Tag: kamikaze

Da Roma a Kabul


Oggi al liceo Mamiani di Roma, la FNSI e l’associazione Articolo 21 hanno celebrato la giornata mondiale per la libertà di stampa. Sono stato invitato a parlare della situazione dei giornalisti afghani, la giornata è stata dedicata ai 10 colleghi uccisi nel Paese il 30 aprile, ma ha affrontato le minacce all’informazione dalla Turchia all’Italia.

La giornata della libertà di stampa a Roma from Nico Piro on Vimeo.

 

La libertà di stampa in Afghanistan from Nico Piro on Vimeo.

Per riascoltare tutti gli interventi clicca qui (da Radio Radicale)

La nuova paura afghana

E’ un mosaico indecifrabile l’Afghanistan e la tessera che si è aggiunta oggi rende il quadro ancora più complesso da capire. E’ una tessera che fa paura, si chiama scontro settario ovvero violenza inter-religiosa.
Dello scontro tra etnie (tagiki contro pashtun, principalmente) l’Afghanistan sa purtroppo molto ma – al contrario dell’Iraq e in parte del Pakistan – non ha conosciuto nella sua storia recente scontri tra sunniti e sciiti.
La confessione minoritaria mussulmana è diffusa prevelantemente tra le fila dell’etnia hazarà in Afghanistan, un’etnia che quando ha subito rappresaglie (e ne ha sofferte di orrende) le ha subite perchè etnia, non in quanto comunità religiosa.

Stamattina a Kabul si è aperto un altro scenario. I pellegrini sciiti stavano entrando nella moschea vicino al fiume quando un kamikaze mescolato alla folla si è fatto esplodere. Il bilancio parla di più di cento feriti e di oltre di cinquanta vittime. Una strage tra le peggiori per Kabul in questi ultimi dieci anni.
Quasi in contemporanea stamane una bici bomba esplodeva nei pressi di una moschea a Mazar-i-Sharif, nel nord, facendo almeno quattro le vittime. Un altro attentato a Kandahar, nelle stesse ore, pare non fosse legato alle celebrazioni sciite.

Oggi abbiamo assistito non solo alla smentita ma addirittura alla (incredibile!) condanna dei talebani che attraverso il loro portavoce hanno preso le distanze dagli attentatori.
Inedita la rivendicazione arrivata da un gruppo anti-sciita pakistano.
Se alle violenze anti-governative, quelle legate al narco-traffico, dovessero aggiungersi quelle settarie davvero sarebbe difficile persino pronunciare la parola Afghanistan si farebbe prima a chiamarlo “inferno”.

Un messaggio, questo di oggi, che arriva dritto alla Conferenza di Bonn dove non si è parlato di pace (per via del boicottaggio pakistano in polemica con gli Usa) ma dove i paesi donatori hanno garantito che sosterranno il governo di Kabul anche dopo il 2014 ovvero dopo il ritiro delle truppe, con aiuti finanziari.
Obiettivo: evitare l’effetto Najibullah. Ritiratisi i sovietici, crollato l’Urss, chiuso il rubinetto dei fondi da Mosca, l’apparato statale afghano si trasformò in macerie spalancando la porta alla guerra civile.

La morte porta il turbante

E’ la terza volta negli ultimi mesi che un kamikaze colpisce con una bomba nascosta nel turbante, “sacro” per ogni afghano del sud perchè è la cosa più intima che un pasthu possa indossare. O almeno è questo il conteggio che ho fatto io, considerando gli attacchi alla moschea dove si celebrava la memoria dell’appena ucciso “re” di Kandahar, il fratello di Karzai, e poi l’assassinio del sindaco della stessa città. Oggi il turbante è esploso in una casa di Wazir Akbar Khan, il quartiere residenziale di Kabul, dove molti ex-signori della guerra hanno costruito le loro case.  La sto prendendo alla larga – lo ammetto – ma la notizia di cui sto scrivendo è di una gravità senza precedenti nel senso che avrà ripercussioni di lungo termine e merita di essere raccontata bene nei dettagli.

Quando la bomba è esplosa oltre a decapitare il kamikaze ha ucciso l’uomo che lo stava abbracciando ovvero l’ex-presidente Burhanuddin Rabbani, che guidò l’Afghanistan dopo la caduta di Najibullah (l’ultimo leader filo-sovietico) prima di venir anch’egli cacciato ma quella volta dai talebani.
Rabbani aveva avuto da circa un anno l’incarico di guidare il consiglio per la riconciliazione nazionale alias di occuparsi delle trattative di pace con i talebani. Ed è stato ucciso proprio mentre incontrava una delegazione di ribelli. Un altro segnale di come le infiltrazioni talebane ormai siano sempre più capillari negli apparati di sicurezza e più in generale governativi.

Rabbani aveva le mani sporche di sangue, come tutti quelli che hanno preso parte alla guerra civile e al massacro di un’intera città, Kabul, negli anni ‘90. Mi dispiace dirlo nel giorno della morte di uomo perchè non vorrei essere frainteso: niente può giustificare un omicidio; ma è un elemento importante per capire che non è stato ucciso un eroe nazionale nè qualcuno a cui il popolo afghano era particolarmente vicino. Infatti la sua scelta come capo dell’High Peace Council aveva sollevato non poche polemiche, figlia dell’ennesima alchimia etnico-politica di Karzai, l’equilibrista.
Eppure, nonostante questi elementi, l’omicidio di oggi avrà effetti di lungo periodo perchè rappresenta il timbo a cera lacca sul fatto che le trattative di pace in Afghanistan sono al momento impossibili.

Negli ultimi due anni abbiamo sentito ripetere come un mantra dai vertici militari e politici della coalizioni che bisognava sedersi al tavolo delle trattative con un posizione di forza ecco perchè intanto i marines avanzavano (e morivano) tra i canali d’irrigazione della green zone, la zona coltivata lungo il fiume Helmand. Al momento l’impressione è che la posizione di forza (almeno sul piano psicologico e del rapporto con la popolazione) l’abbiano raggiunta i talebani, con una serie di attacchi nel cuore delle città e una raffica di omicidi mirati alias una campagna di terrore su vasta scala.

Non solo sarà adesso difficile trovare un sostituto con l’autorevolezza (perchè questa non gli mancava) di Rabbani ma soprattutto oggi si è rotta un’usanza quella che consente a due avversari afghani di incontrarsi, magari tra mille ipocrisie ma senza farsi del male, anche se poi dopo i saluti si ricomincia a spararsi addosso.
L’episodio di oggi crea un tale clima sospetti e diffidenze che renderà sempre più difficili incontri trasversali e clandestini come quelli necessari a portare avanti un processo di pace. Un omicidio condotto in maniera audace che contribuisce a diffondere nel Paese quella sensazione di insicurezza, la sfiducia in un governo incapace di difendere sè stesso e i suoi uomini.
Un omicidio che fa pensare per la sua dinamica infida all’uccisione di Massoud, ammazzato da due finti giornalisti con telecamera al tritolo.

La settimana scorsa il leader dell’organizzazione ribelle forse più pericolosa del Paese, ovvero il network Haqqani, si era fatto sentire con la Reuters (cosa molto rara per Sirajuddin, il giovane Haqqani) annunciando che i suoi uomini avrebbero deposto le armi se i talebani si fossero pronunciati a favore della pace.
Chiacchiere per ora, mentre il numero dei militanti che hanno effettivamente deposto le armi a fronte del programma per il reinserimento nella società (incentivi alla rottamazione dei kalashnikov…) è andato ben oltre i suoi obiettivi con 2500 miliziani usciti dalla clandestinità. Purtroppo sono solo soldati semplici delle forze anti-governative per lo più attivi non nelle zone più calde del Paese. Anche il processo guidato sin’ora da Rabbani non era riuscito a scalfire il nocciolo della dirigenza ribelle che ormai sembra aver capito che, forse, combattere consentirà loro di riprendersi tutto il Paese senza dover mediare con nessuno, del resto c’è solo da aspettare fino al 2014 mentre Karzai è un uomo sempre più solo. Il presidente più solo del mondo come racconta questa esclusiva del britannico, The indipendent…

http://tashakor.blog.rai.it/2011/09/21/la-morte-porte-il-turbante/

Assalto alla Banca – 1

Ieri un commando di talebani ha dato l’assalto ad un filiale della Kabul Bank a Jalalabad, città chiave nell’est del Paese, lungo la rotta tra la capitale ed il Pakistan. Il commando di kamikaze ha fatto diciotto vittime e una settantina di feriti. La banca è la tesoreria delle forze di sicurezza ed ieri era giorno di paga per poliziotti e soldati. Ma l’attacco di Jalalabad fa il paio con gli ultimi due avvenuti a Kabul e mette in evidenza come i talebani e le forze anti-governative in genere stiano ormai cambiando tattica nel colpire i centri urbani.

A Kabul pochi giorni fa, un attentatore suicida ha provato a colpire il Kabul City Center, un centro commerciale nel quartiere di Shar-e-Now. Un segno della rinascita della capitale quando aprì alla fine del 2006, con la prima scala mobile e il primo bancomat del Paese. Un posto che conoscono tutti a Kabul, in particolare gli occidentali. L’attentatore suicida è stato fermato dalla guardie del centro, quelle che ogni volta che entravi ti perquisivano e ti facevano lasciare telefonini e chincaglieria varia nella vaschetta prima di passare nel metal detector. Un controllo sommario, che negli aeroporti americani definirebbero “profiling” ovvero guardare in faccia chi entra piuttosto che guardare solo allo scanner. Forse per questo sono riusciti subito a fermare il kamikaze, evitando una strage. Sono morte entrambe le guardie, fa sempre impressione quando muore qualcuno, di più quando muore qualcuno che – anche se non personalmente – hai conosciuto, che ti ha sorriso perchè nelle tasche avevi un chilo di metallo vario. Forse è una consolazione (leggi qui) sapere che sono morti da eroi, hanno salvato vite mentre i poliziotti dell’Anp facevano l’ennesima approssimativa figura.

L’altro attacco recente che a Kabul ha praticamente rotto una tregua che durava da sei mesi e che nemmeno le elezioni parlamentari erano riuscite a scalfire, ha toccato un altro luogo popolare tra gli stanieri e gli afghani più ricchi. Un luogo al quale sono legato perchè la prima volta che sono arrivato in quella palazzina nella piazza di Wazir Akbar Khan, era un mezzo rudere che all’ultimo piano ospitava il satellite di un service turco, dove spesso giornalisti italiani hanno bivaccato per giorni.
Un amico che lavorava in quell’approssimativa struttura, tra generatori che saltavano, freddo e macchine divorate dalla polvere, mi parlava sempre della gente che abitava nel palazzo, per lui ricchi commercianti (vendevano tappeti) e dei bambini che giocavano nel cortile. Quella famiglia era riuscita nell’ultimo anno e mezzo ad aprire un supermercato, con le gigantografie a ricoprire la palazzina in stile “Dubai”, modello estetico di riferimento se a Kabul vuoi costruire qualcosa di “moderno” (proprio come al Kabul City Center e la sua facciata ricoperta di vetri a simulare un grattacielo – vetri sostituiti da lastre di plastica dopo un attacco kamikaze di anno fa, che hanno meglio resistito all’attacco di cui scrivevo sopra).
A fine gennaio, l’attentatore suicida è entrato nel supermarket Finest ed ha fatto otto vittime, sterminando anche la famiglia di un professore dell’università di Kabul che era lì per fare spese.

Questi episodi sono ormai troppo simili per dirci che si tratta solo di episodi, anche se l’attacco contro una banca non è una novità, lo è questo determinazione a colpire “soft target”, luoghi in cui si può esercitare del terrorismo puro, obiettivi che non sono nè militari nè politici, obiettivi dove è più facile arrivare e dove si colpisce gente inerme, spingendo ancora di più tante persone a rintanarsi in case protette da filo spinato e guardie armate, diffondendo la paura con l’impressione che si può essere colpiti in ogni luogo e momento.
Mi chiedo se si tratti solo di un cambio di strategia “pensato” oppure di una necessità perchè gli obiettivi “classici” di attacchi del genere sono sempre più protetti (vedi convogli militari e basi varie).
Questa seconda interpretazione sarebbe però smentita da episodi di questa ondata recente di attacchi a Kabul, come quello contro un pulmino di dipendenti dell’NDS, i servizi segreti afghani, il 12 gennaio scorso, e contro un bus di militari dell’Ana a dicembre. Più probabilmente, se nell’ultimo anno e mezzo le truppe occidentali hanno provato a lavorare “sulla popolazione”, ovvero sulle aree più popolate per garantirne la sicurezza, questa potrebbe essere la chiara risposta dei ribelli proprio per sgretolare ogni sensazione che esistono in Afghanistan luoghi sicuri.

Attacco ad Herat, perchè preoccuparsi

Cinque kamikaze; indosso il burqa a coprire la cintura esplosiv; l’ormai classica tecnica del primo che si fa esplodere per aprire la strada agli altri che irrompono sparando; la reazione delle guardie della sicurezza che riesce a fermarli, uccidendoli. Secondo le ultime ricostruzioni, sarebbe questa la dinamica dell’attacco di stamane alle sede Onu di Herat. Un’attacco che, per fortuna, è andato a vuoto. Oltre agli attentatori, ci sarebbero solo un paio di guardie ferite, il personale delle Nazioni Unite è riuscito a rifugiarsi nella “strong room” dell’edificio, al sicuro. Nel pomeriggio sarà poi evacuato nella vicina base italiana, Camp Arena, all’aeroporto di Herat, dove passerà la notte.

Nonostante sia fallito, l’attacco di oggi è preoccupante. Se nell’ottobre del 2009, poco prima del (poi cancellato) ballottaggio delle elezioni presidenziali, a Kabul era stato colpita una guest house utilizzata dalle Nazioni Unite, uccidendo sei funzionari di Unama, è la prima volta che si colpisce una sede ufficiale della missione – un salto “mediatico” di qualità. Ed è la prima volta che un attacco così massiccio e potenzialmente devastante, viene condotto ad Herat che sin’ora – nonostante il peggioramento degli ultimi mesi – è stata considerata una città sicura per gli standard afghani. Del resto la responsabilità della sicurezza nell’area urbana potrebbe essere presto passata formalmente alle forze di sicurezza afghane, in quel processo (in parte sostanziale, in parte simbolico) che vuole dare “visibilità” al disimpegno delle forze Isaf. 

Più che la rivendicazione talebana, fatta pervenire all’agenzia AFP, in realtà è la dinamica a portare la firma degli studenti coranici, in un ‘area dove si intrecciano interessi di potenti locali e dei potenti vicini iraniani e dove quindi è facile equivocare l’origine di certi fenomeni. Che cosa possa significare questo attentato è presto per dirlo. Come l’attacco alla sede di UsAid (la cooperazione statunitense) di quest’estate in un’altra ex-area sicura, Kunduz, potrebbe però essere un nuovo segno della strategia della guerriglia di espansione dell’area di operazioni. L’obiettivo è sempre più di portare il terrore in tutto il Paese, in maniera più diffusa e più omogenea guardando la mappa. E’ una risposta mediatica, strategica e logistica alle offensive Isaf in aree come l’Helmand e Kandahar (vedi questi aggiornamenti dal campo pubblicati da NY Times e AFP nei giorni scorsi) che stanno spingendo i guerriglieri a lanciare attacchi nel resto del Paese, perchè per loro è impossibile fronteggiare direttamente le truppe organizzate di un potente esercito regolare come quello americano ma è molto facile diffondere il terrore, destabilizzare altre aree e “fare notizia”. Devono inoltre, spesso, spostarsi per trovare rifugio e per cercare aree dove è più facile colpire, “sbilanciando” le truppe straniere ormai sempre più concentrate sul sud.

Non è ancora chiaro se l’attacco di Herat di oggi faccia parte di questa strategia, di certo è un segnale da tenere sotto controllo con grande attenzione. Dopo la “caduta” del Nord-Est (ormai segnato da una fortissima presenza di guerriglieri, afghani e non), il nord-ovest con l’eccezione di alcune sacche (come l’ “italiana” Bala Morghab) è ancora parzialmente stabile. Il che vuol dire che potrebbe essere il prossimo bersaglio di una campagna di attacchi dall’alto profilo mediatico, come avrebbe potuto essere quello di oggi, e di terrore a vasto raggio per destabilizzare le autorità localo. In questo le province nord-orientali di Taqar e Kunduz offrono un copione almeno in parte, tristemente, replicabile.

Nuova escalation a Kabul

Se con l’attentato del 15 agosto contro l’Isaf, i talebani hanno dimostrato di poter colpire anche sin davanti la porta di casa della missione militare internazionale in Afghanistan, se con quello del 17 settembre, che ha visto morire sei militiari italiani, hanno dimostrato di poter portare un’inedità quantità di esplosivo nello stesso super-sorvegliato quartiere della città; gli attacchi di oggi segnano una nuova escalation nell’offensiva talebana sulla capitale, ma questa volta significativa non tanto per la loro capacità militare (ormai appurata) quanto per la natura dei bersagli.

A venir colpiti sono stati due obiettivi “civili” , il messaggio chiaro è che non ci sono più zone franche a Kabul e che (come annunciato dai talebani nel loro proclama anti-elettorale) sono un obiettivo tutti coloro che collaborano alle elezioni, in primis quindi gli occidentali che – per motivi di competenze – hanno un ruolo centrale nel processo. Non esistono più zone franche se si considera che la guest house (una sorta di bed&breakfast – nella capitale ce ne sono tantissimi) per il personale Onu attaccata oggi è in una zona notoriamanete controllata dai signori della guerra, dalla mafia dei nuovi ricchi che dopo il 2001 ha preso quell’area con la forza per poi costruirci sopra case in stile pakistano da affittare a cifre astronomiche. Una zona, il distretto di Sherpur, nella quale non c’erano di fatto mai stati attacchi e che è piena di guest house, di case di diplomatici e di uffici di media internazionali.

Al riguardo vedi per esemio questo video dell’attacco, girato da una delle case vicine dall’operatore Craig Johnston. Precisamente Craig l’ha girato da una delle postazioni live usate da molte tv internazionali per le dirette (Tg3 incluso), qualcuno rinoscerà lo sfondo che, per esempio, mi ha “accompagnato” durante le elezioni che i giorni della strage del 17 settembre.

Il Serena Hotel, l’altro obiettivo colpito, è una sorta di consiglio di sicurezza onu in sede periferica; battute a parte, si tratta di un albergo di lusso dove trovano posto tantissimi diplomatici, esperti di ricostruzione, consulenti, giornalisti e umanità varia. Quindi, di nuovo, quasi in contemporanea colpito un altro “legame” tra occidentali e processo elettorale afghano. C’è da notare che il Serena viene colpito con razzi (pur insolitamente precisi, a riprova che i talebani hanno più tempo per lanciarli sono quindi più sicuri sul campo) non con un attacco “di terra” come avvenuto invece nell’inverno 2008.