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La stretta di mano

Tra gli esponenti della variegata guerriglia afghana che solo per comodità giornalistica viene chiamata “talebana”, che Hekmatyar fosse l’unico pronto a trattare con il governo Karzai lo si era capito da alcuni elementi recenti come la sua risposta parzialmente positiva all’ormai tradizionale appello alla riconciliazione lanciato da Karzai alla fine del ramadan; la notizia di scontri al nord, alcuni giorni fa, tra talebani e gli uomini di Hezb-e-Islami (il partito-movimento militare di Hekmatyar, i cui appartententi vengono dagli americani indicati come HIGs) per il controllo dei villaggi della zona; quella di un incontro avvenuto ad inizio anno alle Maldive con gli esponenti di questa fazione.

Ieri è arrivata però un’inedita conferma ufficiale, il portavoce del presidente Karzai ha fatto sapere che a Kabul c’è una delegazione del movimento e sta trattando con il presidente. Secondo le dichiarazion di Haroon Zarghon, portavoce di H-E-I, alla France Press la delegazione avrebbe consegnato al presidente Karzai un documento in 15 punti come base per i negoziati di pace. Sembra anche di capire che la rigidità sulla richiesta del ritiro straniero sia caduta, sostituita da un calendario per il ritiro.

Un fatto del genere, per quanto sia un passo fondamentale verso la fine di una guerra che nessuno potrà mai vincere militarmente, fa arrivare tutti i nodi al pettine della “strategia della riconciliazione nazionale” ovvero farà capire quale sarà il prezzo della pace e se si tratterà di un prezzo che l’occidente può permettersi. Il prezzo sono le concessioni che il governo Karzai e i suoi sponsor occidentali vorranno fare a personaggi come Gulbuddin Hekmatyar, uomo dalle mani sporche di sangue e tra i principali nemici di quel suo stesso popolo per il quale dice – senza grande convinzione – di combattere.
E’ evidente cioè che se la pace (evento che se arriverà – non arriverà domani) verrà fondata sull’azzeramento delle poche conquiste della fragile democrazia afghana, beh…a quel punto sarebbe come dire che l’occidente, in questi anni, ha buttato migliaia di vite (in primis quelle dei civili afghani) e milioni di dollari per uno scopo non chiaro. Hekmatyar, noto per i suoi cambi di fronte e per la sua brama di potere, ha voglia di ritornare al potere, l’accordo con la sua fazione servirebbe chiaramente come successo mediatico per Karzai nel suo tentativo di condurre colloqui di pace. L’importante, però, è sapere che, se quella militare non è la soluzione, le trattative non si risolvono solo con una stretta di mano visti anche i personaggi coinvolti. E nel panorama della guerriglia afghana e dei signori della guerra, Hekmatyar è a mio avviso il personaggio peggiore di sempre.

Chi è Hekmatyar?
Formatosi nel clima tempestoso dei primi anni 70′ all’università di Kabul (clima di radicalismo nel quale nacquero sia i movimenti comunisti che quelli islamisti), anni dopo, fuggito in Pakistan, l’ “ingener” Gulbuddin Hekmatyar ha avuto la capacità di diventare il punto di riferimento principale dell’ISI, i servizi segreti pakistani, quando questi distribuivano i soldi di Washington e dei sauditi ai mujaheddin per organizzare la guerriglia anti-sovietica in Afghanistan. Amato dagli americani per la sua determinazione nel combattere i sovietici (la stessa con la quale avrebbe combattuto gli stessi americani) nonostante il suo coinvolgimento nel traffico di oppio. All’avvicinarsi della vittoria, con il ritiro sovietico, l’ingegnere ha pensato bene di ammazzare intellettuali ed esponenti moderati della resistenza afghana per poter conquistare il futuro controllo del paese. Famosa nel 1992 la sua marcia su Kabul, alla caduta di Najibullah (presidente filo-sovietico), nella quale venne beffato da Massoud, com’è famosa (tristemente) la battaglia tra i due per la contesa della città e la pioggia di razzi che, per mesi, Hekmatyar ha scaraventato sulla capitale radendola al suolo, Heckmatyar nella telenovela dei governi afghani duranti il periodo della guerra civile ha anche ricoperto ruoli di primo piano in questi fragili esecutivi per poi finire esiliato dai talebani in Iran. Da stretto alleato degli americani negli anni ’80 (gli anni ’90 sono un buco nero nella politica americana verso l’Afghanistan) dal 2001 Heckmatyar si conferma l’estremista islamico che è sempre stato.

L’invasione americana gli dà la possibilità di riavere un ruolo in Afghanistan, questa volta per combattere gli odiati americani (con i loro stessi soldi per giunta, accumulati negli anni ’80). Gli uomini del suo Hebz-e-islami sono molto attivi nell’area est del paese, come la provincia di Kunar, come nelle aree più vicine a Kabul (le storiche roccaforti di Cherasiab e Surobi) ma anche nel nord. Hekmatyar non è il solo criminale ed assassino del panorama politico afghano sia della guerriglia che del governo filo-occidentale (forse il solo Karzai è l’unico a non aver mai avuto una propria milizia). Purtoppo sono questi i personaggi a cui stringere la mano, anche perchè una “vera” pace con l’ “ingegnere” sarebbe un contributo alla stabilizzazione di un’importante area del paese. Contributo importante seppur parziale, visto che le fila del grosso della guerriglia le tirano Haqqani figlio e il Mullah Omar. Sempre che un “pacificato” Heckmatyar sia poi in grado di continuare a controllare le sue “truppe” ma questa – forse – non è solo questione di soldi a cui Hekmatyar tiene e non poco.

Di nuovo polemiche su Sorobi

Non è una storia nuova, quella delle polemiche sull’imboscata di Sorobi e sull’attività delle truppe italiane nell’area. Nei giorni successivi alla morte dei dieci parà francesi in quell’area, in un’imboscata avvenuta tra il 18 e il 19 agosto del 2008 (la peggior perdita per l’esercito transalpino dai tempi del Libano), i media francesi sollevarono una generica polemica sulle responsabilità degli italiani (che avevano appena lasciato la zona dopo una presenza di circa sei mesi legata all’assunzione del comando della capitale Rc-C all’interno della missione Isaf) e dei loro rapporti con i guerriglieri nella zona. La polemica ora ritorna ma in maniera molto più puntuale sulle colonne del Times di Londra che in un articolo ben dettagliato e apparentemente surrogato da fonti diplomatiche e militari, accusa i servizi italiani di aver pagato la guerriglia, sostanzialmene, per “comprare” un po’ di pace nell’area. Un fatto non comunicato ai “successori” delle nostre truppe, i francesi, indirettamente esponendoli a quella tragica imboscata – questa almeno la ricostruzione del quotidiano britannico. Ecco alcuni estratti dall’articolo del London Times:

The Times has learnt that when French soldiers arrived to assume control of the Sarobi area, east of Kabul, in mid-2008, they were not informed that the departing Italians had kept the region relatively peaceful by paying local Taleban fighters to remain inactive.

Western officials say that because the French knew nothing of the payments they made a catastrophically incorrect threat assessment.

US intelligence officials discovered through intercepted telephone conversations that the Italians had been buying off militants in other areas, notably in Herat province in the far west.

In June 2008, several weeks before the ambush, the US Ambassador in Rome made a démarche, or diplomatic protest, to the Berlusconi Government over allegations concerning the tactic.

A number of high-ranking officers in Nato have now told The Times that payments were subsequently discovered to have been made in the Sarobi area as well.

Quindi, secondo il Times, la scoperta di questi pagamenti nell’area di Sorobi (si pronuncia Surobì) scatenò all’epoca un caso diplomatico e militare pur mai venuto alla luce. Durissima questa mattina la reazione del nostro governo (che – noto a margine – con il Times ha un “conto aperto” viste le recenti polemiche su Berlusconi, escort, ecc. ecc.) e l’annuncio di una querela. Per completezza di cronaca, c’è da notare che il dispiegamento a Sorobi è avvenuto a cavallo tra i due governi, è iniziato durante quello Prodi ed è terminato quando quello Berlusconi si era da poco insediato (un fatto che il titolo del Times on line prova a mettere in evidenza: Italian Prime Minister attempts to blame previous government over Taleban payments that left French troops exposed).

Per una sintesi in italiano della vicenda e per dettagli sulla polemica vedi gli articoli di Repubblica e quelli del Corriere (che tra l’altro ha diffuso in anticipo la notizia dell’articolo in via di pubblicazione). Per un ricostruzione dell’imboscata di Sorobi e soprattutto del dopo, vedi questa voce di wikipedia (in francese) con una lunga lista di fonti.

Anche se il London Times è uno dei quotidiani più prestigiosi del mondo e l’articolo (al contrario delle polemiche francesi dell’anno scorso) pare poggiare su fonti e dettagli specifici, c’è da dire che la vicenda resta ancora poco chiara e tutta da provare, anche perchè si tende a scindere la responsabilità dei militari da quella dei servizi, rendendo il quadro ancora più confuso. Pur essendo stato (e non senza grossi rischi e difficoltà, con il collega Gianfranco Botta del Tg3) a Sorobi, non sono in grado di esprimermi su questa storia. Mi sembra però utile, al fine di meglio inquadrare la vicenda, fornire un po’ di dettagli sullo “scenario”.

La zona di Sorobi è un’area non in mano ai talebani ma agli uomini di Hekmatyar, è un’area ad alto rischio sulla quale – durante il turno di dispiegamento degli italiani – si sono concentrate grandi attenzioni perchè all’epoca si temeva che la capitale Kabul potesse “cadere” in mani talebane (di lì a pochi mesi gli americani avrebbero schierato forze massicce nelle vicine province di Wardak e Logar). Sorobi si trova ad una trentina di chilometri di distanza dalla capitale ma soprattutto lungo la Jalalabad road, la strada lungo la quale arrivano a Kabul la maggior parte delle merci e soprattutto i rifornimenti Nato dal Pakistan.

Una storia di successo. Il caso di Sorobi è stato a lungo considerato presso il quartier generale della Nato, un caso di successo citato persino dal generale McChrystal. Gli italiani riuscirono a tenere sotto controllo la situazione in un’area esplosiva con la tecnica del “bastone e della carota” ovvero con massicci aiuti umanitari e progetti di ricostruzione legati però alla lealtà della popolazione locale, della serie “se mi aiuti, se mi fai scoprire depositi di armi e droga, se mi segnali i movimenti della guerriglia, noi aiuteremo te”. Una strategia non costata poco agli italiani, nel senso che i nostri militari hanno spinto sul pedale della sicurezza per la popolazione civile garantendo una “reperibilità” 24 ore su 24 ai loro contatti sul territorio, in primis agli anziani dei villaggi leali all’Isaf. In pratica sono sempre stati pronti ad intervenire quando squillava il telefonino, persino a notte fonda, per garantire la sicurezza di chi stava con loro, una versione “anticipata” della dottrina McCrhystal.

I combattimenti. Tra l’altro – pur nel silenzio “voluto” dal Ministero alla Difesa alla vigilia delle elezioni e nella lunga preparazione elettorale – gli italiani sono stati spesso impegnati in combattimenti, non semplici e spesso durati ore. Quelle impegnate nella zona non erano, tra l’altro,  truppe qualsiasi; si trattava in buona parte di rangers, i parà degli alpini, e di unità selezionate della Folgore. Per un racconto di quegli scontri, si veda in particolare “Afghanistan, ultima trincea” di Micalessin e Biloslavo.

L’imboscata di Sorobi verrà tra l’altro ricordata per le critiche ricevute all’organizzazione dei militari francesi. Pur nel rispetto della tragedia umana subita dalle forze armate transalpine, bisogna ricordare che diverse fonti concordano che le unità coinvolte nella battaglia vennero colte chiaramente di sorpresa su un terreno orograficamente ostile (tanto ostile che erano dovuti scendere dai mezzi e stavano procedendo a piedi), senza armamento pesante, senza munizioni e radio a sufficienza, senza supporto aereo e per giunta a metà giornata (quindi solo con poche ore di luce davanti a loro, non a caso i combattimenti terminarono a notte fonda). A rendere le dimensioni della tragedia ci pensò una grande e giovane fotogiornalista francese che scatenà una polemica nazionale sull’opportunità di pubblicare le sue immagini, polemica che a tutt’oggi trovo incomprensibile quanto fastidiosa per la libertà di stampa. Veronique de Viguerie fotografò i talebani autori dell’imboscata con indosso l’equipaggiamento tolto ai caduti (del servizio non trovo più traccia nell’archivio di ParisMatch, ma ne ho recuperato l’immagine simbolo qui). Immagini che testimoniarono quanto ravvicinati fossero i combattimenti (fatto raro in Afghanistan) e quindi quanto i militari francesi vennero presi di sopresa, alcuni dei quali pare uccisi e/o mutilati a colpi di pugnale, una volta rimasti senza munizioni. C’è da dire che il Times oltre ad utilizzare per il suo articolo di oggi proprio l’immagine simbolo della disfatta, ricorda chiaramente i limiti delle truppe francesi nell’occasione.

said one senior Nato officer. “They had no heavy weapons, no pre-arranged air support, no artillery support and not enough radios.”

Sono elementi questi innegabili che a seconda del versante della polemica possono essere utilizzati con finalità diverse, per sostenere che i comandi francesi hanno preso quella recon patrol alla leggera e che quindi hanno subito perdite per carenze organizzative e di pianificazione oppure che erano usciti in quel modo perchè gli italiani gli avevano detto che l’area era tranquilla (così sostiene il Times). Quando ho parlato con militari italiani presente all’epoca nell’area (l’ultima volta mi è capitato solo una decina di giorni fa) mi hanno sempre detto tutti la stessa cosa (mi riferisco a colloqui informali, non con fonti ufficiali), ovvero che i francesi si erano avventurari in quel pattugliamento convinti che si potesse fare così perchè “se lo fanno gli italiani, lo possiamo fare anche noi…” ma senza contare sull’organizzazione delle nostre truppe nè su i loro legami con le fonti sul territorio. Del resto i francesi in quell’area erano appena arrivati.

In sintesi, fermo restando il peso specifico dell’articolo del Times e la necessità di fare luce su queste accuse perchè senza chiarezza la credibilità di alleati dei militari italiani verrebbe minata, il racconto dei nostri soldati che hanno tirato a campare a Sorobi e di pagamenti che gli avrebbero spianato la strada, confligge con la storia sul campo fatta di sacrifici, combattimenti, rapporti con la popolazione locale e – non dimentichiamolo – con la perdita del primo Maresciallo Giovanni Pezzulo (vedi qui e qui) ucciso in un’imboscata avvenuta durante una distribuzione di aiuti umanitari.