Durante i seminari di Mojo Italia si sono ripetute le domande sul tema dello “zaino” cioè dell’attrezzatura da usare sul campo, quale usare (evitando di portarsi dietro troppo o troppo poco), come trasportala e come renderla immediatamente accessibile in un lavoro dove pochi secondi possono fare la differenza. Continua a leggere “Il mio zaino”
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In memoria di Gianfranco
Gianfranco se n’è andato senza fare rumore, come nel suo stile. Aveva 57 anni e da tre lottava con i postumi di una grave malattia. Ieri, 21 settembre, nell’affollata chiesa di Sant’Andrea a Savigliano (Cuneo), dove Gianfranco era nato, gli è stato tributato l’ultimo saluto.
La famiglia mi ha dato l’onore di portare un breve ricordo di Gianfranco che con me ha condiviso tante tra quelle che burocraticamente in Rai chiamiamo “trasferte” ma che spesso sono delle avventure durante le quali fai i conti con la morte.
Gianfranco per me è sempre stato una persona speciale perché era capace di enormi sforzi fisici, come quando in Afghanistan si trascinava dietro 30 chili d’attrezzatura, ma poi riusciva ad esprimere con il suo obiettivo una straordinaria umanità e sensibilità nel raccontare il dramma di conflitti e popoli che soffrono.
Nonostante ciò Gianfranco era un taciturno, schivo, modesto, umile. Faceva sembrare tutto quello che realizzava come una cosa normale quando era esattamente il contrario. Quando perse parte dell’udito da un orecchio durante l’ingresso dell’Alleanza del Nord a Kabul nel 2001, per via di una mitragliatrice che cominciò a sparare all’improvviso, non fece nemmeno la pratica per infortunio sul lavoro; la cosa avrebbe interrotto la trasferta e quindi il suo lavoro.
Pochi lo sanno ma Gianfranco è entrato in Rai dalla porta secondaria, lavorare al centro Rai di Torino ma non si occupava di comunicazione, faceva altro, un’occupazione umile, di quella che ti fa vedere da vicino i “miti” del giornalismo e della tv ma ben sapendo che sono cosa diversa da te e dal tuo mondo.
Con la sua enorme determinazione, Gianfranco quella barriera l’ha saltata ed ha “rubato” il mestiere con gli occhi fino a diventare uno dei più bravi telecineoperatori della Rai anzi della storia del giornalismo televisivo italiano.
Con lui abbiamo vinto nel 2008, il premio Alpi per il nostro pezzo “battaglia a Korengal”. Di lui parlo spesso nel mio libro sull’Afghanistan perchè a Gianfranco piaceva ridere della morte, quella che più volte ci era stata addosso. Guardava alle avversità con il sorriso, con un certo senso di sfida che gli bruciava dentro. I suoi silenzi non lo aiutavano, non era un uomo di pubbliche relazioni, ma la telecamera gli consentiva di esprimere tutta la sua ricchezza umana.
Quando si va in guerra insieme, si diventa fratelli. Sembra una banalità ma è forse l’unica cosa vera nel grande imbroglio che sono le guerre.
Chi non c’è passato non può capire quanto difficile sia fare il lavoro di raccontare (e di farlo con garbo, con rispetto, con accuratezza) tra centinaia di migliaia di profughi, in mezzo ad un’imboscata, camminando tra i resti dei cadaveri di un autobomba.
Sono momenti in cui, non ci si può nascondere: emerge quello che sei per davvero. Sono momenti in cui emerge il tuo desiderio di rinunciare a tutto, in primo luogo a te stesso, pur di raccontare, di testimoniare.
Per questo oggi fatico a trovare le parole. Quello che ho scritto sinora mi sembra inadeguato, quello che ho detto in Chiesa mi è sembrato poco, incompleto.
Gianfranco era una grande persona prima che un grande giornalista.
Per il gioco di un destino imbroglione, ha rischiato in morire a migliaia di chilometri da casa ma è venuto meno nel suo letto a Savigliano, con intorno l’amore dei suoi familiari e di chi gli voleva davvero bene. Era così forte che tre anni fa era sopravvissuto a quella brutta malattia che non risparmia nove persone su dieci, nel primo mese. La sua tempra gli ha fatto vincere anche quella battaglia ma poi ha dovuto affrontare lunghe e ingiuste sofferenze. Egoisticamente ho sempre pensato che ci avesse voluto dare la possibilità di salutarlo piuttosto che andare all’improvviso. Almeno ha avuto la gioia di baciare il suo primo nipotino.
Di lui resta un enorme patrimonio di immagini. Nei telegiornali “maciniamo” pezzi facendo cronaca che oggi è racconto del quotidiano. E’ il nostro lavoro. Ma, con il passare degli anni, quei “pezzi” diventano testimonianza della Storia.
Spero si possa trovare il modo di raccogliere il suo lavoro per testimoniare come l’amore per il giornalismo faccia sempre la differenza. Raccontare invece fino in fondo Gianfranco come persona, sarà invece impossibile perché – come sta capitando anche a me ora – non si troverebbero parole a sufficienza.
PayPal ce l’ha col mio libro?
Finalmente ho attimo per scrivere (con un po’ di ritardo) di una storia che davvero non mi piace. Mentre ci preoccupiamo – giustamente – delle cyberingerenze russe nella campagna elettorale americana o delle falle nella crittografia del più popolare programma di messaggistica istantanea, ci sfugge forse la vulnerabilità dei cyber-consumatori e dei creatori di “contenuti” di fronte alla strutture di servizio del web.
Strutture all’apparenza “neutre” perché si occupano solo di servizi come quelli finanziari, che invece hanno una potenziale capacità di governare i contenuti e di censurare argomenti scomodi o eventualmente a loro (e/o a chi li controlla) non graditi.
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Missione Incompiuta a Livorno, il video
Craudfunding
Beh, che dire?…oggi dovrei essere contento e serenamente rilassato, domani sera “KILLA DIZEZ” va in onda su RaiStoria alle 23.22…ed il compimento di un percorso cominciato un anno e mezzo fa quando, non trovando supporto “in casa”, decisi di imbarcarmi da solo in questa avventura, da cui poi scaturiranno i 62 minuti che ho prodotto, filmato e montato sull’epidemia più grave in età moderna di un virus letale; una notizia sulla quale l’informazione occidentale ha dato il peggio di sè.
Eppure non sono “sereno”…perché l’ “ovetto” che vedete nella foto e che si riempie lentamente mi mette ansia.
Come quando un ufficiale americano mi disse “questo è un’ambiente cinetico” e ci ritrovammo a prendere mortaiate ad ogni ora del giorno, questa volta mi ha “fregato” un altro termine trendy: crowdfounding che messo così sembra un’esperienza gioiosa e di condivisione collettiva di un progetto culturale…In realtà è un secondo lavoro a metà tra il piazzista di pentole, il social media manager, il consulente psicoterapeutico e la hell’s week dei Navy Seals! 🙂
Un click per Joao
A rileggerla oggi, purtroppo, la storia professionale del fotografo portoghese Joao Silva suona come una sorta di segno premonitore; noto per essere uno dei quattro fotoreporter del “bang-bang club” che si dedicarono a coprire la violenza di strada nel Sud Africa del post-aparteheid negli anni ’90.
Joao Silva è stato gravemente ferito nella provincia di Kandahar, saltato su una mina mentre era al seguito della quarta divisione di fanteria dell’esercito americano. Lo ha reso noto il New York Times, per conto del quale era in Afghanistan. La dinamica dell’incidente non è chiara e forse non lo sarà fin quando – speriamo presto – Joao sarà in grado di raccontarla. Soprattutto per chi lavora con le immagini ed ha bisogno di spostarsi alla ricerca di cambi di campo e inquadrature alternative, lavorare al seguito delle truppe in Afghanistan è sempre più rischioso soprattutto quando si avanza anticipando la colonna o il convoglio a cui si è aggregati. Soprattutto al sud, favoriti dal terreno piatto (a volte desertico a volte coperto da una fitta vegetazione e dai canali dell’irrigazione, trincee “naturali”) i ribelli ricorrono in maniera sempre più massiccia agli IED, gli ordigni nascosti e sempre meno individuabili. Ormai il loro potere esplosivo è cresciuto talmente tanto da non rendere indispensabile l’ “imbottitura” con schegge metalliche e chiodi che ne aumentano la forza distruttrice (come sparare migliaia di proiettili in ogni direzione, allo stesso momento) ma le rendono anche visibili ai metal-detector. L’incidente è avvenuto nel distretto di Arghandab, l’area che gli americani da mesi stanno provando a riportare sotto controllo con piccole operazioni diffuse, dopo il fallimento della spettacolare quanto vana offensiva della relativamente poco distante Marja nel febbraio scorso
Silva è l’ennesimo giornalista che viene seriamente ferito (o muore, per fortuna non è questo il caso) durante un embed sul mobile e sfuggente fronte afghano. Non è chiaro quanto gravi siano le ferite riportate da Silva, ferite che sarebbero concentrate alla gambe. Il sito di Silva racconta del suo straordinario lavoro, visitarlo è forse l’unico modo che abbiamo per stargli vicino in un momento del genere.
Facciamo uscire il libro di Gabriele Torsello

Gabriele Torsello è il fotoreporter italiano rapito nel 2006 in Afghanistan, famoso per uno sguardo “sensibile” alle storie degli ultimi in particolare in quella parte d’Asia. Gabriele sta provando a pubblicare un libro fotografico sull’Afghanistan che racconta anche del suo sequestro (vedi un’anticipazione a speciale Tg1 di ieri) ma ha delle difficolta ed ha bisogno dell’aiuto di tutti quelli che hanno a cuore l’Afghanistan e le sorti del giornalismo indipendente. Senza aiuto c’è il rischio che questo libro non veda la luce. Io personalmente ho deciso di contribuire acquistandone in anticipo un po’ di copie e provando a diffondere il testo che potete leggere di seguito.
Il libro fotogiornalistico nel quale racconto l’Afghanistan e l’intera vicenda del mio sequestro, con tutti i dettagli, ha bisogno della tua collaborazione.
Sono due anni che si lavora sul progetto e, proprio nella fase conclusiva, il terzo sponsor non ha confermato il finanziamento necessario per stampare il libro.
Le motivazioni? Nessuna. Posso dirti però che inizialmente la bozza è piaciuta moltissimo e solo dopo aver fornito ulteriori dettagli del contenuto (racconto del sequestro…) la sponsorizzazione è stata negata.
Avrei due scelte:
1) Eliminare certi dettagli dal libro
2) Chiedere la tua collaborazione
Ovviamente escludo a priori la prima e chiedo l’intervento dei singoli individui per concludere e avviare il progetto.
Come?
1) Prevendita: acquista una copia del libro in anticipo al costo di €20 (incluse spese di spedizione)
2) Formiamo il ‘Terzo Sponsor’: Partecipa alla sponsorizzazione del libro versando una quota libera.
In entrambi i casi i versamenti dovrebbero essere effettuati attraverso bonifico bancario o per assegno non trasferibile intestato a KASH GTorsello, con una email di conferma indirizzata a kashtorsello@me.com e specificando se si vuole il proprio nome inserito nella pagina dei ringraziamenti o meno.
Le coordinate bancarie:
Banca Unicredit
IBAN: IT 42 O 03002 77530 000401134483 KASH GTorsello
Indirizzo di posta:
Kash GTorsello
Via Scipione SanGiovanni 40
73031 Alessano (LE)
Per ulteriori informazioni o per qualsiasi domanda,
scrivetemi studiotorsello@me.com
Ovviamente per qualsiasi domanda scrivetemi.
Grazie e a presto
Kash Gabriele Torsello
12 ottobre 2009
7 mesi e 10 giorni, David Rohde racconta il suo sequestro
Ad alcuni mesi dalla sua liberazione il giornalista del New York Times, David Rohde, rapito dai talebani e tenuto prigioniero per sette mesi (la maggior parte dei quali in Pakistan) racconta la sua drammatica esperienza finita in maniera rocambolesca e segnata dal silenzio richiesto ed ottenuto dal suo quotidiano ai media di tutto il mondo (come lo stesso NY Times proverà a fare nel settembre scorso con il rapimento di un altro suo giornalista, Stephen Farrell, finito purtroppo in maniera ben diversa ovvero con la morte di molti, incluso il suo producer afghano Sultan Munadi).
Il racconto è diviso in cinque puntate, oggi è stata pubblicata la prima, a questo indirizzo, al testo si accompagna anche una versione multimediale del racconto – per vederla basta cliccare qui. La storia è interessante non solo per fare chiarezza sulla sua rocambolesca conclusione (su cui sono stati espressi dubbi – in pratica, si diffuse la voce che era stato pagato un riscatto, a smentire l’ipotesi della fuga – fatto molto grave vista l’attitudine americana a non pagare riscatti) ma perchè è uno straordinario documento. Apprezzabile la condotta del NY Times in tutta la vicenda, dal silenzio sul sequestro alla scelta di pubblicare il tutto solo a mesi di distanza. Una scelta che – nella speranza che non serva mai – dovrebbe servire di lezione anche nel nostro paese.
Dall’Italia, segnalo un’altra storia un altro racconto di un giornalista rapito in Afghanistan. La storia è quella del fotografo Gabriele Torsello, famoso per il suo obiettivo “sensibile” alle vicende degli ultimi in particolare in quella parte di Asia. Il suo racconto a Speciale Tg1, questa sera alle 23.30
Confermata la condanna per Kambakhsh
Il giovane giornalista di Mazar-i-Sharif, da oltre un anno in carcere per aver offeso il corano, prima condannato all’ergastolo (sentenza poi commutata in vent’anni di carcere) dovrà scontare la pena stando alla notizia (diffusa da Human Right Watch) che questa seconda condanna per blasfemia è stata confermata dalla Corte suprema afghana. La notizia è arriva alla famiglia di Perwez Kambakhsh solo dopo che è stata trasmessa alle autorità della provincia di Bhalk per essere eseguita.
La conferma della condanna è infatti avvenuta (e non è una novità in questa vicenda) in una seduta chiusa al pubblico e di fatto segreta. Parwez ha scritto o meglio solo diffuso (perchè afferma di averlo scaricato da Internet) un articolo sui diritti delle donne e l’Islam tra compagni di classe del suo corso universitario. Secondo molti però è stato “incastrato” per colpire suo fratello Ibrahim, giornalista che ha più volte denunciato i traffici e gli affari dei signori della guerra della provincia (l’ho incontrato e intervistato per il Tg3 un anno fa a Kabul, poco dopo che era stato sollevato il caso e lui stesso conferma questa spiegazione).
E’ una storia quella di Parwez che ha trovato grande eco all’estero e sintetizza i limiti nel processo di riforma e “costruizione” del sistema giudiziario afghano (processo finanziato dall’Italia), le crescenti pressioni sulla vivace stampa afghana e la deriva integralista in alcuni ambienti governativi del Paese. Sulla sua storia proverò a tornare in un post più approfondito.