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Terrore

Sarei tentato di chiamarle venti ore di battaglia, in realtà parliamo di venti ore di terrore.
Con l’attacco a Kabul di martedì, il più lungo e il più articolato di questi dieci anni di guerra, i talebani (o piú probabilmente gli uomini di Haqqani, ma cambia poco) sono riusciti a portare ad una nuova frontiera il livello di paura nella quale gli afghani vivono immersi ormai da anni.
Perchè a guardare bene, il bilancio dell’attacco non ha nulla di clamoroso: pochissimi i danni materiali, undici le vittime. Sia ben inteso, anche solo un morto è troppo ma se si guarda agli attacchi a cui l’Afghanistan è abituato, spesso il bilancio degli attacchi (che per giunta ricevono un’attenzione mediatica minima) è ben maggiore.
Eppure i talebani sono riusciti a riconquistare le prime pagine dei giornali di tutto il mondo, dopo mesi di “rinnovata” disattenzione verso l’Afghanistan. Appunto perchè hanno fatto leva sul terrore, su un nuovo livello di terrore, ed hanno dimostrato che per shockare un’intera città, paralizzare il suo quartiere più sorvegliato, tenere una capitale in scacco per quasi un giorno e ridicolizzando le forze di sicurezza locali possono bastare solo una decina di militanti votati al suicidio. Un’equazione vincente nell ‘algebra del terrore.

I fatti sembrano semplici nel loro essere clamorosi. I terroristi arrivano in città, burqa indosso. La polizia non ha agenti donna per perquisire “sospetti di sesso femminile”. E inoltre la rete di sostegno ai ribelli dentro la polizia e l’esercito è ampia.
Prendono posizione in un alto palazzo in costruzione, alto undici piani, come sta accadendo sempre piú in una città ormai malata della febbre del mattone. Salgono agli ultimi piani (vedi le immagini della Bbc) dove probabilmente avevano già nascosto armi e munizioni a volontà (o per loro l’avevano fatto dei fiancheggiatori). Dal lí in alto il campo è aperto, la linea di tiro sgombra, si vede chiaramente la fortificata ambasciata americana e la cittadella murata del quartiere generale Isaf. Comincia la pioggia di fuoco soprattutto con razzi a spalla. In contemporanea partono gli attacchi diversivi, almeno tre kamikaze (forse quattro) sono in azione in città. Uno si fa esplodere presso la sede dell’Anbp, la polizia di frontiera, gli altri sarebbero stati bloccati dalla polizia, uno di certo all’aeroporto. Piovono razzi anche nel resto della città, ma (mi sembra di aver capito) sparati dalle colline vicine alla capitale non da quel palazzo in costruzione.
In cielo si vedono anche gli elicotteri dell’aviazione afghana oltre che quelli Nato ma, come durante l’assalto all’hotel intercontinental del giugno scorso, stanare cinque talebani assediati da forze almeno cinquanta volte superiori in termini numerici sembra impossibile. Ci vogliono ore, ben venti. L’assedio finisce all’alba del giorno dopo

Certo non è facile agire in un contesto del genere. Dover fare i conti con chi si è barricato in alto, al coperto (quindi anche al riparo dagli elicotteri) con la possibilitá di controllare e forse minare l’unica scala d’accesso, è uno degli incubi delle forze di sicurezza. Non a caso lo Swat team di Los Angeles, il primo della storia, venne creato proprio dopo che un cecchino folle si era barricato su una torre dell’orologio. E le forze speciali afghane non sembrano essere state sin’ora addestrate a fare i conti con questi scenari, del resto sin’ora a Kabul i palazzi cosí alti si contavano sulle dita di una mano.

Al di là delle spiegazioni tecniche, è questa una parte importantissima del successo talebano di martedì. Hanno dimostrato agli afghani che il governo non è capace di difenderli cosí come gli occidentali non riescono a difendere le loro “case” super-protette di Kabul, si tratti di ambasciate o del quartier generale dell’Isaf. Hanno dimostrato che cinque “martiri” possono mandare in crisi centinaia di “infedeli” o di “amici degli infedeli”, per usare le parole della loro propaganda. Un messaggio sicuramente più forte e comprensibile dagli afghani di quanto possano esserlo le piccate parole di condanna di Rasmussen, il segretario generale della Nato, o quelle altrettando dure del presidente Karzai.

Il nuovo ambasciatore americano a Kabul ha letteralmente ragione, quando minimizza l’azione talebana (un po’ di razzi sparati da un chilometro di distanza) ma il punto non sono nè i danni, nè le vittime, nè l’effettiva portata dell’attacco. Il punto sta nel fatto che i talebani hanno segnato e vinto la partita, perchè sono riusciti a far percepire la loro forza e a terrorizzare un’intera città. E il fatto che ci siano riusciti solo con un po’ di razzi sparati da un chilometro di distanza peggiora le cose per le forze di sicurezza locali, non le semplifica.

La guerra continua:
di mezzo ci sono sempre loro, sempre più vulnerabili, i civili afghani.

Sabbia rossa

Operazione Sabbia Rossa ©Isaf 2011

E’ arrivata la primavera ma in Afghanistan non è solo una questione climatica, in luoghi come Bala Morghab (luoghi resi inaccessibili dalla neve in inverno) è l’inizio della stagione dei combattimenti. Puntuale è arrivata l’operazione Red Sand (sabbia rossa) condotta da uomini del 10mo cavalleria dello US Army, con il supporto dell’aviazione americana e degli italiani con compiti di osservazione, ovvero supporto agli scouts del Red Platoon nell’individuare i movimenti nemici. L’operazione, come raccontano le fotografie, è stata “pesante” soprattutto per quanto riguarda il supporto aereo, sono stati sganciate bombe GBU-38 (da 250 chili) e aerei B-1, bombardieri d’alta quota. Ed è consistita nell’uscire dalla cosiddetta bolla di sicurezza, l’area ritenuta sotto controllo da parte delle truppe occidentali, intorno alla Fob Columbus, fino a raggiungere una base talebana dove si producevano ordigni ied – racconta la nota dell’ufficio stampa Isaf. Diversi guerriglieri sono stati uccisi.

Al di là di come si sia svolta l’operazione (nella remota provincia di Badghis mancano fonti indipendenti), è evidente che ci

bombardamento sul bunker talebano ©isaf 2011
bombardamento sul bunker talebano ©isaf 2011

dice una cosa non secondaria, ovvero che (bolla o non bolla) la situazione nella valle del fiume Morghab resta ancora fuori controllo a quasi tre anni dall’arrivo della prima presenza stabile di militari occidentali. Bala Morghab è il fronte italiano più caldo, o almeno caldo come quello nell’ex-opbox Tripoli, a sud, sull’altro versante dell’area di operazioni Rc-West, a comando italiano. Nelle prossime settimane anche nella zona si completerà il dispiegamento della Folgore e vedremo altre operazioni del genere.


Sollievo Lisbona

Un mio amico afghano mi ha fatto notare che TA’ON in dharì significa sconfitta, una parola che suona quasi come Nato/Otan pronunciata all’afghana. Eppure al summit di Lisbona, della sconfitta (sia come opzione del conflitto sia come situazione attuale sul campo) non si è parlato.
Anche la lettura dei giornali di oggi, mi ha confermato l’impressione che mi avevano fatto ieri i lavori del summit. Lisbona è stata usata dai Paesi membri e partecipanti come una specie di pillola anti-depressiva, un modo per darsi un po’ di sollievo rispetto a quello che è ormai il rompicapo afghano e offrire una prospettiva all’opinione pubblica nazionale.

Prima di tutto, nessuno (media inclusi) hanno sottolineato come a Lisbona la guerra sia stata prorogata di altri quattro anni, ovvero che si è passati dall’impegno di Obama di un anno fa di iniziare il ritiro nel 2011 alla data del 2014. E’ anzi “passata” la notiza che il 2014 è la data del ritiro, un sollievo per molti Paesi europei che vivono ormai con sempre più imbarazzo le difficoltà della missione afghana e non ammettono pubblicamente la sua evoluzione da missione di peace-keeping a missione bellica. Ma è bastato fissare la data del 2014 per far contenti tutti, perchè così i governi coinvolti potranno chiedere ai propri elettori di resistere un tempo prefissato in vista della fine della missione e magari sentirsi liberi da impegni verso l’alleato americano. Sia chiaro, non è cosa da poco che si sia deciso un calendario (2011-2014) per passare le consegne ad esercito e polizia afghani della sicurezza nelle province afghane, da quelle più stabili (per esempio la nostra Herat) a quelle più turbolente favorendo così il disimpegno delle truppe occidentali. Purtroppo però il ragionamento fatto a Lisbona è totalmente unilaterale e teorico, si dà per scontato che la situazione del conflitto in questi anni migliorerà, si dà per scontato che le trattative di pace produrranno risultati, si dà per scontato che le forze di sicurezza afghane, in condizioni discusse e discutibili, siano pronte effettivamente ad assumersi quelle responsabilità quando verranno chiamate a farlo. Tutte variabili non in totale controllo della coalizione Isaf e sulle quali, tra l’altro, c’è solo un apparente accordo visto che, per esempio, gli stessi Stati Uniti si sono rifiutati di dire che il loro “combat role” finirà nel 2014.

Senza dimenticare che anche se nel 2014 le operazioni di combattimento dovessero finire, l’assistenza militare straniera agli afghani e quindi la presenza militare straniera in Afghanistan non finirà in un attimo.

Inoltre il passaggio di consegne non necessariamente significherà una riduzione della pressione sui contingenti stranieri interessati. Facciamo il caso degli italiani che lasceranno agli afghani Herat, questo probabilmente significherà un maggior impegno in aree più calde come Farah e Bala Morghab. E’ già successo quando abbiamo lasciato agli afghani la sicurezza (tra virgolette) di Kabul per ritrovarci poi maggiormente impegnati nell’area ovest con un escalation non da poco.
Inoltre l’Italia è l’unico Paese (escludo riferimenti a Tonga e altri contributori minori di truppe) che continua ad aumentare il proprio contingente (i canadesi – complimentati come i nostri da Obama – stanno facendo i bagagli), come stabilito giorni fa dai vertici militari arriveranno altri 200 istruttori che sono in pratica il 5% in più rispetto ai 4000 uomini già schierati (o meglio rispetto ai quali abbiamo già preso un impegno).

A proposito, altra notizia passata sotto la copertura radar, i russi tornano in Afghanistan tra apertura delle rotte logistiche, invio di istruttori militari, fornitura di elicotteri, anti-droga. Vent’anni dopo la ritirata attraverso l’Amu Darya, corsi e ricorsi storici.

Svolta in Afghanistan

Da dicembre 55 soldati dell’esercito nazionale delle isole Tonga verranno schierati in Afghanistan, prima parte di un contingente che in totale arriverà a 275 unità (sempre in turni di 55). Il parlamento ha votato il loro dispiegamento con 22 voti a favore e nessun contrario, giustificando la risposta alla chiamata del governo britannico con la necessità di rispondere al problema della disoccupazione. I soldati di Tonga guadagneranno 30 sterline al giorno e verranno impiegati in compiti di force protection, ovvero sorveglianza della principale base britannica, Camp Bastion nell’Helmand. Un impiego che ha fatto giudicare la missione più sicura di quella svolta in Iraq nel dopo-2003. Qui la notizia dal Matangi on line. Qui dal britannico daily telegraph. Tonga ha solo 100mila abitanti, quindi è il Paese che in assoluto contribuisce alla missione Isaf col maggior numero di truppe in rapporto alla popolazione. Il titolo ironico non è dovuto alla qualità dei soldati di Tonga, quanto al fatto che il loro dispiegamento in Iraq sollevò clamore perchè fu la riprova che la coalizione di George Bush in realtà non era che un monocolore americano. Se oggi il governo britannico deve spendere 2.6 milioni di sterline (dai trasporti alle divise) e occuparsi anche dell’addestramento per dare un po’ di fiato al suo malandato esercito, messo alle corde dalla missione afghana, beh non è davvero un buon segno.

Pietre (e teste) rotolanti

Sembra un dejavù, eppure è tutto vero. Era circa un anno fa quando dalla Casa Bianca arrivava la scelta di fare fuori il capo della missione militare in Afghanistan, il generale McKiernan dopo l’ennesima strage di civili (avvenuta nell’italiano comando di nord-ovest). Obama voleva cambiare pagina, voleva persone nuove al comando capaci di dare un segno di discontinuità e attuare una nuove strategia per l’Afghanistan, la sua – quella sbandierata in campagna elettorale. Ecco perchè decise di fare come Truman durante la guerra di Corea e sostituì, senza troppi complimenti, McKiernan con McChrystal (vedi qui). Oggi, tredici mesi dopo, è McChrystal ad essere rimosso o meglio a vedere accolte “le sue dimissioni”. Eccole nella lettera che il comando Isaf da Kabul si è affrettato a distribuire nel rispetto della forma ma di fronte ad una sostanza che è ben diversa:

Statement by General Stanley McChrystal

This morning the President accepted my resignation as Commander of U.S. and NATO Coalition Forces in Afghanistan. I strongly support the President’s strategy in Afghanistan and am deeply committed to our coalition forces, our partner nations, and the Afghan people. It was out of respect for this commitment — and a desire to see the mission succeed — that I tendered my resignation.

It has been my privilege and honor to lead our nation’s finest.

Il motivo della cacciata di McChrystal, che probabilmente lo porterà alla pensione visto che la sua carriera militare è virtualmente finita, è  in questo articolo (The Runaway General) pubblicato il 22 giugno dal magazine americano “Rolling Stones” dopo un mese trascorso al seguito del generale da Michael Hasting (suo il non-imperdibile libro autobiografico I Lost My Love in Baghdad: A Modern War Story). Un articolo che ha il merito di mettere tra virgolette, ovvero con citazioni testuali, le tensioni nel vertice che dovrebbe governare la strategia afghana alias le già note e/o sospettate tensioni tra McChrystal e il vicepresidente Biden, l’ambasciatore americano Eikenberger e Holbroke l’inviato di Obama per l’area Af-Pak. Cose intuite e intuibili da mesi ma è tutta un’altra storia leggerle in questa esclusiva corrispondenza dall’interno del ristretto gruppo di lavoro del generale più potente del mondo (ormai ex). Senza considerare l’aggiunta delle critiche al presidente (“comandante in capo” di tutti i militari americani, McChrystal incluso). I modi spicci e le frasi dove “shit” diventa il sinonimo pressochè di qualsiasi cosa, fanno parte della cultura dalla quale proviene McChrystal – quella delle forze speciali e – francamente – non mi fanno molta impressione anche se hanno sollevato il grosso del clamore negli Stati Uniti molto attenti alla forma quando è sinonimo di disciplina. Il punto critico dell’intera vicenda, a mio avviso, è quello di un quadro dove la Casa Bianca e i suoi uomini sono ridotti a controfigure (ben al di là dell’immaginabile) e “tutto il potere” è finito nelle mani di un solo uomo che lo utilizza con la spregiudicatezza di una “special op forces” ma senza la statura istituzionale dovuta alla gravità del caso.
Inattesa (vedi per esempio qui tra gli articoli della vigilia) ma inevitabile la rimozione di McChrystal da parte di un presidente mai apparso così debole (complice il caso BP e le passeggiate solitarie sulle spiagge del Golfo). Il punto però adesso è un altro ovvero cosa sarà della strategia afghana di McChrystal? Obama si è affrettato a dire che non cambierà (vedi qui) ma McChrystal non ha solo comandato la missione afghana come accaduto ai suoi predecessori, l’ha anche profondamente rimodellata nel bene e nel male. Per esempio, aumentando la presenza sul territorio e quindi i combattimenti, restringendo in maniera estrema le norme sui bombardamenti aerei e mettendo al centro di ogni azione, il ruolo della popolazione locale. Insomma, la sostituzione di McChrystal non è cosa facile anche se non è di certo di basso profilo la scelta del suo sostituto, il generale Petraeus, il re delle flessioni risbattuto da Tampa, Florida, nel mezzo di un nuovo caos come quello afghano ben diverso dal conflitto iracheno da cui era uscito “vincitore”. Petraeus è in parte ispiratore della strategia di McChrystal ma non sarà facile per lui indossare un abito su misura, cucito per qualcun altro. Tutto ciò non farà altro che sottrarre tempo a scelte cruciali che dovranno essere prese a breve, a cominciare da una valutazione obiettiva di questi mesi di aumento delle truppe e della presenza militare straniera, voluta proprio da McChrystal e in qualche modo estorta alla Casa Bianca con la vicenda di quel rapporto segreto del generale recapitato al Washington Post – vicenda che oggi assume tutto un altro valore.

La maledizione dell’Afghanistan sembra colpire ancora, qualunque Paese straniero si ritrova impegnato in quel Paese finisce con il ritrovarsi destabilizzato al suo interno

Un’ultima osservazione, il lungo articolo di RS merita di essere letto anche perchè racconta aspetti sin’ora inediti del personaggio McChrystal, della cui carriera si sa molto poco; carriera solitamente aggettivata come shady – per via del suo ruolo al vertice delle forze speciali – è in buona parte coperta da quello che in Italia chiameremmo segreto di Stato.

Fare Scuola

Posa della prima pietra - Scuola "Ramadù - Pascazio"
Posa della prima pietra - Scuola "Ramadù - Pascazio"

Mentre, lunedì, a Bala Morghab il convoglio italiano finiva sotto attacco, più a sud nella provincia di Herat, quasi in contemporanea, il Prt italiano posava la prima pietra di una scuola. Verrà intitolata al sergente maggiore Massimiliano Ramadù e al caporal maggiore scelto Luigi Pascazio, i genieri della brigata alpina Taurinense uccisi proprio in quell’attacco. La notizia è arrivata dal comando italiano, poco dopo la fine dei funerali dei due caduti. Gli americani di solito intitolano ai caduti le loro basi (Fob Tillman, Camp Blessing…), gli italiani hanno scelto una scuola – mi sembra una differenza non da poco, al di là della retorica della missione di pace a cui ormai non crede più nessuno. Un gesto che, tra l’altro, forse contribuirà anche a dare un po’ di sollievo a famiglie dei due alpini, il cui dolore sarà comunque incancellabile.
Mi ha fatto piacere leggere quel comunicato – subito dopo, però, ho provato a guardare al 2020 o forse solo al 2015. Mi sono chiesto che cosa sarà di quella scuola tra dieci anni? Qualcuno in Afghanistan proverà a leggere quei due cognomi stranieri pensando a quello che hanno contribuito a fare per il loro paese o il tempo, la guerra, il caos avranno intanto cancellato tutto? Insomma mi chiedo quanto durerà la guerra e cosa resterà di quello che gli occidentali stanno facendo, nel bene e nel male, in Afghanistan. Sarà il dolore per queste due nuove vittime italiane, per gli altri occidentali che continuano a morire in giro per il paese, per le tante vittime afghane che “non fanno notizia” ma ogni giorno è sempre più difficile credere che il 2013 sia un obiettivo realistico per la fine della guerra.

Colpo diplomatico

Tra le righe di un articolo del New York Times di oggi spicca, chiara e tonda, una critica alla diplomazia italiana in Afghanistan. Critica riferita al suo periodo d’oro, conclusosi da poco, quando nostri ambasciatori occupavano alcuni tra i posti chiave della missione internazionale. Questo articolo racconta (non senza entusiasmo) di una nuova figura che sta emergendo nel panorama diplomatico afghano, ovvero quella di Mark Sedwill, nuovo rappresentate civile della Nato nel paese. Il diplomatico britannico viene descritto come una figura molto dinamica capace di rapportarsi bene al Generale McChrystal e di completarne la strategia sul versante civile e della ricostruzione – pare di capire – anche inserendosi nella diatriba tra McChrystal e un altro (ex) generale, l’attuale ambasciatore americano in Afghanistan, Eikenberry che proprio sul lato “civile” dovrebbe supportare McChrystal se con lui non avesse troppi disaccordi.
Nell’articolo, compare un passaggio sul predecessore del diplomatico britannico: Mr. Sedwill expanded what had been a sleepy NATO civilian operation under his predecessor, Fernando Gentilini, an Italian diplomat. Mr. Gentilini had a staff of just 6 people; under Mr. Sedwill, the staff is expanding to 24, drawn from the United States, Britain, Denmark, Canada and Australia.

L’articolo continua descrivendo le capacità di Sedwill
nel mettere in discussione il lavoro di ogni paese dell’alleanza sul fronte della ricostruzione, una buona notizia di certo (se l’attitudine porterà a qualcosa di concreto), ma se letta assieme alla definizione di “sonnachioso”
per il “nostro” precedente mandato…beh, l’Italia non ne esce bene da questo articolo della stampa americana. In realtà, l’Italia è già uscita male dalla partita diplomatica afghana quando non è stata in grado di difendere la “titolarità” dell’ambasciata (chiamiamola così per brevità) europea in Afghanistan, retta fino a marzo da Ettore Sequi (molto rispettato nel panorama politico afghano e in quello delle diplomazia dell’orbita della missione) oggi sostituito da un omologo lituano – scelto sicuramente (?) anche sulla base del contributo nazionale alla missione in Afghanistan dove i lituani hanno ben 170 militari nella remota (quanto affascinante, in vero) e nient’affatto strategica provincia di Ghwor…A proposito, le truppe lituane a breve dovrebbero aumentare di venti unità. L’Italia si appresta ad averne sul campo quasi quattromila a partire dalle prossime settimane.

Cattiva informazione o fonti cattive?

La notizia diffusa ieri sera dall’edizione on line del London Times, ovvero che avrebbero confessato i tre italiani arrestati (perchè ormai di fermo non si può più parlare) dai servizi segreti afghani, è stata smentita dalla sua stessa fonte, ovvero il portavoce del governatore di Helmand, intervistato oggi da Fausto Biloslavo per “il giornale” in un articolo molto completo e ricco di indiscrezioni anche dal lato dei nostri servizi (consiglio di leggerlo – tra l’altro, finalmente, dopo qualche ora dalla sua pubblicazione sul sito ha anche ricevuto un titolo all’altezza del corpo dell’articolo). Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, che pure ieri sera – dopo l’indiscrezione del Times – aveva rafforzato i toni delle sue dichiarazioni verso un ulteriore presa di distanza dalla vicenda (o almeno questa è stata la mia impressione), oggi “pur senza citarlo esplicitamente, ha accusato il britannico Times di aver dato ‘una notizia erronea’ ” – leggo sulle agenzie. Frattini ha espressamente parlato di cattiva informazione.

Restano però sul tappeto due elementi. Jerome Starkey l’autore dell’articolo per il London Times è un giornalista esperto, reduce da una clamorosa inchiesta nella quale ha sbugiardato la Nato su un raid delle forze speciali americane finito in tragedia e in un tentativo di copertura (ne ho scritto in questo blog), inchiesta costagli una durissima polemica con il comando centrale. Insomma, sarà pure britannico come i militari che sono intervenuti all’ospedale di Emergency (solo per bonficare gli ordigni esplosivi o come parte dell’operazione – resta un mistero) ma mi sembra al riparo da accuse di “connivenze”. Inoltre resta “agli atti” l’articolo della CNN di ieri che parla addirittura del coinvolgimento dei tre arrestati italiani nell’uccisione del producer di Daniele Mastrogiacomo, alla conclusione di quel tragico sequestro probabilmente l’origine della vicenda di questi giorni. Per dirla più chiaramente, non credo ad una negligenza giornalistica; al contrario vedo (anche dal tono della stampa internazionale in genere) una spinta in direzione “colpevolista” da parte di certe fonti. Tiro le somme e con Kipling ricordo che, in quelle terre, il grande gioco è così grande che non se ne vede la fine…Ovvero che siamo entrati in una fase ancora più confusa di questa vicenda (prescindendo dai fatti che l’hanno avviata e quindi dalla eventuali responsabilità da accertare) nella quale – come al solito in Afghanistan – si scontrano interessi e poteri non sempre coincidenti, autorità multiple e non-coordinate nel frammentato quadro del Paese (per esempio mi colpisce la cautela mostrata sin’ora dal portavoce del ministero degli Interni forse il segno di una rottura tra centro e periferia su questo caso). Tutti elementi che, se non si interviene presto, faranno assomigliare sempre più questa storia ad una matassa che continua ad aggrovigliarsi.

Le bugie della forze (poco) speciali

Bastava leggerlo, per capire che ci fosse qualcosa di strano in quel comunicato della Nato che raccontava dell’ennesimo raid notturno finito male in Afghanistan. Il raid era avvenuto nei pressi di Gardez, provincia di Paktika, il 12 febbraio, e raccontava di corpi di donne “tied up, gagged and killed” nei quali erano – come dire – “inciampati” gli uomini delle forze speciali durante il raid. Insomma la solita crudeltà talebana o della famiglia che, magari, aveva ucciso le donne ore prima e se le teneva in casa…Ma era tutto troppo strano. La Nato ieri in tarda serata ha ammesso la verità, ovvero la responsabilità delle sof americane. Ma andiamo con ordine, se l’ha fatto è solo grazie ad un giornalista coraggioso e bravo che si è fidato dei suoi contatti locali, ha preso un camion di rischi (supportato dal suo giornale, mica poco!) e si è recato sul luogo del raid, ci è rimasto per circa tre giorni ed ha raccolto testimonianze univoche sull’uccisione di due donne incinta, una ragazzina e due poliziotti. L’articolo viene pubblicato il 13 marzo scorso sul London Times il 13 marzo. L’autore Jerome Starkey, ne ricostruirà il lavoro in un articolo pubblicato dal watchdog della prestigiosa Nieman Foundation (ecco il link – l’articolo lo ripubblicherò integralmente a breve per la sua importanza ma, sin da ora dico che non sono d’accordo con alcune delle cose che ha scritto Starkey).

Ieri sera si arriva alla svolta, sintetizzata in questo articolo del NY Times (il Times di Londra nel frattempo è diventato a pagamento quindi non posso inserire il relativo link),  con la Nato che ammette l’uccisione ma – aggiungo – non il depistaggio che sarebbe avvenuto persino estraendo dai cadaveri i proiettili (inconfondibili quelli delle forze speciali) dai corpi delle donne. Ecco il comunicato integrale per come l’ho ricevuto ieri (in grassetto ho evidenziato i passaggi che mi sembrano più interessanti):

2010-04-CA-005
For Immediate Release

Gardez investigation concludes

KABUL, Afghanistan (Apr. 4) – A thorough joint investigation into the events that occurred in the Gardez district of Paktiya province
Feb. 12, has determined that international forces were responsible for the deaths of three women who were in the same compound where two men
were killed by the joint Afghan-international patrol searching for a Taliban insurgent.
The two men, who were later determined not to be insurgents, were shot and killed by the joint patrol after they showed what appeared
to be hostile intent by being armed. While investigators could not conclusively determine how or when the women died, due to lack of
forensic evidence, they concluded that the women were accidentally killed as a result of the joint force firing at the men.
“We deeply regret the outcome of this operation, accept responsibility for our actions that night, and know that this loss will
be felt forever by the families,” said Brig Gen. Eric Tremblay, ISAF Spokesperson. “The force went to the compound based on reliable
information in search of a Taliban insurgent and believed that the two men posed a threat to their personal safety. We now understand that the
men killed were only trying to protect their families.”
“We are continuing our dialogue with our Afghan security partners to improve coordination for future operations and help prevent
such mistakes from happening again,” said Tremblay. The investigation also reviewed the information released by ISAF
Joint Command, ISAF and the Afghan Ministry of Interior, and found the releases issued shortly after the operation were based on a lack of
cultural understanding by the joint force and the chain of command. The statement noted the women had been bound and gagged, but this
information was taken from an initial report by the international members of the joint force who were not familiar with Islamic burial
customs.
“We regret any confusion caused by the initial statements and are committed to improving our coordination and understanding of Afghan
culture and customs,” said Tremblay.
ISAF officials will discuss the results of the investigation with the family of the individuals killed, apologize for what happened, and will provide compensation in accordance with local customs.

Forze poco speciali

Qualche giorno fa avevo scritto di quella che poteva sembrare solo una riorganizzazione formale della struttura di comando Nato ed Enduring Freedom, struttura che veniva unificata ma – al momento dell’annuncio – non era ancora chiaro come.  In Afghanistan operano due missioni militari distinte Isaf (a guida Nato, della quale fa parte la maggioranza delle truppe americane) ed Enduring Freedom (ben più piccola e praticamente solo americana, con compiti di caccia a Bin Laden e compagnia), un fatto che ha causato non pochi problemi e molta confusione. Le due missioni, da anni sono però sotto il comando di uno stesso generale che viene scelto tra i quattro stelle delle forze armate americane, quindi c’era da capire bene cosa questa nuova riorganizzazione significasse in termini pratici.

Il New York Times in questo articolo sostiene che la riorganizzazione tocca il cuore del problema, ovvero unifica anche il comando delle forze speciali americane a cui si devono molti degli episodi più tragici (vedi il recente bombardamento nella provincia di Uruzgan di un convoglio di civili) e che di fatto operano secondo le proprie regole e non si coordinano con le forze convenzionali che magari scoprono solo all’ultimo minuto di operazioni in corso. McChristal è probabilmente l’unico generale che avrebbe potuto compiere un passo del genere visto il suo (misterioso) passato tra le forze speciali. Per approfondire l’analisi del cambio di struttura vedi anche qui