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Auguri Alessandro

Alessandro Abbamonte @np 2009
Alessandro Abbamonte @np 2009

 

Quando oggi (ieri, vista l’ora in cui pubblico) pomeriggio ho visto la notizia del pacco-bomba alla caserma della Folgore lampeggiare sul mio telefonino, la prima cosa che ho pensato è stata: “Che vigliacchi! Che idioti!” sperando che nessuno si fosse fatto male sul serio. Quando poi ho letto il nome del parà colpito, dopo un interminabile attimo di incredulità, a quel punto all’indignazione è subentrato lo scoramento, come quando a soffrire è qualcuno che conosci di persona.
Ho incontrato Alessandro Albamonte la prima volta in qualche punto del deserto dell’Afghanistan occidentale, l’ho rivisto più volte alla base di Herat e forse anche in una fob. I ricordi ora si accavallano senza precisione; parliamo del 2009, il primo impegno afghano della Folgore come brigata e non solo come singole unità.

Pensarlo ora in un letto d’ospedale a lottare in primo luogo per salvare i suoi occhi, con buona parte delle dita delle mani amputate, ustionato al volto, mi sembra così strano sapendo quali rischi lui e i suoi uomini hanno affrontato in Afghanistan e quelli che avrebbe affrontato a partire dai prossimi giorni, quando la Folgore verrà rischierata nel comando Rc-West. Mi sembra questa una beffa, la beffa più amara, che si aggiunge ad danno grave, gravissimo.

Con le persone che incontri in posti remoti e pericolosi, con le persone con cui ha condiviso esperienze in Afghanistan, si crea sempre un rapporto speciale, siano essi militari, operatori umanitari, altri giornalisti. Magari non li vedi per mesi, per anni ma poi li rincontri ed è come fosse stata ieri l’ultima volta, li consideri amici.
Alessandro è tutto quello a cui non pensi quando ti dicono che è un graduato dei parà, lontano dallo stereotipo della montagna di muscoli dalle pose virili; stereotipo che, tra l’altro, ho verificato essere quasi sempre solo tale, roba del passato. Alessandro era stato nominato capo di stato maggiore della brigata alla fine del 2009, giovanissimo, un ragazzo dall’umanità straordinaria, pratico, lontano dai riti e dai formalismi del grado, preparato come conferma la nomina ad un ruolo così importante nonostante, appunto, la giovane età, soli 41 anni.

Non è chiaro se la busta fosse indirizzata a lui o fosse finita genericamente nelle sue mani perchè indirizzata al suo ufficio ma questi ormai mi sembrano solo dettagli. A lui vanno i miei migliori auguri di pronta guarigione, soprattutto di guarigione viste le ferite gravi che ha riportato. Mi scuso con i lettori se ho scritto un post tanto personale, per una volta lascio da parte valutazioni politiche, tecniche, militari su quello che succede o ruota intorno all’Afghanistan come faccio di solito. Ma è quello che oggi sentivo di fare, un post personale appunto, che vorrei sia letto come tale qualunque opinione abbiate sulla guerra in Afghanistan, sui militari che la combattono e sui militari in generale. Un tema, quest’ultimo, che purtroppo continua a far discutere il nostro Paese come ad un’assemblea del liceo di trent’anni fa.

Mi resta solo una domanda: per quanto si possa essere contro la guerra in Afghanistan (pare che nella busta ci fosse un rivendicazione contro tutte le guerre) che senso ha mandare un pacco bomba, che oltre ad un gesto vigliacco è anche un atto indiscriminato che non cambia nulla? Che non porta la pace anzi porta altro dolore e sofferenza su questa terra? Francamente non lo so. E penso che nessuno riuscirà mai a spiegarlo.

Joao Silva: ricominciare a vivere, senza gambe

Queste è un aggiornamento sulla vicenda di Joao Silva, l‘ultima volta che ne avevamo scritto si era appena diffusa la notizia che il fotografo portoghese (diventato famoso in Afghanistan) era saltato in aria su un’IED nel sud dell’Afghanistan mentre era embed con la 101esima aviotrasportata. Silva è vivo, è miracolosamente vivo (grazie anche alle ormai consolidate, nuove strategie di supporto medico sul campo di battaglia) ma ha pagato un tributo altissimo a questo mestiere. Silva ha perso entrambe le gambe sotto il ginocchio. Ora è ricoverato al Walter Reed, ospedale militare di Washington, ormai specializzato in questo genere di ferite di guerra. Sulla sua vicenda segnalo questo approfondimento della NPR ma soprattutto la campagna lanciata qui per sostenere il fotografo e le spese mediche che dovrà affrontare, comprando una stampa di una delle sue foto. Io sto scegliendo quella da ordinare.

Un click per Joao

A rileggerla oggi, purtroppo, la storia professionale del fotografo portoghese Joao Silva suona come una sorta di segno premonitore; noto per essere uno dei quattro fotoreporter del “bang-bang club” che si dedicarono a coprire la violenza di strada nel Sud Africa del post-aparteheid negli anni ’90.

Joao Silva è stato gravemente ferito nella provincia di Kandahar, saltato su una mina mentre era al seguito della quarta divisione di fanteria dell’esercito americano. Lo ha reso noto il New York Times, per conto del quale era in Afghanistan. La dinamica dell’incidente non è chiara e forse non lo sarà fin quando – speriamo presto – Joao sarà in grado di raccontarla. Soprattutto per chi lavora con le immagini ed ha bisogno di spostarsi alla ricerca di cambi di campo e inquadrature alternative, lavorare al seguito delle truppe in Afghanistan è sempre più rischioso soprattutto quando si avanza anticipando la colonna o il convoglio a cui si è aggregati. Soprattutto al sud, favoriti dal terreno piatto (a volte desertico a volte coperto da una fitta vegetazione e dai canali dell’irrigazione, trincee “naturali”) i ribelli ricorrono in maniera sempre più massiccia agli IED, gli ordigni nascosti e sempre meno individuabili. Ormai il loro potere esplosivo è cresciuto talmente tanto da non rendere indispensabile l’ “imbottitura” con schegge metalliche e chiodi che ne aumentano la forza distruttrice (come sparare migliaia di proiettili in ogni direzione, allo stesso momento) ma le rendono anche visibili ai metal-detector. L’incidente è avvenuto nel distretto di Arghandab, l’area che gli americani da mesi stanno provando a riportare sotto controllo con piccole operazioni diffuse, dopo il fallimento della spettacolare quanto vana offensiva della relativamente poco distante Marja nel febbraio scorso

Silva è l’ennesimo giornalista che viene seriamente ferito (o muore, per fortuna non è questo il caso) durante un embed sul mobile e sfuggente fronte afghano. Non è chiaro quanto gravi siano le ferite riportate da Silva, ferite che sarebbero concentrate alla gambe. Il sito di Silva racconta del suo straordinario lavoro, visitarlo è forse l’unico modo che abbiamo per stargli vicino in un momento del genere.