Dopo quaranta giorni dopo, decine e decine di email, centinaia di messaggi scambiati su ogni piattaforma, dozzine di telefonate e il più tradizionale “contatto personale” (una volta l’avremmo chiamato “porta a porta”) la campagna di “crowdfunding” per la seconda parte di “Afghanistan Missione Incompiuta” si è conclusa con un successo: 627 le copie prenotate, obiettivo raggiunto e superato (125%).
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Grecia: via la troika, resta la crisi
Poco meno di tre anni dopo il mio ultimo viaggio, sono tornato in Grecia perchè il governo aveva appena annunciato l’accordo per la fine del commissariamento internazionale, in pratica dal 21 agosto Atene riprenderà la propria sovranità contabile, lasciandosi alle spalle le richieste di Fondo Monetario Internazionale, Unione Europea e Banca Centrale Europea.
Ma come stanno davvero le cose del Paese? I numeri sono migliorati ma dieci anni di crisi e otto anni di troika hanno lasciato il segno, a pagare sono – come sempre – gli ultimi.
Il mio racconto in questi pezzi realizzati per il Tg3 (i link rimandano alla pagina FaceBook della testata):
Se il mobile journalism germoglia
La notizia mi arriva da Facebook (con tag) ed è bellissima: l’agenzia di stampa DIRE sta realizzando il suo tg sulle notizie di Roma e del Lazio, con gli strumenti del mobile journalism. E’ un passo reso possibile grazie ad uno dei corsi che ho tenuto con Enrico Farro, dell’Associazione Italiana Filmaker, a Stampa Romana.
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Quando finisce il cacao?
Me la immagino già la scena: il cacao che inizia a scarseggiare sui banchi delle drogherie italiane; le pasticcerie che vanno in “bianco”; i maestri belgi in crisi; San Valentino in America senza scatole col fiocco da regalare; le grandi aziende dolciarie che si accapigliano per conquistare le scorte di chissà quale secondario Paese produttore.
A quel punto forse il mondo occidentale, si accorgerebbe che da mesi c’è una crisi che incendia la Costa d’Avorio. Paese che appunto del cacao è il maggior produttore del pianeta e dove ormai è guerra civile – per la vicenda di un presidente eletto ma non riconosciuto dal presidente uscente ma sconfitto alle urne.
I misteri della disattenzione (in questo caso sarebbe meglio dire della cancellazione) mediatica oltre che politica sembrano ancora più fitti nel caso della Costa d’Avorio. Se i drammi si misurassero per numero di morti (ragionando con la logica del dolore tanto al chilo) la Costa d’Avorio meriterebbe all’incirca la stessa attenzione della Libia. In Costa d’Avorio secondo la Croce Rossa sono morte almeno 1000 persone, poco di meno che in Libia. Se consideriamo, il numero dei profughi (le ultime cifre che ho visto parlavano prima di 450mila poi persino di un milione di profughi in fuga dalla Costa d’Avorio) siamo molto oltre la crisi libico-tunisina. Eppure quei profughi hanno ricevuto un centesimo dell’attenzione e della copertura mediatica dedicata ai loro omologhi (140mila? 200mila?) in fuga dalla Libia attraverso il confine di Ras Jedir.
Fermo restando che una vittima, una sola, è un bilancio inaccettabile, pur comparando i due conflitti sulla base di questi dati siamo sugli stessi livelli, eppure la telecronaca dei combattimenti ping-pong sulla strada tra Benghazi e Sirte ormai è giunta quasi al minuto per minuto, mentre la Costa d’Avorio è una sorta di monoscopio che tutti hanno sotto gli occhi e nessuno vede. Non voglio dire che la Libia non meritasse nè l’attenzione che sta ricevendo, nè l’intervento occidentale. Voglio dire che la Costa d’Avorio è, per una serie di meccanismi alcuni chiari altri misteriosi, il classico conflitto dimenticato.
Da giorni sento fare “insostenibili” ragionamenti sulla guerra in Libia e su perchè non abbiamo bombardato Barhein e Yemen, insostenibili perchè quasi sempre servono a dare ragione a questo a quello nelle nostre – tutte italiote – liti di pollaio. La Costa d’Avorio non serve nemmeno a quello. Sarà un segno dei tempi.
Il fattore D
I meccanismi dell’informazione sono davvero “curiosi”, a volte. Dopo l’ondata di rivelazioni di wikileaks, sul NY Times appare un articolo (targeted killing is new U.S. focus in Afghanistan) che suona come un chiaro segnale verso l’esterno che all’interno (ovvero nel ristretto novero dei collaboratori del Presidente americano) stia passando sempre più la linea di Joe Biden, il vicepresidente che non ne voleva sapere della surge, dell’incremento delle truppe in Afghanistan, e che invece pensava ad una strategia molto mirata. Articolo che – non guasta mai – dà una visione diversa dell’andamento del conflitto rispetto all’ondata quotidiana di brutte notizie, un po’ della serie “stiamo perdendo sul terreno, ma stiamo decimando i vertici talebani”…tanto che i quadri intermedi dell’organizzazione non vogliono più saperne di promozioni.
A seguire, sempre cronologicamente parlando rispetto alle rivelazioni di wikileaks, arriva la copertina-shock di Time magazine che ha fatto il giro del mondo: il ritratto di una giovanissima donna afghana, mutilata su decisione di un tribunale talebano per le sue disobbedienze familiari (qui, le reazioni all’uscita del settimanale). Una copertina che forse resterà nella storia dell’Afghanistan proprio come quella del Nat Geo magazine scattata da Steve McCurry ormai circa vent’anni fa.
Bene, per anni, negli ultimi anni, è stato pressoché impossibile per i giornalisti “piazzare” storie del genere su pubblicazioni e telegiornali ed era rimasta solo la RAWA (l’organizzazione delle donne rivoluzionarie afghane – organizzazione sostanzialmente di tipo maoista) a parlare di donne stuprate, donne auto-immolatesi ovvero quasi sempre finite con ustioni di terzo grado su tutto il corpo dopo aver provato a sfuggire alle angherie del marito e del padre con una latta di benzina e di un fiammifero. Non che la condizione delle donne non sia migliorata in questi anni in Afghanistan, ma è stato un miglioramento circoscritto alle aree urbane, in particolare alla capitale, ma se n’è parlato sempre di meno anche per via di quel curioso fenomeno dell’informazione per cui ad un certo punto una certa notizia “stanca” e diventa come un dejavù.
Sia ben chiaro, non sto dicendo che la scelta di Time non sia meritoria (seguito a ruota da altre testate americane come lo stesso NY Times, vedi qui – storia di copertina sull’IHT) ma è strano che si torni a parlare del “fattore D(onna)” ovvero della condizione femminile in Afghanistan proprio ora che c’è un conflitto (e una strategia) allo sfascio e si tratta di mettere insieme i cocci, tirando avanti almeno fino al 2014 (stando al calendario di Karzai per il controllo del territorio da parte delle truppe governative). Tutta questa storia mi ricorda la seconda metà degli anni ’90. All’epoca lo scenario era diverso: gli Stati Uniti, dopo il ritiro russo dall’Afghanistan e il crollo del comunismo, avevano totalmente abbandonato il paese e successivamente preso a considerare i talebani quasi come un elemento di stabilizzazione dopo la guerra civile (oleodotti inclusi). Eppure anche allora, la mobilitazione delle donne americane (compresa Hillary e la Albright) e l’immagine simbolo del burqa servirono a riportare almeno un po’ di attenzione americana sul Paese. Immagini che diventarono poi una delle giustificazioni principali (quasi come quelle dell’11 settembre) dell’operazione Enduring Freedom.
Diritto/Delitto di cronaca
Una ragazza col velo in testa che cammina veloce, parlando da sola. Piange mentre guarda a terra forse a voler evitare i detriti. Una donna di mezz’età, anche lei col velo in testa, che grida, una borsa pesante in una mano, l’altro braccio stretto da un uomo che l’aiuta a entrare in una casa dalle finestre divelte. Un pick up che porta le insegne della polizia municipale di kabul. È rosso e bianco. Così il sangue della decina di persone che siedono sul suo pianale sembra quasi fare meno orrore. Sono tutti imbrattati di sangue, rosso vivo sugli abiti, rosso scuro – rappreso – sui volti. Una fila di corpi coperti, composta, allineata al centro della carreggiata vicino allo spartitraffico. Altre scene di soldati e di polizia locale che coprono corpi, semi-nascosto si intravede il cadavere di un civile, la sua shawol kamiz coperta di sangue, il ventre al cielo. Ci sono anche inquadrature strette, impietose, dei due caduti italiani più direttamente investiti dall’esplosione.
Sto descrivendo le immagini che l’altro ieri un freelance afghano mi ha fatto recapitare. Negli ultimi giorni, ho messo a soqquadro Kabul alla ricerca di un documento filmato o fotografico che potesse aiutarmi a capire meglio la dinamica dell’attacco agli italiani. Non ho trovato nulla di utile, comprese le immagini che vi sto descrivendo che però sembravano girate prima (rispetto al momento dell’esplosione) e meglio di molte altre viste sui circuiti internazionali.
L’attenzione alle vittime civili, il racconto delle dimensioni della strage, la cruda cronaca della morte ne facevano un vero documento giornalistico. Nonostante ciò non le ho comprate, per vari motivi. Perché non aggiungevano nulla alla comprensione della dinamica dell’attacco, perché perso il loro valore di cronaca e per altre valutazioni pratiche.
Eppure quella visione mi ha scatenato mille riflessioni su fin dove si possa spingere la cronaca. Le ho viste con Craig, il mio cameraman delle dirette all’Ebu di Kabul, un ex-fotografo scozzese convertitosi alla telecamera che però conserva il gusto fotografico per l’immagine. Pur avendo già rimandato indietro il nastro, per il piacere di capire, ne abbiamo parlato a lungo attendendo una diretta notturna, l’ultima dopo 29 ore di diretta satellitare in 5 giorni (fonte l’altro craig, l’ingegnere dell’uplink via satellite all’ebu di Kabul).
Secondo Craig, mostrare quelle immagini nel giorno dei funerali sarebbe servito solo a riaprire una ferita proprio nel momento in cui il paese stava “maturando” il lutto, per giunta senza aggiungere nulla alla cronaca dei fatti. Un argomento di opportunità, convincente, “secco”, il suo.
Ma ne abbiamo continuato a parlare, perchè se l’informazione ha un dovere, quello di pubblicare tutto, che limiti – ci siamo chiesti – può avere questo dovere? Ho pensato alla recente polemica sulle foto dell’attentato pubblicate in Italia da il riformista e da il giornale. Ma il vero dibattito su un tema del genere è, secondo me, quello scatenatosi di recente negli stati uniti per la foto del Marines morente, fatto a pezzi da un rpg nell’hellmand. Famiglia contraria, governo contrario ma l’AP l’ha pubblica lo stesso. Un dibattito che mi sembra ben sintetizzato qui http://lens.blogs.nytimes.com/2009/09/04/behind-13/?scp=4&sq=Nickelsberg&st=cse, nel foto-blog del NY Times.
Tra l’altro di quella foto, proprio nei giorni in cui tuonava Robert Gates, ne ho parlato con Bob Nickelebergr, un grande fotografo di guerra, embed a Kunar con me, lui per conto del NY Times. Bob, a cui la foto del Marines morente non “piaceva”, è stato protagonista di un episodio analogo, per una foto a corredo di uno degli articoli più straordinari mai scritti sulla guerra in Iraq. http://www.nytimes.com/2007/01/29/world/middleeast/29haifa.html?_r=1
Nel mio piccolo, mi è capitato varie volte di confrontarmi con il tema. Ne ricordo due in particolare, entrambe in Afghanistan. Il primo nel 2007 quando dopo un attacco kamikaze con Mario Rossi riprendemmo i resti dell’attentatore suicida, il secondo pochi giorni fa quando con Gianfranco Botta abbiamo ripreso bimbi feriti da un attacco a colpi di mortaio su una base americana.
Non voglio scendere nel filosofico ma c’è un nodo del dibattito che nè io nè Craig siamo riusciti a sciogliere nell’aria pungente della notte di Kabul, appollaiati su una terrazza tra parabole giganti e ogni genere di intereferenza elettromagnetica.
E purtroppo non siamo i soli incapaci di trovare una risposta.
Il nodo è questo: se la guerra è fatta di corpi spappolati, arti scagliati a decine di metri di distanza, vite distrutte, case violate, panico, feriti imbrattati da brandelli di corpi che non gli appartengono, di un soldato che poco prima era un uomo forte e coraggioso e pochi minuti dopo è solo un corpo dove i suoi compagni frugano alla ricerca di un’arteria da suturare. Bene se la guerra è tutto questo – e lo è senza dubbio – perché quando è possibile mostrala nella sua vera essenza un giornalista dovrebbe fermarsi?
Spinti da valori nobili, come il rispetto delle famiglie, la pietà, il non indugiare banalizzando il dolore, non finiamo magari col raccontare una guerra idealizzata? Fatta solo di potenti mezzi che avanzano nel deserto assieme uomini e donne coraggiosi, equipaggiati da guerrieri? Del resto che il dibattito sia complesso
Probabilmente la risposta (provvisoria e precaria) sta nella prassi, sta nel cercare di volta in volta un punto di mediazione tra le due esigenze ma è