti delle cellule CIMIC, non è un compito standard). Qualcosa che al di là degli sforzi dei singoli (che per mia esperienza personale ho visto essere notevoli) non poteva che essere raggiunto con degli specialisti, da non confondersi ovviamenti con l’intelligence che – a scando di equivoci – fa un altro lavoro.

Human Terrain” è il nome del progetto avviato in Afghanistan da qualche tempo (non con gran tempismo) dalle forze armate americane, unità di antropologi o comunque esperti del paese (genericamente social scientist), che seguono le truppe e che dovrebbero appunto colmare quel “vuoto” di competenze che indicavo sopra, evitando quei fraintendimenti che possono portare a conseguenze catastrofiche. Dovrebbero insomma “disegnare” la mappa del “terreno umano” (o meglio del contesto socio-culturale).

Sin’ora se n’è parlato molto poco se non per un episodio tragico: il 4 novembre scorso nella provincia di Kandahar, una specialista del programma (forse perchè non indossava il velo – non è chiaro) è stata data alle fiamme da un abitante di un villaggio poi arrestato. Poco dopo, un collega della donna (un altro contractor, ex-guardia del corpo del presidente iracheno e di quello afghano – non chiedetemi perchè fosse considerato un social scientist) lo ha ucciso, in quella che è sembrata una vera e propria esecuzione (oggi è accusato di omicidio di secondo grado, per vendetta). La descrizione più completa della vicenda ritengo sia questa di wired news. Dallo stesso articolo ecco un estratto che sintetizza tutte le critiche piovute sul progetto HT:

Inside the military, there was been intense criticism of BAE’s hiring and training practices. Researchers have been hired who have never even visited -– much less studied –- the areas in which they’re supposed to serve as experts. Social scientists have been thrown off of their teams, and even sent home early from Iraq. Qualified candidates were booted out of the program, for flimsy reasons. Civilian academics, on the other hand, have blasted the program for putting both researchers and research subjects at risk.

Un articolo pubblicato di recente è il primo, che mi risulti, frutto di un embed con un team HT. E’ stato pubblicato sul Men’s Journal di Febbraio e l’ha scritto Robert Young Pelton, autore (più che giornalista) noto per le sue numerose “avventure” (il termine che lui stesso usa) in aree di crisi. Beh, vi consiglio di leggere i commenti in coda all’articolo, lo stile gigionesco del pezzo, l’omissione e gli errori in alcuni dettagli tecnici, l’impressione di un’esasperazione dei toni nel racconto e di una tesi precostituita da raccontare ecc. ecc. hanno scatenato le reazioni (furiose) di tanti militari (e non). Reazioni per giunta molto ma molto puntuali come si può vedere dal blog di “Bill and Bob’s…” . Leggendolo ognuno può farsi un’idea, conservo i miei dubbi sulla gestione del progetto HT (che condivido come idea pur tardiva) ma ho trovato il pezzo faticoso da leggere proprio per il suo stile “splendido”; soprattutto l’ho trovato poco utile alla comprensione. L’ho letto con avidità perchè dal primo pezzo del genere mi sarei aspettato altri dettagli sul progetto in sè, piuttosto che righe su righe di descrizioni con metafora e impressioni personali dell’autore (lo stesso dubbio che ho sul lavoro di Ross Kemp, dove però le immagini aiutano a compensare il tutto) che, alla fine della fiera, non penso aiutino a capire qualcosa in più della situazione in Afghanistan.

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