Negli ultimi trent’anni di conflitti in Afghanistan, la primavera ha sempre sancito l’inizio della stagione dei combattimenti, con i rinforzi per i ribelli (mujaheddin ieri, talebani oggi) in arrivo dalle basi del vicino Pakistan attraverso le montagne finalmente sgombre dalla neve. Ma quest’anno i talebani l’offensiva di primavera l’hanno annunciata formalmente, con inizio il primo maggio, denominandola Badar, come una storica battaglia contro gli infedeli.
L’ultimo mese in Afghanistan è stato segnato da attacchi clamorosi come i due giorni di combattimenti a Kandahar, l’attacco all’ospedale militare di Kabul e l’ultimo attentato suicida nel nord del Paese che ha gravemente ferito il capo delle truppe tedesche e ucciso il locale capo della polizia. Un tour dell’orrore, partito dal sud e che – con l’attacco di oggi ad occidente – ha praticamente colpito tutti i quadranti del Paese.
E’ in questo contesto che si inserisce l’attentato di oggi contro la città di Herat, una città relativamente tranquilla rispetto al resto del Paese tanto che è previsto a brevissimo il passaggio di consegne tra militari italiani e forze di sicurezza locali. La prima tappa nel percorso previsto dalla coalizione Isaf che dovrebbe portare entro il 2014 gli afghani ad essere responsabili della sicurezza nel loro Paese, con il ritiro degli occidentali. Per questo l’attacco di oggi ha un particolare valore simbolico
I talebani hanno colpito la base del Prt, il provincial recostruction team ovvero l’unità della missione italiana che si occupa della ricostruzione, degli aiuti ai civili, e che in questo semestre è gestito dal 132esimo reggimento della Brigata Ariete. Una base nel cuore della città, stretta tra gli edifici, intitolata al Capitano Vianini, che morì in un incidente aereo nella missione di ricognizione che portò poi alla creazione del Prt italiano. Una base particolarmente vulnerabile, adatta alla tecnica dell’esplosione kamikaze e poi dell’irruzione del commando armato, grazie proprio alle case vicine ed elevate dove – pare – siano rintanati alcuni ribelli, stando alle prime frammentarie ricostruzioni. Un obiettivo scelto anche per questo rispetto al super protetto Camp Arena la base principale italiana e multinazionale nei pressi dell’aeroporto di Herat.
La settimana scorsa i parà della Folgore hanno cominciato a lasciare l’Italia, destinazione Herat. Tra pochi giorni ci sarà il TOA ovvero il trasferimento del comando dagli alpini appunto ai paracadutisti. L’Afghanistan è stato mediaticamente fagocitato dalle vicende libiche, semplicemente non se ne parla più, “non c’è spazio in pagina”; del resto molti dei giornalisti internazionali normalmente impegnati in quel Paese li ho rivisti al confine libico-tunisino o li leggo/vedo da quel di Benghazi.
Sta capitando sui media di tutto il mondo ma in Italia non era poi così difficile dimenticarsi dell’Afghanistan, vista la già scarsa e intermittente attenzione riservata dalle testate di casa nostra alla missione di un Paese a tutti gli effetti in guerra. Eppure questo semestre di missione per i parà sarà molto duro, con le loro capacità militari – che hanno già dimostrato nel 2009 – sono chiamati a mettere mano ad una serie di problemi non da poco: a cominciare dal Gulistan e da tutto l’area dell’ex-opbox Tripoli nella parte sud-orientale della provincia di Farah, senza dimenticare la turbolenta Bala Morghab. Questa volta, per giunta, conoscono meglio il terreno e quindi è presumibile che si muoveranno più in profondità e con più sicurezza anche verso obiettivi e no-go zone (per gli occidentali) ancora “intatte”.
Il tutto in un quadro nuovo, con l’incognita della sicurezza ad Herat in fase di passaggio alle forze afghane, un quadro fluido che libererà altre truppe per l’impiego in aree più calde rispetto alla tranquilla Herat ma non esclude che gli italiani avranno occasione di correre in supporto di ANA e ANP in caso di grossi guai nella capitale provinciale.
Saranno sei mesi caldi, cominciano nel silenzio – con sommo sollievo, ipotizzo, del mondo politico – ma è un silenzio che non durerà. Auguri ai parà. Auguri all’Afghanistan.
Mentre i vivi litigano, e se ne discute non senza ipocrisie, c’è voluta la sincerità delle parole lasciateci da un giovane caduto alpino per mostrare a chi si ostina a guardare il dito, tutto quello che c’è intorno. C’ho messo qualche giorno per scrivere questo post, perchè di solito evito di fare commenti “geopolitici” nei giorni destinati al lutto come purtroppo è stato l’ultimo del 2010. Nei giorni successivi poi, ho visto aprirsi una fisarmonica di eventi e dichiarazioni sulle quali mi sembrava il caso di riflettere.
Matteo Miotto ha scritto nel suo testamente di voler essere sepolto nella parte del cimitero di Thiene dedicata ai caduti di guerra. Sembra una decisione privata, per me sono parole di verità nella vicenda afghana. Al di là della facile retorica, dovrebbe spingere molti a spostare lo sguardo dal dito, a guardare a cosa quel dito stia puntando.
Matteo è morto in guerra, da professionista sapeva che c’era questa eventualità e l’ha scritto nel suo testamento. Non voglio riapre il discorso sulla natura della missione italiana, finiremmo con il parlare della Costituzione e perderci la sostanza ovvero che in Afghanistan si combatte una guerra e la politica (tutta) non si assume la responsabilità di dirlo al Paese. Di dire agli italiani che quella è una guerra, magari giusta (come ritiene il Premio Nobel per la Pace, il presidente Obama e – più implicitamente – tantissimi governi di mezzo mondo) ma null’altro che una guerra.
Quanto sia importante questa verità l’abbiamo capito nei giorni successivi alla morte di Matteo, in una vicenda dove quella decisione di un giovane alpino diventava sempre più altamente simbolica, proprio ora e mai come ora.
Il ministro La Russa arrivato ad Herat la sera del 5 gennaio, racconta che Miotto non è morto come inizialmente detto (colpito da un cecchino) ma colpito durante un attacco “multiplo” alla sua base. Due scenari ben diversi. La Russa polemizza con i militari che l’hanno informato tardi, parla del “riflesso di un vecchio metodo, di cercare di indorare la pillola della realtà dei fatti, di dire la verità ma nel modo più indolore possibile” – ovvero riapre la polemica con il metodo del governo Prodi (che poi proprio sull’Afghanistan scivolò la prima volta). Oggi sul Corriere della Sera, la smentita del Capo di Stato Maggiore, il generale Camporini apre uno scontro senza precedenti tra i vertici civili e quelli militari delle forze armate. Il ministro La Russa deve convocare in mattinata una conferenza stampa per ricucire lo strappo con le stellette.
Qualcuno mi sembra provi a leggere lo scontro secondo le categorie dell’italico “politichese”. Qualunque cosa sia successa l’ultimo giorno dell’anno nel Gulistan (e molti dubbi continuano ad esserci), queste onde “telluriche” altro non sono che frutto del peso dell’Afghanistan; qualunque entità metta le mani in quel Paese – lo dice la storia – si ritrova profondamente destabilizzata, solo negli ultimi tempi penso alle dimissioni del governo olandese o a quelle del presidente tedesco. Ora sbattono le porte di Palazzo Baracchini, la sede del Ministero alla Difesa, a Roma.
L’altra cosa a cui punta il dito, lo stesso dito dal quale gli occhi non riescono a staccarsi, è un distretto della provincia di Farah. Si chiama Gulistan, il posto dei fiori in lingua dharì, sempre più – drammaticamente – fiori di lutto per gli italiani. Dal primo settembre i nostri militari sono arrivati per estendere la presenza del governo di Kabul, tradotto per tagliare le retrovie dei talebani che nella confinante provincia di Helmand, la loro roccaforte, sono sempre più messi alle strette dalle massicce operazioni anglo-americane, ma hanno bisogno della strada della droga e della strada della ritirata verso il nord. Fino ad agosto l’op-box Tripoli ovvero una parte della provincia di Farah, Gulistan compreso, era in mano agli americani più del doppio dei 350 italiani che hanno preso il loro posto, asserragliati in tre fortini, chiaramente pochi per il compito loro assegnato e per dedicarsi ad un territorio così vasto.
Dal primo settembre i sei caduti riportati dagli italiani sono morti qui, cinque in Gulistan, uno nel confinante distretto di Bakwah. C’è bisogno di dire altro per capire che inferno sia quella zona in passato terreno solo delle forze speciali per brevi raid? Un terreno tutto da “riconquistare” dove solo poche settimane fa sono arrivati i primi militari afghani (anche per questo gli italiani finiscono con l’essere pochi). In confronto l’estensione della “bolla di sicurezza” di Bala Morghab corre il rischio di sembrare una passeggiata.
E siamo ancora in inverno, da marzo in poi la situazione – è facile prevederlo – si farà sempre più difficile, all’epoca in campo sarà schierata la prima aliquota di parà della Folgore che quest’anno copriranno il turno estivo (da aprile) della missione italiana.
Penso alla visita del generale Petraeus e del generale Camporini, il giorno di Natale, proprio a Bakwah. Rileggo i comunicati, quello in italiano dove spicca questa frase “Bakwah è una delle aree dove maggiormente si concentrano gli sforzi degli italiani nell’implementare la sicurezza, di concerto con i militari afghani. Sicurezza che i cittadini percepiscono di giorno in giorno e che va di pari passo con la fiducia nel lavoro delle forze di coalizione.” Quello destinato ai media internazionali (scritto in inglese), dove all’incirca nello stesso punto compare invece questa frase: “Bakwa is one of the more volatile areas in RC-West, and the Soldiers based there often engage insurgents in kinetic activities.” Ovvero “Bakwa è una delle aree più instabili dell’RC-West, i soldati di stanza qui spesso combattono con i ribelli”. Li rileggo e penso a quanto siano pesanti le parole di verità scritte da un giovane alpino morto a migliaia di chilometri da casa, scritte da chi pensa a dire le cose come stanno non all’effetto che le sue parole potranno produrre.
Purtroppo penso anche a cosa saranno i prossimi mesi nell’infero del Gulistan.
Cinque kamikaze; indosso il burqa a coprire la cintura esplosiv; l’ormai classica tecnica del primo che si fa esplodere per aprire la strada agli altri che irrompono sparando; la reazione delle guardie della sicurezza che riesce a fermarli, uccidendoli. Secondo le ultime ricostruzioni, sarebbe questa la dinamica dell’attacco di stamane alle sede Onu di Herat. Un’attacco che, per fortuna, è andato a vuoto. Oltre agli attentatori, ci sarebbero solo un paio di guardie ferite, il personale delle Nazioni Unite è riuscito a rifugiarsi nella “strong room” dell’edificio, al sicuro. Nel pomeriggio sarà poi evacuato nella vicina base italiana, Camp Arena, all’aeroporto di Herat, dove passerà la notte.
Nonostante sia fallito, l’attacco di oggi è preoccupante. Se nell’ottobre del 2009, poco prima del (poi cancellato) ballottaggio delle elezioni presidenziali, a Kabul era stato colpita una guest house utilizzata dalle Nazioni Unite, uccidendo sei funzionari di Unama, è la prima volta che si colpisce una sede ufficiale della missione – un salto “mediatico” di qualità. Ed è la prima volta che un attacco così massiccio e potenzialmente devastante, viene condotto ad Herat che sin’ora – nonostante il peggioramento degli ultimi mesi – è stata considerata una città sicura per gli standard afghani. Del resto la responsabilità della sicurezza nell’area urbana potrebbe essere presto passata formalmente alle forze di sicurezza afghane, in quel processo (in parte sostanziale, in parte simbolico) che vuole dare “visibilità” al disimpegno delle forze Isaf.
Più che la rivendicazione talebana, fatta pervenire all’agenzia AFP, in realtà è la dinamica a portare la firma degli studenti coranici, in un ‘area dove si intrecciano interessi di potenti locali e dei potenti vicini iraniani e dove quindi è facile equivocare l’origine di certi fenomeni. Che cosa possa significare questo attentato è presto per dirlo. Come l’attacco alla sede di UsAid (la cooperazione statunitense) di quest’estate in un’altra ex-area sicura, Kunduz, potrebbe però essere un nuovo segno della strategia della guerriglia di espansione dell’area di operazioni. L’obiettivo è sempre più di portare il terrore in tutto il Paese, in maniera più diffusa e più omogenea guardando la mappa. E’ una risposta mediatica, strategica e logistica alle offensive Isaf in aree come l’Helmand e Kandahar (vedi questi aggiornamenti dal campo pubblicati da NY Times e AFP nei giorni scorsi) che stanno spingendo i guerriglieri a lanciare attacchi nel resto del Paese, perchè per loro è impossibile fronteggiare direttamente le truppe organizzate di un potente esercito regolare come quello americano ma è molto facile diffondere il terrore, destabilizzare altre aree e “fare notizia”. Devono inoltre, spesso, spostarsi per trovare rifugio e per cercare aree dove è più facile colpire, “sbilanciando” le truppe straniere ormai sempre più concentrate sul sud.
Non è ancora chiaro se l’attacco di Herat di oggi faccia parte di questa strategia, di certo è un segnale da tenere sotto controllo con grande attenzione. Dopo la “caduta” del Nord-Est (ormai segnato da una fortissima presenza di guerriglieri, afghani e non), il nord-ovest con l’eccezione di alcune sacche (come l’ “italiana” Bala Morghab) è ancora parzialmente stabile. Il che vuol dire che potrebbe essere il prossimo bersaglio di una campagna di attacchi dall’alto profilo mediatico, come avrebbe potuto essere quello di oggi, e di terrore a vasto raggio per destabilizzare le autorità localo. In questo le province nord-orientali di Taqar e Kunduz offrono un copione almeno in parte, tristemente, replicabile.
Passaggio di consegne ad Herat (foto ufficio Pio Rc-West)
E’ stato un passaggio di consegne tra alpini, quello di Herat. Da oggi la regione ovest della missione Isaf, quella a comando italiana, è “affidata” alla Brigata Julia, che purtroppo ha già perso quattro uomini, pochi giorni fa in Gulistan, dispiegati per coprire la nuova task force south-east, in una sorta di “anticipo” dello schieramento odierno. La Taurinense lascia dopo sei mesi durissimi, impegnata nel semestre caldo meteorologicamente che è poi quello più “caldo” anche in termini di combattimenti, vecchia regola quasi mai smentita in Afghanistan. Gli alpini della Taurinense hanno subito duecento attacchi, più di uno al giorno, sessantuno gli ordini neutralizzati ma che altri cinque sono esplosi e hanno ucciso in due occasioni. “La minaccia è stata neutralizzata” in diverse occasioni, che tradotto dal glaciale gergo militare significa che sono stati uccisi un numero imprecisato (perchè non reso noto) di ribelli. Nei sei mesi peggiori di sempre per la missione italiana in Afghanistan, sono dieci i nostri soldati uccisi. Purtroppo una triste e matematica conferma dell’andamento di tutta la missione Isaf che nel 2010 ha perso più uomini che mai. Di seguito il comunicato finale sulla missione diffuso oggi dal Maggiore Mario Renna:
HERAT, Afghanistan (18 ottobre) – La brigata alpina Julia ha assunto oggi la guida per i prossimi sei mesi del Regional Command West, il comando NATO responsabile per la regione occidentale dell’Afghanistan forte di oltre 7000 militari di undici nazioni, tra cui 3.600 italiani, metà dei quali fanno parte del corpo degli Alpini.Il generale Marcello Bellacicco ha ricevuto oggi la bandiera della NATO dalle mani del generale Claudio Berto, comandante della Taurinense, alla presenza del Sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto e del comandante dell’ISAF Joint Command, il generale statunitense David Rodriguez.Nel periodo tra aprile e ottobre di quest’anno il contingente internazionale guidato dal generale Claudio Berto ha operato su un’area grande quanto l’Italia del nord, popolata da circa 3 milioni di persone, con molti risultati di rilevo all’attivo: zone un tempo terreno d’azione dagli insorti oggi pacificate e ripopolate, centinaia di progetti di sviluppo realizzati, migliaia di poliziotti e soldati afgani addestrati, centinaia di ordigni disinnescati dal genio.
Le operazioni sono state condotte in collaborazione con le forze di sicurezza locali secondo un approccio italiano che ha visto mettere la popolazione afgana al centro degli sforzi, coinvolgere le comunità e i leader locali nell’affrontare i problemi legati alla sicurezza e allo sviluppo, realizzare i progetti di ricostruzione tramite risorse locali, usare flessibilità senza rinunciare ad essere determinati, adoperare le armi solo se attaccati e quando necessario.A nord, a Bala Murghab il 2° reggimento Alpini, insieme a forze statunitensi e afgane, è stato protagonista della costruzione di una ‘bolla di sicurezza’ di 20 km di estensione che ha difeso da attacchi esterni mediante un sistema di capisaldi e trincee, consentendo il ritorno alla normalità per 8000 persone fuggite a causa degli insorti.Parallelamente, all’interno della ‘bolla’ è stato lanciato un programma internazionale di aiuti a sostegno della popolazione, che ha risposto con favore al nuovo corso, facendo tra l’altro registrare alle elezioni politiche dello scorso 18 settembre uno dei tassi di affluenza più elevati della provincia.Al centro e a sud del’area di responsabilità, le unità del Regional Command West hanno operato a fianco delle forze di sicurezza afgane per estendere il raggio d’azione del governo, in particolare nei distretti remoti delle provincie di Herat e Farah. Il 3°, il 7° e il 9° reggimento Alpini hanno prodotto insieme alla polizia e all’esercito di Kabul uno sforzo puntuale e costante per contrastare la presenza degli insorti e proteggere la popolazione. Gli specialisti del genio hanno neutralizzato e distrutto centinaia di ordigni, spesso segnalati dalla popolazione afgana alle forze di polizia locali.
Nei sei mesi del mandato della Taurinense alla guida di RC-W, i quattro PRT presenti nelle province occidentali di Badghis, Farah, Ghowr ed Herat hanno condotto 384 progetti a breve e medio termine che sono stati integrati nei piani di sviluppo delle autorità governative locali. Di speciale importanza è stato l’impegno nel sostenere i programmi governativi di reintegrazione di ex-combattenti nelle comunità di provenienza, che stanno coinvolgendo decine di insorti orientati a deporre le armi.In particolare, il PRT Italiano di Herat ha condotto oltre 130 progetti per un totale di 18 milioni di Euro nei settori dell’istruzione, della sanità, delle comunicazioni e dello sviluppo socio-economico della provincia, triplicando il budget del Ministero della Difesa mediante l’accesso a fondi esteri.
Sul fronte dell’addestramento e della preparazione delle forze di sicurezza afgane, i Carabinieri hanno lavorato intensamente ed efficacemente brevettando oltre 4000 reclute dell’Afghan Civil Order Police, la polizia afgana con caratteristiche spiccatamente militari addestrata presso i centri di Adraskan ed Herat gestiti dai militari dell’Arma. In vista di una sempre maggiore autonomia nel training è stato inoltre lanciato un programma di formazione degli istruttori afgani.La Task Force Grifo della Guardia di Finanza ha contribuito alla formazione specifica dei quadri della polizia di frontiera e delle dogane, impegno di una certa importanza visto che la regione ovest presenta confini di migliaia di kilometri con l’Iran e il Turkmenistan.
L’ottima riuscita della partnership con il 207mo Corpo d’Armata dell’esercito afgano è stata facilitata dall’opera dell’Operational Mentoring and Liaison Team, l’unità multinazionale a guida italiana che quotidianamente ha accompagnato in operazione e in addestramento tutti i battaglioni afgani schierati nell’ovest del Paese. Un’attività analoga è stata sistematicamente svolta dai Carabinieri del Police Mentoring and Liaison Team nei confronti del comando del 606mo Corpo della polizia di stanza a HeratTutte le operazioni si sono avvalse dell’apporto di velivoli ad ala fissa e rotante inquadrati in task force statunitensi, spagnole e italiane.
Di notevole importanza è stato il contributo della Joint Air Task Force (JATF) dell’Aeronautica Militare e della Task Force Fenice dell’Aviazione dell’Esercito, che, mettendo in campo una grande gamma di capacità, hanno prodotto centinaia di missioni di ricognizione, scorta, trasporto, aviolancio e osservazione. Gli AMX e i Predator dell’Aeronautica hanno giocato un ruolo di peso nella protezione dei convogli e nel contrasto alla minaccia degli ordigni improvvisati, mentre i Mangusta dell’Esercito hanno svolto un compito essenziale nell’appoggio alle truppe a terra, che sono state rifornite con regolarità grazie ai C130J della JATF e ai CH47 di Fenice, che con gli AB205 e 412 ha inoltre assicurato missioni di collegamento e scorta.Il generale Claudio Berto ha ricordato il sacrificio dei dieci militari italiani caduti in Afghanistan negli scorsi sei mesi, rimarcando “l’intensità delle attività operative e il valore aggiunto dell’approccio italiano che coniuga con successo sicurezza e sviluppo, al servizio del popolo afgano nel processo di normalizzazione del Paese, senza trascurare le comunità e le aree meno avvantaggiate”.
Herat, Camp Arena, giornata di TOA ovvero di cambio di contingente per la missione italiana. Dopo sei mesi durissimi, lasciano gli alpini della Taurinense e arrivano, come da programma, quelli della Julia. Un collega fa una domanda al comandante (uscente) dell’RC-West, ovvero dell’area ovest della missione Isaf, ovvero quella a comando italiano. La domanda, rivolta al generale Claudio Berto, riguarda il dibattito (che tanto ha tenuto banco nei giorni destinati al lutto per la morte dei quattro alpini della Julia, uccisi in Gulistan) sull’armamento dei caccia italiani, jet utilizzati per ricognizione e non dotati di bombe; “dotazione” che invece il Ministro La Russa vorrebbe autorizzare non senza polemiche e scetticismi.
Ecco quanto riporta l’Ansa:
Con i caccia Amx armati di bombe ci sarebbe stata maggiore sicurezza per i militari italiani in Afghanistan? Si sarebbero evitate vittime? E’ una ”domanda difficile” alla quale il generale Berto, che per sei mesi ha comandato la regione ovest della missione Isaaf preferisce non rispondere. ”C’e’ pero’ da dire una cosa: che gli assetti aerei non sono mai mancati” a supporto del contingente nazionale. Questo perche’ ogni volta che sono stati chiesti, spiega il generale Berto, ”la Nato ha provveduto” a portare soccorso. ”Per quanto riguarda invece gli elicotteri – aggiunge il generale – il contingente nazionale ha tutti gli assetti necessari per operare autonomamente”
Nemmeno leggendo la stampa spagnola (che riprende l’opinione del governo sulla premeditazione dell’attentato – vedi el pais; el mundo) si capisce bene la dinamica dell’attacco di ieri a Qal-e-Now costato la vita a due poliziotti e ad un interprete iberici. Come fa ad Herat la Task Force Grifo della guardia di finanza italiana, la Guardia Civil spagnola addestra le forze di sicurezza locali nella base di qal-e-now, capitale della remota provincia di Badghis dove gli spagnoli gestiscono il locale Prt, che fa non poca fatica ad uscire dai dintorni della città. Ieri un afghano ha impugnato le armi e sparso altro sangue – inizialmente sembrava si trattasse di reclute, ora si parla dell’autista del comandante della polizia locale. Anche se in questo caso la posizione del governo spagnolo è molto chiara, episodi del genere si moltiplicano (militari o poliziotti afghani che ammazzano e feriscono elementi delle truppe occidentali – tre episodi del genere solo nell’ultimo mese se la memoria – mia e della Reuters – non inganna). La tentazione è quella di descriverli come “argument”, ovvero delle liti, degli incidenti appunto. Mi sembra invece chiaro che l’infiltrazione nelle forze di sicurezza locali dei talebani è ormai molto forte, come accadeva ai tempi dei russi (Steve Coll per esempio cita l’invito dei mujaheddin agli infiltrati a non disertare perchè più utili all’interno); in un quadro per giunta dove il reclutamento va avanti a manetta, purchè si riempiano gli organici in vista del passaggio alle forze di sicurezza locali. In sintesi, direi che l’infiltrazione deve essere presa e considerata come un dato di fatto.
Non so invece se le dure e violente manifestazioni all’esterno della base spagnola, ieri, siano state davvero organizzate come dice il governo spagnolo: le voci in Afghanistan hanno la forza di un tornado, più si diffondono e più prendono quota…immagino la voce di un afghano ucciso dagli spagnoli che si diffonde tra la gente e magari dopo un’ora si parla di un plotone di esecuzione per decine di concittadini. Di certo fa pensare rivedere le immagini dell’assalto alla base, la stessa dalla quale partono i convogli umanitari e le distribuzioni in primo luogo destinate alla città che ieri si è ribellata.
Per chiudere, i link della stampa spagnola sulle tre vittime di ieri: Jose Maria Galera, Leoncio Bravo e l’interprete, naturalizzato spagnolo da lungo tempo, Taefik Alili.
I meccanismi dell’informazione sono davvero “curiosi”, a volte. Dopo l’ondata di rivelazioni di wikileaks, sul NY Times appare un articolo (targeted killing is new U.S. focus in Afghanistan) che suona come un chiaro segnale verso l’esterno che all’interno (ovvero nel ristretto novero dei collaboratori del Presidente americano) stia passando sempre più la linea di Joe Biden, il vicepresidente che non ne voleva sapere della surge, dell’incremento delle truppe in Afghanistan, e che invece pensava ad una strategia molto mirata. Articolo che – non guasta mai – dà una visione diversa dell’andamento del conflitto rispetto all’ondata quotidiana di brutte notizie, un po’ della serie “stiamo perdendo sul terreno, ma stiamo decimando i vertici talebani”…tanto che i quadri intermedi dell’organizzazione non vogliono più saperne di promozioni.
A seguire, sempre cronologicamente parlando rispetto alle rivelazioni di wikileaks, arriva la copertina-shock di Time magazine che ha fatto il giro del mondo: il ritratto di una giovanissima donna afghana, mutilata su decisione di un tribunale talebano per le sue disobbedienze familiari (qui, le reazioni all’uscita del settimanale). Una copertina che forse resterà nella storia dell’Afghanistan proprio come quella del Nat Geo magazine scattata da Steve McCurry ormai circa vent’anni fa.
Bene, per anni, negli ultimi anni, è stato pressoché impossibile per i giornalisti “piazzare” storie del genere su pubblicazioni e telegiornali ed era rimasta solo la RAWA (l’organizzazione delle donne rivoluzionarie afghane – organizzazione sostanzialmente di tipo maoista) a parlare di donne stuprate, donne auto-immolatesi ovvero quasi sempre finite con ustioni di terzo grado su tutto il corpo dopo aver provato a sfuggire alle angherie del marito e del padre con una latta di benzina e di un fiammifero. Non che la condizione delle donne non sia migliorata in questi anni in Afghanistan, ma è stato un miglioramento circoscritto alle aree urbane, in particolare alla capitale, ma se n’è parlato sempre di meno anche per via di quel curioso fenomeno dell’informazione per cui ad un certo punto una certa notizia “stanca” e diventa come un dejavù.
Sia ben chiaro, non sto dicendo che la scelta di Time non sia meritoria (seguito a ruota da altre testate americane come lo stesso NY Times, vedi qui – storia di copertina sull’IHT) ma è strano che si torni a parlare del “fattore D(onna)” ovvero della condizione femminile in Afghanistan proprio ora che c’è un conflitto (e una strategia) allo sfascio e si tratta di mettere insieme i cocci, tirando avanti almeno fino al 2014 (stando al calendario di Karzai per il controllo del territorio da parte delle truppe governative). Tutta questa storia mi ricorda la seconda metà degli anni ’90. All’epoca lo scenario era diverso: gli Stati Uniti, dopo il ritiro russo dall’Afghanistan e il crollo del comunismo, avevano totalmente abbandonato il paese e successivamente preso a considerare i talebani quasi come un elemento di stabilizzazione dopo la guerra civile (oleodotti inclusi). Eppure anche allora, la mobilitazione delle donne americane (compresa Hillary e la Albright) e l’immagine simbolo del burqa servirono a riportare almeno un po’ di attenzione americana sul Paese. Immagini che diventarono poi una delle giustificazioni principali (quasi come quelle dell’11 settembre) dell’operazione Enduring Freedom.
A lungo attesti, i Freccia sono arrivati in Afghanistan. Nella foto (scattata dall’ufficio Pio del comando italiano) se ne vede uno in azione a Shindand, dove opera la Task Force Center ovvero uno dei tre battle group italiani. Il Freccia è un mezzo “digitale” (per via della tecnologia di cui dispone) e può portare fino ad otto militari, più i tre membri dell’equipaggio. Pesa 28 tonnellate e conta su oltre 500 cavalli di potenza. “Una compagnia di Freccia dell’82° Reggimento fanteria “Torino” di stanza a Barletta è attualmente schierata a Shindand, a sud di Herat, in seno alla Task Force Centre, costituita dal 3° reggimento Alpini di Pinerolo – si legge nel comunicato ufficiale – La compagnia partecipa ad operazione di pattuglia e scorta insieme alle compagnie alpine dotate di blindati Lince”. Il Freccia è un mezzo molto sicuro, più del Lince, ma ovviamente ben più limitato – per via di peso e dimensioni – nel suo impiego che (proprio come con i carri Dardo) dovrebbe essere circoscritto al deserto pietroso tra Herat e Farah.
E’ sempre importante sapere che ci si preoccupi di dotare chi rischia la vita di equipaggiamenti all’avanguardia (dell’arrivo dei Freccia ha più volte parlato il Ministro La Russa, anche in coincidenza con fatti tragici come la morte di nostri soldati). E’ anche importante sottolineare (per evitare fraintendimenti nell’opinione pubblica) che nuovi mezzi, per quanto più sicuri, non possono azzerare i rischi della missione afghana, che sin’ora ha sempre confermato la regola che a blindatura maggiore corrisponde una maggiore carica di esplosivo, che a maggior protezione corrisponde un attacco più aggressivo. La logica a spirale della guerra che in Afghanistan pare ancora più amara che altrove.
Posa della prima pietra - Scuola "Ramadù - Pascazio"
Mentre, lunedì, a Bala Morghab il convoglio italiano finiva sotto attacco, più a sud nella provincia di Herat, quasi in contemporanea, il Prt italiano posava la prima pietra di una scuola. Verrà intitolata al sergente maggiore Massimiliano Ramadù e al caporal maggiore scelto Luigi Pascazio, i genieri della brigata alpina Taurinense uccisi proprio in quell’attacco. La notizia è arrivata dal comando italiano, poco dopo la fine dei funerali dei due caduti. Gli americani di solito intitolano ai caduti le loro basi (Fob Tillman, Camp Blessing…), gli italiani hanno scelto una scuola – mi sembra una differenza non da poco, al di là della retorica della missione di pace a cui ormai non crede più nessuno. Un gesto che, tra l’altro, forse contribuirà anche a dare un po’ di sollievo a famiglie dei due alpini, il cui dolore sarà comunque incancellabile.
Mi ha fatto piacere leggere quel comunicato – subito dopo, però, ho provato a guardare al 2020 o forse solo al 2015. Mi sono chiesto che cosa sarà di quella scuola tra dieci anni? Qualcuno in Afghanistan proverà a leggere quei due cognomi stranieri pensando a quello che hanno contribuito a fare per il loro paese o il tempo, la guerra, il caos avranno intanto cancellato tutto? Insomma mi chiedo quanto durerà la guerra e cosa resterà di quello che gli occidentali stanno facendo, nel bene e nel male, in Afghanistan. Sarà il dolore per queste due nuove vittime italiane, per gli altri occidentali che continuano a morire in giro per il paese, per le tante vittime afghane che “non fanno notizia” ma ogni giorno è sempre più difficile credere che il 2013 sia un obiettivo realistico per la fine della guerra.