Chi fugge da un luogo pericoloso, dalla guerra, dalla pulizia etnica, da una faida tribale, dalla persecuzione etnico-religiosa, crea una distanza fisica dal suo passato ma è destinato a portasi dietro la propria storia, per sempre, anche se riuscirà “altrove” a ricostruire per sé un’apparente dimensione di vita.
La diffidenza, l’ignoranza e le generalizzazioni (di ogni segno, comprese quelle sull’accoglienza “esibita”) ci impediscono di capire le storie di chi fugge e di comprendere come il suo passato, troppo spesso, sia destinato a tornare nel presente perchè chi se ne è allontanato, l’ha potuto fare solo in termini di coordinate geografiche.
Si tratti di un parente ammalato, di un amico in pericolo, di un’estorsione, di un ricatto o della richiesta di un favore a cui non puoi opporti, il passato ritorna sempre o quasi, è statistico ; sempre o quasi attraverso quei cari che ti sei lasciato alle spalle e che ti hanno aiutato a fuggire.
Presentato oggi alla stampa alla Casa del Cinema (dal 20/9 nelle sale), il film di Costanza Quatriglio “Sembra mio figlio” ha il merito di aprire un varco nella barriera “invisibile” che separa noi dalle storie di rifugiati e migranti. Ha il merito di mostrarci uno spaccato che è specifico, dettagliato, individuale: una storia vera, di certo verosimile ma non per questo “universalizzabile”, categoria che , in un modo o nell’altro, finisce sempre per sminuire il dramma del singolo.
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Il sapore della vittoria
War Machine è un film straordinario, “purtroppo” disponibile solo su Netflix perché meriterebbe – anche in Italia – un pubblico più vasto. Racconta – pur non citandolo direttamente – della storia del generale McChrystal incaricato da Obama (con il quale mai ebbe buoni rapporti o rapporti del tutto) di rivedere lo sforzo bellico americano in Afghanistan e raggiungere la vittoria. Storia raccontata dal punto di vista di Michael Hastings, il giornalista di Rolling Stones che – tra determinazione e fortuna, sotto forma di un vulcano dal nome impronunciabile – riuscì ad avere un “accesso” senza precedenti al generale e al suo staff, per un racconto che lo porterà poi alle dimissioni. Hastings morirà poi in circostanze ancora oggi considerate misteriose ma lascerà un volume, The Operators in cui la storia scritta per RS si espande e guadagna dettagli.
Il film scarnifica senza pietà i motivi della sconfitta afghana, caricaturizza McChrystal se non fosse che fa emergere l’ingenuità di un personaggio chiamato a confrontarsi con una corte di politici, diplomatici e cooperanti piuttosto che con una missione solamente militare e “combat”. Se l’ambientazione di Marjà (l’ulcera sanguinante, come venne definita all’epoca la località nell’Helmand) è terribile, la scena dell’incontro con i civili e della reazione all’imboscata con l’uccisione di un bimbo, contribuiscono a completare quello che è un ciclo di affreschi o di “stencil murali” sulla guerra più lunga. Buona visione.
TAFF – Acceptance Speech
TAFF 2016 Acceptance speech from Nico Piro on Vimeo.
Unfortunately, I could not be in Dallas for the TAFF Gala Night so I had to record my acceptance speech for “best emerging filmaker” award. I want to thank the great staff behind this vibrant and unique festival, one of a kind, in particular to the “deus ex machina” Kelechi Eke.
Purtroppo non ho potuto partecipare alla serata di gala del TAFF, The African Film Festival 2016, a Dallas, Texas, per questo motivo ho dovuto registrare il mio discorso di ringraziamento per l’award come miglior filmaker emergente. GRAZIE alla straordinaria organizzazione di questo vivo e dinamico festival, in particolare alla sua anima e deus ex machina Kelechi Eke.
Ecco la griglia dei finalisti e dei premiati – Here it is the short lists with the awarded ones:
KILLA DIZEZ – Vita e morte al tempo di Ebola
KILLA DIZEZ – TRAILER ITALIANO from Nico Piro on Vimeo.
ENGLISH VERSION – “Killa Dizez – Vita e morte al tempo di Ebola” è un documentario prodotto, filmato e diretto dal giornalista Nico Piro, racconta dell’epidemia di questo virus mortale in Sierra Leone attraverso le storie degli operatori che combattono la malattia, dei pazienti, dei sopravvissuti al contagio e del popolo della Sierra Leone costretto ad affrontare la peggiore epidemia di un male incurabile dei tempi moderni.
Per proiezioni e informazioni eboladocu@gmail.com – Disponibile sia in italiano che in inglese
Sinossi:
Mentre la vita sembra scorrere normalmente a Freetown, la Sierra Leone sta affrontando la peggior epidemia di un virus letale dell’era moderna. Il pericolo del contagio è dappertutto, la “Killa Dizez” (la malattia assassina, altro nome gergale di Ebola in lingua krio) ha già ucciso migliaia di persone e anche quando sembra aver rallentato la sua marcia, riemerge feroce e colpisce di nuovo. Continua a leggere “KILLA DIZEZ – Vita e morte al tempo di Ebola”
KILLA DIZEZ – Life and death in the time of Ebola
KILLA DIZEZ – TRAILER ENGLISH from Nico Piro on Vimeo.
ITALIAN VERSION – While life seems to go on almost normally on the streets of Freetown, Sierra Leone is facing a “Killa Dizez” – another name for Ebola.
This is not a character-driven documentary, rather it is a vision of the ordinary and cruel face of the epidemic. In the hospitals, we encounter different stories and destinies: patients who die, patients who survive, international Ebola workers frustrated by the strength of the virus, local workers who face stigma from their own communities.
To the extent of our knowledge, this documentary shows the only footage ever taken inside the so called “red zone”, the confinement area and ICU ward where highly contagious patients are treated. The author had exclusive access to these wards after undergoing special training for biohazard suits and the decontamination process.
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Insieme a Restrepo

Chissà qual è l’ultima immagine che ha scattato la sua macchina. Non riesco a pensare ad altro e non è una curiosità cinica la mia; a volte mi consola pensare che fotografi e cameraman hanno un privilegio, forse l’unico nel loro lavoro che li porta – necessariamente – ad esporsi così tanto: la macchina fotografica o da presa è come la loro retina, nella più tragica delle evenienze forse l’ultima immagine che hanno visto nella loro vita sopravvive in un pezzo di plastica grande come un polpastrello, una scheda di memoria risparmiata da un’esplosione.
E’ giusto rischiare di morire e morire per raccontare qualcosa? Fuor di retorica, forse è il momento più alto della vita di un reporter che pur ha in mente sempre e comunque la stessa cosa, ovvero tornare a casa vivo ma solo dopo aver fatto fino in fondo il proprio dovere di verità. Se le immagini ti sopravvivono, forse è una consolazione in più, un motivo in più per pensare che non è stato un sacrificio vano, un po’ come quando qualcuno muore per salvare altri. O forse sono solo chiacchiere che mi vengono in mente perchè servono a curare lo sgomento.
Stasera mi tremano le gambe, che non è una gran novità per me, ma mi tremano sul serio: fuor di metafora. Ho appena saputo che Tim Hetherington è stato ucciso a Misurata. Nato a Liverpool, era un fotografo semisconosciuto (nonostante il suo grande lavoro in Liberia) quando è riuscito ad arrivare nel 2008 a vincere il word press award per aver scelto di occuparsi di quel campo di battaglio dimenticato (all’epoca e drammaticamente di nuovo ora) chiamato Afghanistan. Ne ho scritto varie volte in questo blog per le sue frequentazioni di un luogo a me molto caro, la valle di Korengal dove ha girato il documentario Restrepo, dal nome del caduto Juan Restrepo di cui portava il nome uno degli OP (piccoli avamposti di osservazione) più pericolosi della più pericolosa valle dell’Afghanistan. In poche parole il film di guerra più realistico mai girato, semplicemente perchè non era un film ma un documentario.
Le notizie al momento sono confuse, inizialmente dato per morto con Hetherington (entrambi colpiti da un rpg), starebbe lottando tra la vita e la morte anche Chris Hondros, famoso per queste fotografie che raccontarono dell’assurdità della guerra in Iraq, la banalità dell’orrore: un auto ad un posto di blocco americano, la sparatoria, una famiglia innocente a terra. Foto mosse che all’epoca mi ricordarono vividamente quelle del grande Capa allo sbarco in Normandia, forse anche per questo Hondros (qui il suo sito) ha vinto il premio che porta il nome del più grande fotoreporter della storia. Con loro, più lievemente, sarebbero stati feriti altri due o tre fotografi, non è ancora chiaro.
Ho incontrato una sola volta Tim Hetherington, non in Afghanistan nonostante ci fossimo incrociati e mancati diverse volte. Strano a dirsi ma l’ho incontrato brevemente a New York, ad una festa; lui si era trasferito lì a Williasburgh, Brooklyn per montare con Sebastian Junger, proprio “Restrepo”. Una breve conversazione, niente di più e niente di memorabile come una festa confusionaria e allegra impone ma ricordo una ragazza che era con lui; una volta sola, da parte mi chiese come mai pur avendo visto “a lot of shit on the battle field” i reporter, tornati a casa, non ne parlano mai. Non le seppi dare una risposta, non lo saprei fare nemmeno ora mi sembrerebbe troppo scontato.
Venerdi’, Restrepo!

Per chi riesce a vedere il canale italiano di National Geographic (pacchetto Sky “mondo e culture” o almeno penso si chiami cosi’) quello di stasera e’ un appuntamento da non perdere, in un Paese che ha 4000 soldati in Afghanistan magari qualche bar dovrebbe cancellare dalla lavagna all’esterno “stasera partita di calcio di…” e scrivere “stasera alle 21,10 Restrepo”.
Restrepo e’ il film documentario di Sebastian Junger (“la tempesta perfetta” ma prima ancora lunghi trascorsi afghani con Massoud) e di Tim Hetherington (world press award 2008 per la foto “la stanchezza di un soldato, la stanchezza di una nazione”) girato nel corso del 2007 e di una parte del 2008 con gli uomini della Battle company della 173esima divisione aviotrasportata dell’esercito americano, in un fire outpost ovvero un piccolo fortino assediato (che verra’ poi intitolato ad un caduto, il soldato Restrepo appunto) nella valle della morte, la valle di Korengal. Valle oggi abbandonata dai militari (vedi qui) perche’ era impossibile da controllare e per l’alto numero di caduti e feriti ma anche perche’ le truppe occidental piuttosto che combattere in mezzo al nulla, si stanno concentrando sulle aree piu’ densamente popolate.
Su Restrepo ho scritto un post quasi un anno fa quando ha vinto il premio al Sundance, rinvio a quel post che parlava di come si puo’ raccontare una guerra e raccontarla in maniera anche embed nonostante una certa retorica che, alla fine, fa il gioco di chi vorrebbe le guerre non raccontate affatto.
La valle di Korengal verra’ ricordata nella storia di questa guerra perche’ e’ il luogo in cui si sono materialzzate tutte le contraddizioni e le difficolta militari del combattere in Afghanistan, un monumento all’assurdita del conflitto. In questi giorni sto leggendo “the hidden war” sulla guerra russa in Afghanistan ed i parallelismi con Restrepo sono tanti, la differenza sostanziale e’ che il primo e’ uscito a guerra finita e muro di Berlino caduto. Anche per questo vale la pena di vedere questo documentario sul quale il britannico Indipendent si e’ posto un quesito interessante (vedi qui). Non ho ancora visto (per intero…) Restrepo ma conosco quella valle, conosco quei soldati e le loro storie e so che chi ha avuto la forza e la fortuna di documentare per quasi un anno la loro esperienza nella valle della morte, non puo’ – fosse solo per il materiale girato – che aver eretto un lucido monumento a quanto complesso ed assurdo sia combattere in Afghanistan.