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Un click per Joao

A rileggerla oggi, purtroppo, la storia professionale del fotografo portoghese Joao Silva suona come una sorta di segno premonitore; noto per essere uno dei quattro fotoreporter del “bang-bang club” che si dedicarono a coprire la violenza di strada nel Sud Africa del post-aparteheid negli anni ’90.

Joao Silva è stato gravemente ferito nella provincia di Kandahar, saltato su una mina mentre era al seguito della quarta divisione di fanteria dell’esercito americano. Lo ha reso noto il New York Times, per conto del quale era in Afghanistan. La dinamica dell’incidente non è chiara e forse non lo sarà fin quando – speriamo presto – Joao sarà in grado di raccontarla. Soprattutto per chi lavora con le immagini ed ha bisogno di spostarsi alla ricerca di cambi di campo e inquadrature alternative, lavorare al seguito delle truppe in Afghanistan è sempre più rischioso soprattutto quando si avanza anticipando la colonna o il convoglio a cui si è aggregati. Soprattutto al sud, favoriti dal terreno piatto (a volte desertico a volte coperto da una fitta vegetazione e dai canali dell’irrigazione, trincee “naturali”) i ribelli ricorrono in maniera sempre più massiccia agli IED, gli ordigni nascosti e sempre meno individuabili. Ormai il loro potere esplosivo è cresciuto talmente tanto da non rendere indispensabile l’ “imbottitura” con schegge metalliche e chiodi che ne aumentano la forza distruttrice (come sparare migliaia di proiettili in ogni direzione, allo stesso momento) ma le rendono anche visibili ai metal-detector. L’incidente è avvenuto nel distretto di Arghandab, l’area che gli americani da mesi stanno provando a riportare sotto controllo con piccole operazioni diffuse, dopo il fallimento della spettacolare quanto vana offensiva della relativamente poco distante Marja nel febbraio scorso

Silva è l’ennesimo giornalista che viene seriamente ferito (o muore, per fortuna non è questo il caso) durante un embed sul mobile e sfuggente fronte afghano. Non è chiaro quanto gravi siano le ferite riportate da Silva, ferite che sarebbero concentrate alla gambe. Il sito di Silva racconta del suo straordinario lavoro, visitarlo è forse l’unico modo che abbiamo per stargli vicino in un momento del genere.

AI-I-D

Le Improvise Explosive Device (IED leggasi AI-I-D) sono tutto e niente. Tutto perchè rappresentano in primo luogo la maggior causa di morte per i militari stranieri in Afghanistan. Niente perchè in realtà sono indefinibili visto che sotto questo ombrello terminologico trova ospitalità una famiglia di ordigni che vanno dai vecchi proiettili di artiglieria riciclati alle bombe al nitrato d’ammonio, fertilizzante ad alto potenziale (lo stesso della strage dei parà di Kabul) di cui di recente è stata vietata la vendita in Afghanistan. Per questo sono un simbolo perfetto del “nemico” in Afghanistan, inafferrabile quanto indefinibile.

Gli attacchi con IED sono stati 8,159 nel 2009, oltre il triplo del 2,677 registrate nel 2007.

Il più bel racconto per immagini di cosa sia un’IED lo si deve a David Goldman, freelance per l’Associated Press, qualche mese fa embed in Afghanistan con l’esercito americano nella provincia di Wardak. Ha scattato una sequenza di fotografie incredibili, era al momento giusto nel posto giusto, anche nella posizione giusta del convoglio per non essere fatto a pezzi dall’esplosione e ha avuto la freddezza di fornirci questo documento eccezionale, da vedere in slide show cliccando qui.

Bala Morghab, la Korengal italiana

Fob Columbus Bala Morghab np©2008
Fob Columbus Bala Morghab np©2008

No attenzione, leggete bene il titolo…non sto paragonando Bala Morghab per intensità dei combattimenti o per numero di caduti alla valle di Korengal, la valle della morte (da poco abbandonata dagli americani nella provincia di Kunar ). Del resto il sergente Massimiliano Ramadù e il caporal maggiore Luigi Pascazio, uccisi oggi da un’IED mentre si avvicinavano in convoglio alla Fob Columbus, sono le prime vittime imputabili direttamente a quella valle. Sin’ora Bala Morghab aveva visto solo feriti e tanti militari italiani miracolati (salvati da una mano invisibile o da un paio di millimetri di kevlar dell’elmetto), purtroppo oggi non è andata così.

Sono altre le affinità tra Bala Morghab e Korengal, affinità logistiche potremmo forse chiamarle. Bala Morghab non è un’area densamente popolata, proprio come la “maledetta valle” e quindi poco ha a che fare con la nuova strategia McChrystal (più uomini per garantire sicurezza alla popolazione, non per controllare l’estensione del territorio); come Korengal ha una posizione remota dove persino portare una bottiglia d’acqua è un gran problema (l’estate scorsa la nostra aeronautica ha ricominciato gli aviolanci di materiali, sospesi dai tempi del Kurdistan). Un posto isolato dove fare arrivare una colonna di blindati per l’ordinario cambio di compagnia (alternanza inclusa tra spagnoli e italiani) o un convoglio di camion per ricostruire un ponte è un’operazione complessa che impegna centinaia di uomini, esponendoli al rischio di attacchi. Soprattutto Bala Morghab come Korengal è un posto dove bisogna in qualche modo volerci andare, non è tipo Delaram uno di quegli “incroci” dove non puoi fare a meno di passarci. E’ vero che sulle mappe c’è una striscia che arriva da Qal-e-Now (sede del Prt spagnolo, i cui uomini fanno fatica a muoversi al di là della periferia cittadina) fino a lassù, ma quella “striscia nera” nonostante abbia lo stesso nome (“ring road”) con l’autostrada numero uno ha poco a che fare visto che in realtà è poco più di un budello – attraversarla incolumi d’estate è un’impresa ma passarci con la pioggia o la neve è un record da raccontare ai nipoti.

Ma allora che ci stiamo a fare lassù? La risposta come al solito in Afghanistan non è semplice nè univoca, cercatela voi tra questa serie di fatti che provo ad elencare. Bala Morghab è un’enclave pasthun in territorio tagiko, negli anni ’90 – anche se in pochi lo ricordano o lo citano – è stata la base talebana per lanciare l’attacco su Mazar-i-Sharif, la più grande città del nord. Altrettanto pochi ricordano una scena svoltasi da queste parti, replicata oggi da stauette di gesso nel museo della jihad di Herat – era il 1979 e dopo la rivolta di Herat, Ismail Khan riunì lassù quelli che sarebbero stati i comandanti della jihad anti-sovietica nell’ovest del Paese.
In questa fertile piana di oppio non se ne produce tantissimo in valore assoluto ma buona parte dei cinquemila ettari della provincia coltivati a papavero sono concentrati nel distretto di Bala Morghab, produzione cresciuta dell’822% dal 2008 al 2009 (segno di quanto precari e controversi siano gli effetti della presenza occidentale sull’industria della droga). Del resto se voi foste un contadino con il confine a due passi, forse non ci pensereste due volte a buttarvi nel business…un business che aggiunge ai talebani la forza (e i soldi) dei trafficanti. Da Bala Morghab si arriva diritto diritto in Turkmenistan ma soprattutto a Gormach, passaggio chiave nella mobilità tra est ed ovest nell’Afghanistan del nord.

Bala Morghab np©2008
Bala Morghab np©2008

L’ex-cotonificio oggi trasformato nell’avamposto (Fob) Columbus è uno degli ultimi segni della presenza sovietica nell’area, ultimi militari stranieri insediatisi nella zona. Dopo il loro ritiro, vent’anni dopo, qui si sono visti (nel post-2001) a volte qualche pattuglia tedesca e pare anche dei norvegesi. Nell’agosto del 2008 arrivarono gli italiani, accolti con quattro giorni di battaglia, io ci sono arrivato ai primi di settembre e le condizioni di vita per i militari dell’Aeromobile mi sono sembrate poco diverse da Korengal, alberi secolari a parte ma le risaie sono perfette lo stesso per sparare nella base. Da allora in poi si è andati avanti tra operazioni per “aumentare” la bolla di sicurezza, civili in fuga, tregua con i ribelli (vedi elezioni presidenziali del 2009, la prima tregua elettorale ufficialmente siglata dal governo), capi talebani arrestati, liberati e poi uccisi dai predator senza pilota. Benvenuti a Bala Morghab, la Korengal italiana…se mi passate il paragone.

Macabra cabala

La notizia la conoscono tutti, l’abbiamo racconta oggi nei Tg, ha riempito il web e domani i quotidiani di carta. Altri due militari italiani sono morti in Afghanistan, due invece sono feriti seriamente ma vivi per miracolo; in primis il mitragliere del mezzo Lince sbalzato dall’esplosione di una IED, venticinque chilometri a sud di Bala Morghab. I numeri mi hanno sempre affascinato, forse perchè li guardi e ci puoi vedere di tutto, anche quelli che sembrano messaggi del destino. Oggi sono passati esattamente otto mesi dalla strage di Kabul, quella che ho vissuto in prima persona, con 6 parà uccisi e oltre dieci civili fatti a pezzi da un’autobomba. 17 settembre – 17 maggio e rieccoci a parlare di morti. I numeri martellano di nuovo la tragedia dei nostri alpini, 32esimo reggimento Genio, Brigata Alpini Taurinense. Massimiliano Ramadù di Velletri (Rm) e il caporalmaggiore Luigi Pascazio, di Bitetto (Bari) non lo sapranno mai ma la loro morte segna anche un traguardo simbolico che pesa come un macigno sulla missione Isaf, con il loro sacrificio sale a quota 200 il numero dei militari stranieri uccisi in Afghanistan dall’inizio dell’anno – mai così tanti nei primi cinque mesi dell’anno, un triste record all’insegna dell’assunzione algebrica: più soldati, più presenza sul territorio, più attacchi e quindi…più vittime. Bastano poche ore a fare di questa soglia simbolica nient’altro che acqua passata, mentre scrivo siamo già arrivati a 202. Cosa ci vorranno dire i numeri? Beh questa volta non ci vuole un Dan Brown di turno o un Pitagora moderno per capirlo.

Due morti in dieci giorni, addio alla tregua invernale

Rupert Hamer - The Sunday Mirror
Rupert Hamer - The Sunday Mirror

Quando muoiono dei militari in Afghanistan, ricomincia il dibattito su perchè siano stati mandati così lontano da casa e cosa stiano facendo laggiù. Quando muore un giornalista, la risposta è semplice e non richiede un dibattito sulla guerra al terrore: era laggiù per raccontare cosa sia davvero la guerra. A tutti, in particolare – in tempi di festività – a chi stappa lo spumante e taglia il panettone al caldo della propria casa con l’unico pericolo che qualche imbecille spari a mezzanotte un fuoco d’artificio illegale. Perchè una guerra si può raccontare solo dalla prima linea.

“If I blow up, I’ll blow up”. Se salto in aria, salto in aria – si ripetono, quasi sempre, prima di partire in convoglio i militari (e i giornalisti) che stanno salendo su un mezzo “blindato” in Afghanistan. Per fortuna, non capita quasi mai, quasi…ma lo spettro dell’esplosione ti accompagna per tutto il percorso e oltre.

Il nitrato d’ammonio è un magnifico fertilizzante, in Pakistan si può comprare anche quello ad alta concentrazione: l’ideale per “impastare” una bomba come quelle che nei freddi comunicati militari vengono definite “homemade bomb”, ordigni fatti in casa. L’utilizzo di fertilizzante piuttosto che di vecchie munizioni (colpi di mortaio, rpg e varie che in Afghanistan abbondano) rende l’IED così prodotto virtualmente invisibile ai metal detector, perchè di metallo non ne contiene affatto.

Proprio per l’esplosione di un ordigno del genere, ieri, come capitato sin’ora a centinaia di militari, è morto un altro giornalista: Rupert Hamer del britannico “The Sunday Mirror”. Stava viaggiando con un convoglio di US Marines nella provincia di Hellmand, con lui sono morti un militare americano e uno afghano, altri quattro sono stati seriamente feriti. Assieme ad Hammer c’erà un fotoreporter della stessa testata, Philip Coburn, 43 anni, ferito ma in condizioni definite stabili (una rassicurazione sul fatto che non è a rischio della vita ma definizione che nulla dice sulla portata delle sue ferite). Hamer è il secondo giornalista embed nel sud del paese con le truppe occidentali, a venir ucciso dopo Michelle Lang del “The Calgary Herald” – morta in circostanze analoghe.

Nel suo ricordo del collega scomparso, il giornale britannico scrive:

Rupert believed that the only place to report a war was from the front line, and as our defence correspondent he wanted to be embedded with the US marines at the start of their vital surge into Southern Afghanistan. One of his last acts was to organise a special Christmas newspaper produced solely for the troops packed with messages from loved ones which was flown out by the RAF three weeks ago. He was a fine, fearless, and skilled writer who joined the paper 12 years ago. Affectionately known as Corporal Hamer in the office, he was a gregarious figure , a wonderful friend who was hugely popular with his colleagues”.

La morte di Hammer come l’uccisione della Lang al di là della loro drammaticità, incancellabile per chi fa il loro stesso lavoro e per chi (magari senza rendersene conto di quanto sia complesso produrli) legge, guarda o ascolta i racconti da un paese in guerra, mette in evidenza un dato nuovo sul fronte afghano. Nel sud del paese sembra si stia smentendo un classico assioma: ovvero che la guerra in Afghanistan è una guerra stagionale, interrotta da una “climatica” tregua invernale. Un apparente cambiamento che sarà il caso di tenere sotto controllo nelle prossime settimane. Per ora ci resta l’amarezza di due colleghi morti a cavallo tra dicembre e gennaio, il periodo più tranquillo (almeno sin’ora) per stare in prima linea, di solito richiesto dalle testate solo per celebrare il natale e il capodanno dei militari all’estero. Non a caso Hammer aveva appena realizzato un numero speciale della sua testata pensato proprio per le feste natalizie del contingente britannico. Chiamatelo pure scherzo del destino, non riporterà in vita nè Lang nè Hamer, nè i militari morti assieme a loro.

Allarme rosso ad Herat

Ismail Khan guida la prima riunione dei mujaheddin anti-sovietici (herat, museo della jihad)
Ismail Khan guida la prima riunione dei mujaheddin anti-sovietici (herat, museo della jihad) ©np 09

E’ passato inosservato sull’informazione italiana e non, l’episodio di questa mattina ad Herat, principale città del Nord-Ovest del paese, nonchè principale base delle nostre truppe in Afghanistan. Eppure è un episodio assolutamente preoccupante che sancisce come i talebani siano sempre più attivi in aree a loro non “etnicamente” nè “storicamente” favorevoli.

Il convoglio di Ismail Khan si stava dirigendo verso l’aeroporto quando è esplosa una IED che non l’ha ferito (tanto che ha poi raggiunto, per via aerea, la sua destinazione, Kabul) ma ha fatto – al solito… – tra le tre e le quattro vittime civili (vedi la notizia qui) oltre a circa diciassette feriti tra i passanti, pare poco distante da una scuola.
Ismail Khan è uno dei principali capi Mujaheddin nonchè attuale Ministro dell’Energia e delle risorse idriche, ministero che di fatto ha trasferito nella “sua” Herat.

Ismail Khan era un ufficiale dell’esercito afghano quando alla fine degli anni ’70 avvio la rivoltà (oggi celebrata in un museo proprio ad Herat) contro i soprusi dell’esercito filo-sovietico. E’ stato anche fiero avversario dei talebani (che lo costrinsero alla fuga in Iran) fino alla loro cacciata nel 2001.
Senza girarci troppo intorno è un’espressione (pur tra le più alte) della frammentazione del Paese e dell’organizzazione del potere per aree di stampo feudale. Ma il fatto che venga colpito in maniera tanto clamorosa nella “sua” Herat, per giunta con un’esplicita rivendicazione talebana (per bocca del portavoce Zabihullah Mujahid), è la riprova che i guerriglieri stanno sempre più lavorando sul fronte nord (est ed ovest). Fronte che ha una doppia valenza: strategica, perchè anche negli anni ’90 da qui passò la conquista dell’intero paese, e politica, perchè agire qui significa colpire Italia e Germania, alleati indispensabili per l’America nel conflitto afghano ma esposti ai dubbi dell’opinione pubblica interna e quindi ritenuti particolarmente fragili verso attacchi ad alto impatto mediatico.

In serata ho visto che la Bbc si è occupata della vicenda, vedi qui

Due giorni da dimenticare

Il luglio del 2009 in Afghanistan verrà ricordato come il mese peggiore dalla caduta dei talebani per le truppe occidentali, in particolare per britannici e americani. Un primato triste che si è consumato tra il 25 e il 26 luglio mentre la città di Khost (nell’est del paese al confine con il Pakistan) era sotto attacco combinato di kamikaze e guerriglieri, un candidato alle elezioni presidenziali veniva attaccato nella (un tempo tranquilla) provincia di Kunduz e gli italiani finivano due volte sotto attacco a poche ore di distanza.

Con le ultime vittime di questa macabra contabilità, i britannici uccisi sono ormai 21 dall’inizio di luglio (su un totale di 185 dal 2001) mentre le vittime americane sono arrivate ormai a quota 39 (su un totale di 667). A luglio i militari occidentali uccisi sono ormai 68 (compreso l’italiano Alessandro Di Lisio) e il mese non è ancora finito…Numeri, purtroppo, fatti volare sia dall’offensiva anglo-britannica nell’Helmand che dal generale incremento degli attacchi della guerriglia in tutto il paese in vista delle elezioni. Mentre in Gran Bretagna si discute ormai non solo del costo in termini di vite umane ma anche del costo economico della guerra afghana, i britannici continuano a morire per colpa di mezzi inadeguati come i semi-blindati Viking o le Land Rover Snatch ottime per le molotov di Londonderry non per le IED talebane.

Sugli episodi che hanno riguardato gli italiani, provo a dare qualche dettaglio in più. Sabato 25 luglio i nostri militari sono stati attaccati in due episodio distinti (vedi il servizio dal Tg3 delle ore 14.20 del giorno successivo) riportando tre feriti (cinque in realtà considerando i due militari non ospedalizzati visto la lieve entità delle ferite). Il primo nell’ormai “solito” distretto di Bala Baluk dove una pattuglia mista bersaglieri (1mo reggimento) e parà (187esimo) è stata costretta ad una battaglia durata cinque ore e conclusasi con gli interventi degli elicotteri d’attacco Mangusta in una zona dove è impossibile utilizzare copertura aerea dei jet salvo mettere in conto vittime civili (ricordiamo il drammatico bombardamento americano in questa zona ai primi di maggio, il peggio “incidente” del genere di sempre). Nei combattimenti è rimasto ferito un bersagliere. Un attacco del genere non accadeva dall’11 giugno, data di una massiccia e ben coordinata imboscata contro gli italiani che sembrava aver fatto desistere i talebani da attacchi del genere ripiegando sui i più semplici attacchi IED. Cosa significhi tutto ciò è difficile da capire anche se viene da pensare a nuovi rinforzi, talebani in fuga dal sud che si rifugiano e si riorganizzano a Farah.

Il secondo attacco è avvenuto ad Adraskan, mezz’ora di auto a sud da Herat, una località lungo la ring road dove i carabinieri hanno una base e svolgono un programma (pubblicamente lodato da Petraeus) di addestramento di un particolare corpo della disastrata e corrotta polizia afghana. In quella zona stava transitando un convoglio di Omlt (i consiglieri militari italiani che addestrano l’esercito aghano, in questo turno di dispiegamento parà della Folgore) quando, era quasi sera, è esplosa una moto lasciata lungo il ciglio della strada e carica di esplosivo. Ad attivarla un comando a distanza. A minimizzare i danni (due i militari lievemente feriti dal ribaltamento del mezzo) sono stati il blindato Lince e la bravura degli autisti (lo racconto per esperienza personale avendo viaggiato con loro decine di volte) che guidano al centro della carregiata, cambiano traiettoria, si allontanano da ogni tipo di possibile pericolo (che in Afghanistan può essere anche solo qualcuno in bici con una teiera sul manubrio) cambiano strada ad ogni blocco del traffico e sono pronti a sterzare bruscamente quando c’è da evitare lo speronamento di un kamikaze.

1/2 Sicuro

In questi giorni, dopo la morte del primo caporal maggiore Di Lisio a Farah, si parla tanto della sicurezza dei mezzi utilizzati in Afghanistan. E’ un tema delicato, sicuramente importante, ma temo possa creare l’illusione che un “mezzo tecnico”, qualsiasi esso sia, possa azzerare il rischio di feriti o peggio vittime in un contesto difficile come quello Afghano. Contesto dove ieri, con la morte di un militare americano, è stato sancito anche statisticamente quanto male vadano le cose: il mese di luglio 2009 (che per giunta non è ancora finito) è il peggiore di sempre (leggi dal 2001) per le forze internazionali in termini di vittime.

Entrando nello specifico dei mezzi, giusto per dare una panoramica sul tema, il blindato Lince sin’ora ha salvato molte vite, il suo è un sistema a cellula di sicurezza, ovvero in caso di esplosione volano vano motore e vano carico (sto semplificando) mentre l’equipaggio è protetto dalla cellula di sicurezza interna, tutto l’equipaggio tranne il mitragliere che è poi l’uomo più esposto. Secondo indiscrezioni, non confermate dal comando italiano, Di Lisio sarebbe stato proprio l’uomo in “ralla”, ovvero il mitragliere. Il Lince dovrebbe tra poco essere utilizzato anche dai britannici, tra le cui fila il tema dell’inadeguatezza dei mezzi ha causato non pochi trambusti (vedi le dimissioni del capo delle forze speciali in polemica con l’utilizzo delle “snatch”, fuoristrada pensati per le sassaiole di Londonderry non per le IED afghane – al riguardo vedi un vecchio post). Mi dicevano alcuni militari che i britannici hanno però ordinato una versione con torretta motorizzata che appunto evita la presenza all’esterno del veicolo del mitragliere. Sulla protezione del mitragliere, ho visto anche qualche interessante post pubblicato sul gruppo di Facebook il cui nome dice tutto: “Santo Lince”.

MRAP e Freccia. Quella dei “Mine Resistent Ambush Protected” è una famiglia di mezzi, molto costosi e molto sicuri, su cui hanno puntato gli americani ordinandone migliaia. Nell’Rc-West, se non erro, gli italiani ne hanno una decina (nella versione Buffalo e Couguar).  In questi giorni ad Herat si è concluso il passaggio di “consegne” tra i tecnici dell’azienda produttrice e quelli delle forze armate che dovranno occuparsene in futuro. Nel marzo dell’anno scorso, ho viaggiato (primo mezzo – !- di convoglio logistico) su un mezzo della famiglia MRAP lungo la strada tra Jalalabad e Asadabd nell’est del paese, era uno dei primi consegnati agli americani in Afghanistan. La sensazione di protezione è totale, sono mezzi molto alti da terra la cui chiglia a “v” scarica l’onda d’urto delle esplosioni, ma sono mezzi utilizzati soprattutto in Iraq. Sono troppo pesanti e mastodontici per muoversi in un paese, l’Afghanistan, dove le strade in buone condizioni sono un’eccezione. In sintesi l’ambiente afghano ne limita l’impiego, da super-sicuri rischiano di trasformarsi in super-rischiosi se si piantano su una pista di sabbia o su un sentiero di montagna. In Afghanistan, agli italiani arriveranno i Freccia (che secondo alcune fonti di stampa, a cui non ho trovato però conferma sul posto, sono già utilizzati dalle forze speciali della TF45) una sorta di blindocentauro (quindi a sei ruote) con il cannoncino del dardo (già presente in Afghanistan, è un mezzo cingolato). Il Freccia avrà dalla sua soprattutto la capacità di “mezzo digitale” ovvero sempre in contatto con l’esterno anche attraverso occhi elettronici (per esempio quelli dell’aereo senza pilota Predator) e quindi limitando i rischi per chi deve sporgersi dalle aperture del mezzo, ma evidentemente non sostituirà il Lince che ha un impiego molto più flessibile.

Una volte un’ex-responsabile della sicurezza della Croce Rossa in Afghanistan, specialista in operazioni di cross-border (ovvero di contatto tra le parti, per esempio per lo scambio di prigionieri e di feriti, tra Mujaheddin e Talebani) mi ha detto che ha sempre preferito muoversi disarmato, perchè c’è sempre qualcuno che ha una pistola più grande della tua. E’ evidente che l’ambiente afghano pone tutta una serie di variabili e problematiche che devono essere affrontate con i mezzi giusti ma è chiaro che a blindatura super la guerriglia risponde con bomba super (come nel caso dell’enorme carica esplosiva utilizzata nell’attacco di Farah) soprattutto in un paese che ha scorte di vecchie munizioni per decenni e dove l’oppio fornisce i soldi per comprarne di nuove, a fiumi. Insomma, non vorrei essere frainteso in questa riflessione, il tema della sicurezza dei mezzi deve essere sempre affrontato per primo (del resto, molto meno dei miltiari, ma io stesso mi ci ritrovo a viaggiarci sopra) ma non deve passare nell’opinione pubblica l’idea che la blindatura risolve tutti i problemi e azzera tutti i rischi che invece ci sono e sono tantissimi. E’ vero dappertutto, nell’Afghanistan di oggi è più vero che mai.

In aggiunta a quest post, inserisco il link ad un mio pezzo andato in onda il 15 luglio al Tg3 delle 19 e che tratta, pur nei limiti della sintesi televisiva, pressochè lo stesso tema