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Ci siamo sbagliati

Mentre le milizie sciite di Al Sadr irrompono nel parlamento di Baghdad e l’esercito afghano annuncia l’inizio di operazioni belliche in 18 provincie del Paese candidando il 2016 ad essere un anno persino peggiore del 2015 (per le forze di sicurezza di Kabul, 5500 caduti in 12 mesi) -tanto per ribadire lo stato delle cose nei due Paesi segnati dagli interventi post-11 settembre – il Pentagono annuncia gli esiti della sua corposa inchiesta sul bombardamento dell’ospedale di MSF a Kunduz (42 vittime).

L’AC-130 è una macchina di straordinaria ingegneria della morte, ha l’agilità del quadrimotore Hercules ma la potenza di fuoco di una fortezza e la precisione di un cecchino, con la differenza che balla in aria senza fermarsi mai e può sparare proiettili all’incirca grandi come una lattina di birra senza subirne in alcun modo il rinculo. Lo “Spectre” che ha bombardato e distrutto l’ospedale di MSF durante l’assedio di Kunduz – città chiave del nord afghano, caduta nelle mani dei talebani – ha colpito il bersaglio giusto, non ha sbagliato mira, semplicemente l’equipaggio non sapeva che quello era un obiettivo civile; gli era stato chiesto di colpire un target solo che era a 400 metri di distanza, hanno “semplicemente” sbagliato indirizzo, fermo restando che nell’ospedale non c’erano talebani nascosti nè dall’ospedale sono partiti tiri diretti contro le truppe afghane o lo stesso aereo.
Il Pentagono punirà 16 propri militari, sostanzialmente per non essere decollati con la lista dei target da non colpire, ma non procederà per “crimini di guerra”proprio perché si è trattato di un errore e non di un attacco deliberato (MSF sostiene la tesi contraria e chiede che l’inchiesta venga svolta da un’autorità indipendente).

Mentre continuo a chiedermi come si possa utilizzare per una CAS (Close Air Support) in ambiente urbano un AC-130 (guardate queste foto per capire a cosa mi riferisco), vi lascio con questa straordinario racconto di Foreign Policy, la storia di una delle vittime dell’attacco all’ospedale. L‘uomo sul tavolo operatorio aveva un nome e una famiglia non era solo un cadavere dentro una foto drammaticamente “celebre”.

Muro di gomma

Oggi ho incontrato una donna, eravamo in uno dei più caotici incroci di Roma tra una fermata di metropolitana che vomitava folla, lo stridente passaggio del tram, colonne di turisti e pendolari. Eppure eravamo insieme a Kabul, una città dove Barbara Siringo non è mai stata ma che, nel febbraio del 2006, le ha restituito suo fratello in una bara. Barbara da oltre 1700 giorni lotta contro un muro di gomma, denuncia tentativi di insabbiamento, prova a tenere in vita la speranza. Ormai non parla più di vittoria della giustizia, le basterebbe solo che la memoria di suo fratello venisse ripulita dall’infamia della tossicodipendenza.
Barbara, qualche mese fa, ha incontrato sulla sua strada un gip, un giudice delle indagini preliminari, Rosalba Liso, che si è rifiutata di archiviare le indagini, chiedendo un approfondimento sull’inchiesta.

Approfondimento che sin’ora ha portato ad almeno una novità, la perizia tossicologica che proverebbe come la droga che ha ucciso il fratello di Rosalba, Stefano, e il suo collega ed amico, Iendi Iannelli, fosse pura all’89%, in pratica una follia che nessuno spacciatore farebbe mai sia per non “perdere” i suoi clienti, sia per non perdere gli introiti di una dose che solitamente è pura dieci volte in meno.
Una piccola svolta che torna a far parlare del misterioso caso (qui il mio pezzo al Tg3 delle 19 di oggi) e dà forza alle ipotesi della famiglia Siringo che denuncia in realtà l’omicidio, mascherato da incidente, dei due cooperanti italiani che a Kabul lavoravano al progetto (per la ricostruzione della) giustizia in Afghanistan.
Un presunto omicidio, secondo la famiglia, che troverebbe il suo movente nella scoperta da parte dei due giovani di un giro di fatturazioni false, in pratica fondi neri per sottrarre soldi alla ricostruzione. A dicembre sapremo a cos’altro questo approfondimento delle indagini avrà portato, speriamo anche alla testimonianza per rogatoria internazionale del magistrato messicano – all’epoca impegnato nel progetto – che denunciò il fosco scenario.
Un mistero afghano, questo, sostanzialmente “riaperto” anche grazie alla caparbietà di Carlo Lania de il Manifesto che, con Giuliana Sgrena, ha seguito la vicenda e tutti i suoi risvolti.

Gli incroci, anche quelli stradali, nella vita non sono mai casuali e quello dove oggi ho intervistato Barbara è poco lontano dalla sede dell’IDLO, l’organizzazione intergovernativa per la quale lavorava Iendi. L’approfondimento giudiziario ci dirà anche se l’organizzazione ha collaborato o meno alle indagini, senza trincerarsi (semplifico così una situazione complesso) dietro il suo status extra-territoriale. Nel frattempo questa donna minuta dagli occhi che si illuminano di lampi di determinazione non smetterà di chiedere giustizia. Non smetterà di rimbalzare sul muro di gomma – di cui mi ha parlato oggi – fino magari a sfondarlo; sarebbe giusto per lei, per la memoria di Stefano e Iendi ma anche per la serenità di tutti noi che quei fondi finanziamo con le nostre tasse e per coloro che, sin’ora, si sono sacrificati, in un modo o nell’altro, per l’Afghanistan.