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Le storie degli altri

Chi fugge da un luogo pericoloso, dalla guerra, dalla pulizia etnica, da una faida tribale, dalla persecuzione etnico-religiosa, crea una distanza fisica dal suo passato ma è destinato a portasi dietro la propria storia, per sempre, anche se riuscirà “altrove” a ricostruire per sé un’apparente dimensione di vita.
La diffidenza, l’ignoranza e le generalizzazioni (di ogni segno, comprese quelle sull’accoglienza “esibita”) ci impediscono di capire le storie di chi fugge e di comprendere come il suo passato, troppo spesso, sia destinato a tornare nel presente perchè chi se ne è allontanato, l’ha potuto fare solo in termini di coordinate geografiche.
Si tratti di un parente ammalato, di un amico in pericolo, di un’estorsione, di un ricatto o della richiesta di un favore a cui non puoi opporti, il passato ritorna sempre o quasi, è statistico ; sempre o quasi attraverso quei cari che ti sei lasciato alle spalle e che ti hanno aiutato a fuggire.
Presentato oggi alla stampa alla Casa del Cinema (dal 20/9 nelle sale), il film di Costanza Quatriglio “Sembra mio figlio” ha il merito di aprire un varco nella barriera “invisibile” che separa noi dalle storie di rifugiati e migranti. Ha il merito di mostrarci uno spaccato che è specifico, dettagliato, individuale: una storia vera, di certo verosimile ma non per questo “universalizzabile”, categoria che , in un modo o nell’altro, finisce sempre per sminuire il dramma del singolo.
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La banda del buco

Affittate una casa a trecento metri di distanza dal carcere di Kandahar. Metteci dentro un nutrito gruppo di fiancheggiatori talebani che per mesi scavino un tunnel, così profondo da passare sotto la trafficata “ring road” e sotto un paio di posti di blocco. Un tunnel che passi sotto il muro altissimo del penitenziario, un muro rinforzato come il resto della struttura dopo l’attacco del 2008 con un autobomba che portò all’evasione di mille talebani ed a giorni di dolorosi attacci contro la città.

Beh! prendete tutto questo e alla fine non avrete un film ma una storia vera: questa. Perchè tutta questa storia è accaduta per davvero. Nella notte tra Pasqua e l’italica pasquetta, il tunnel è arrivato sotto una cella del braccio politico della prigione, è stato sfondato il pavimento di cemento, spostato il tappetto che lo copriva e nel buco si sono calati quasi 500 detenuti, quasi tutti talebani, compresi numerosi capi. Dall’altra parte ad aspettarli c’erano macchine col motore accesso. Solo 26 fuggiaschi sono stati ripresi, altri 2 uccisi in un conflitto a fuoco.
Un fatto gravissimo l’ha definito il presidente Karzai, del resto se in quel buco sono entrate 100 persone all’ora, ci sono volute quasi cinque ore per farli fuggire tutti. Un po’ troppo per non sospettare che abilità o meno dei talib, dentro la prigione ci fossero degli appoggi consistenti alias basisti tra i secondini. O meglio qualcuno più importante dei secondi visto che nei giorni scorsi è stato arrestato il capo della prigione e si è scoperto che i servizi di intelligence sapevano del possibile attacco, che i detenuti talebani avevano il diritto a visite dall’esterno, copie delle chiavi delle celle e telefonini…

Ma il vero problema, oltre all’inaffidabilità delle forze di sicurezza afghane alle quali gli occidentali cominceranno a breve a passare le consegne, è la fuga in sè. La stagione dei combattimenti è cominciata, i ranghi dei talebani erano stati fortemente indeboliti dai raid delle forze speciali, vanificati in una notte. Quei capi e quei soldati talebani sono di nuovo in giro, militari afghani e stranieri se li troveranno presto di fronte sul campo di battaglia nella ostica provincia di Kandahar che tante vite è costato sin’ora provare a riportare ad un minimo di controllo. E’ questo il buco più profonde di tutta questa storia di scavi e di tunnel…

Sempre più minori in fuga dall’Afghanistan

Secondo le Nazioni Unite, tra il 2008 e il 2009, si è registrato un incremento nel numero dei minori afghani richiedenti asilo nei paesi occidentali pari al 60% in più, oltre 6000 contro i circa 3800 dell’anno precedente. Si tratta di dati assolutamente parziali, perchè molti di loro – arrivati illegalmente in Europa – ormai non chiedono nemmeno più asilo per non ritrovarsi schiacciati nel meccanismo dell’accordo di Dublino che obbliga a fare domanda nel primo paese d’arrivo, che quasi sempre è la Grecia (con bassissima propensione a riconoscere il diritto all’asilo) e non i paesi del Nord (che invece per motivi quantitativi e culturali sono più propensi a farlo). Per avere un’idea di quali storie si nascondano dietro le statistiche segnalo questo speciale dal sito della BBC e (scusate l’auto citazione) lo speciale “La Trappola” che ho girato nella “piccola Kabul” di Patrasso con Mario Rossi per il Tg3 nella primavera del 2009.