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La nuova paura afghana

E’ un mosaico indecifrabile l’Afghanistan e la tessera che si è aggiunta oggi rende il quadro ancora più complesso da capire. E’ una tessera che fa paura, si chiama scontro settario ovvero violenza inter-religiosa.
Dello scontro tra etnie (tagiki contro pashtun, principalmente) l’Afghanistan sa purtroppo molto ma – al contrario dell’Iraq e in parte del Pakistan – non ha conosciuto nella sua storia recente scontri tra sunniti e sciiti.
La confessione minoritaria mussulmana è diffusa prevelantemente tra le fila dell’etnia hazarà in Afghanistan, un’etnia che quando ha subito rappresaglie (e ne ha sofferte di orrende) le ha subite perchè etnia, non in quanto comunità religiosa.

Stamattina a Kabul si è aperto un altro scenario. I pellegrini sciiti stavano entrando nella moschea vicino al fiume quando un kamikaze mescolato alla folla si è fatto esplodere. Il bilancio parla di più di cento feriti e di oltre di cinquanta vittime. Una strage tra le peggiori per Kabul in questi ultimi dieci anni.
Quasi in contemporanea stamane una bici bomba esplodeva nei pressi di una moschea a Mazar-i-Sharif, nel nord, facendo almeno quattro le vittime. Un altro attentato a Kandahar, nelle stesse ore, pare non fosse legato alle celebrazioni sciite.

Oggi abbiamo assistito non solo alla smentita ma addirittura alla (incredibile!) condanna dei talebani che attraverso il loro portavoce hanno preso le distanze dagli attentatori.
Inedita la rivendicazione arrivata da un gruppo anti-sciita pakistano.
Se alle violenze anti-governative, quelle legate al narco-traffico, dovessero aggiungersi quelle settarie davvero sarebbe difficile persino pronunciare la parola Afghanistan si farebbe prima a chiamarlo “inferno”.

Un messaggio, questo di oggi, che arriva dritto alla Conferenza di Bonn dove non si è parlato di pace (per via del boicottaggio pakistano in polemica con gli Usa) ma dove i paesi donatori hanno garantito che sosterranno il governo di Kabul anche dopo il 2014 ovvero dopo il ritiro delle truppe, con aiuti finanziari.
Obiettivo: evitare l’effetto Najibullah. Ritiratisi i sovietici, crollato l’Urss, chiuso il rubinetto dei fondi da Mosca, l’apparato statale afghano si trasformò in macerie spalancando la porta alla guerra civile.

La ‘badar’ contro gli italiani

Negli ultimi trent’anni di conflitti in Afghanistan, la primavera ha sempre sancito l’inizio della stagione dei combattimenti, con i rinforzi per i ribelli (mujaheddin ieri, talebani oggi) in arrivo dalle basi del vicino Pakistan attraverso le montagne finalmente sgombre dalla neve. Ma quest’anno i talebani l’offensiva di primavera l’hanno annunciata formalmente, con inizio il primo maggio, denominandola Badar, come una storica battaglia contro gli infedeli.
L’ultimo mese in Afghanistan è stato segnato da attacchi clamorosi come i due giorni di combattimenti a Kandahar, l’attacco all’ospedale militare di Kabul e l’ultimo attentato suicida nel nord del Paese che ha gravemente ferito il capo delle truppe tedesche e ucciso il locale capo della polizia. Un tour dell’orrore, partito dal sud e che – con l’attacco di oggi ad occidente – ha praticamente colpito tutti i quadranti del Paese.

E’ in questo contesto che si inserisce l’attentato di oggi contro la città di Herat, una città relativamente tranquilla rispetto al resto del Paese tanto che è previsto a brevissimo il passaggio di consegne tra militari italiani e forze di sicurezza locali. La prima tappa nel percorso previsto dalla coalizione Isaf che dovrebbe portare entro il 2014 gli afghani ad essere responsabili della sicurezza nel loro Paese, con il ritiro degli occidentali. Per questo l’attacco di oggi ha un particolare valore simbolico

I talebani hanno colpito la base del Prt, il provincial recostruction team ovvero l’unità della missione italiana che si occupa della ricostruzione, degli aiuti ai civili, e che in questo semestre è gestito dal 132esimo reggimento della Brigata Ariete. Una base nel cuore della città, stretta tra gli edifici, intitolata al Capitano Vianini, che morì in un incidente aereo nella missione di ricognizione che portò poi alla creazione del Prt italiano. Una base particolarmente vulnerabile, adatta alla tecnica dell’esplosione kamikaze e poi dell’irruzione del commando armato, grazie proprio alle case vicine ed elevate dove – pare – siano rintanati alcuni ribelli, stando alle prime frammentarie ricostruzioni. Un obiettivo scelto anche per questo rispetto al super protetto Camp Arena la base principale italiana e multinazionale nei pressi dell’aeroporto di Herat.

Insieme a Restrepo

Tim Hetherington
Tim Hetherington

Chissà qual è l’ultima immagine che ha scattato la sua macchina. Non riesco a pensare ad altro e non è una curiosità cinica la mia; a volte mi consola pensare che fotografi e cameraman hanno un privilegio, forse l’unico nel loro lavoro che li porta – necessariamente – ad esporsi così tanto: la macchina fotografica o da presa è come la loro retina, nella più tragica delle evenienze forse l’ultima immagine che hanno visto nella loro vita sopravvive in un pezzo di plastica grande come un polpastrello, una scheda di memoria risparmiata da un’esplosione.
E’ giusto rischiare di morire e morire per raccontare qualcosa? Fuor di retorica, forse è il momento più alto della vita di un reporter che pur ha in mente sempre e comunque la stessa cosa, ovvero tornare a casa vivo ma solo dopo aver fatto fino in fondo il proprio dovere di verità. Se le immagini ti sopravvivono, forse è una consolazione in più, un motivo in più per pensare che non è stato un sacrificio vano, un po’ come quando qualcuno muore per salvare altri. O forse sono solo chiacchiere che mi vengono in mente perchè servono a curare lo sgomento.

Stasera mi tremano le gambe
, che non è una gran novità per me, ma mi tremano sul serio: fuor di metafora. Ho appena saputo che Tim Hetherington è stato ucciso a Misurata. Nato a Liverpool, era un fotografo semisconosciuto (nonostante il suo grande lavoro in Liberia) quando è riuscito ad arrivare nel 2008 a vincere il word press award per aver scelto di occuparsi di quel campo di battaglio dimenticato (all’epoca e drammaticamente di nuovo ora) chiamato Afghanistan. Ne ho scritto varie volte in questo blog per le sue frequentazioni di un luogo a me molto caro, la valle di Korengal dove ha girato il documentario Restrepo, dal nome del caduto Juan Restrepo di cui portava il nome uno degli OP (piccoli avamposti di osservazione) più pericolosi della più pericolosa valle dell’Afghanistan. In poche parole il film di guerra più realistico mai girato, semplicemente perchè non era un film ma un documentario.

Le notizie al momento sono confuse, inizialmente dato per morto con Hetherington (entrambi colpiti da un rpg), starebbe lottando tra la vita e la morte anche Chris Hondros, famoso per queste fotografie che raccontarono dell’assurdità della guerra in Iraq, la banalità dell’orrore: un auto ad un posto di blocco americano, la sparatoria, una famiglia innocente a terra. Foto mosse che all’epoca mi ricordarono vividamente quelle del grande Capa allo sbarco in Normandia, forse anche per questo Hondros (qui il suo sito) ha vinto il premio che porta il nome del più grande fotoreporter della storia. Con loro, più lievemente, sarebbero stati feriti altri due o tre fotografi, non è ancora chiaro.

Ho incontrato una sola volta Tim Hetherington, non in Afghanistan nonostante ci fossimo incrociati e mancati diverse volte. Strano a dirsi ma l’ho incontrato brevemente a New York, ad una festa; lui si era trasferito lì a Williasburgh, Brooklyn per montare con Sebastian Junger, proprio “Restrepo”. Una breve conversazione, niente di più e niente di memorabile come una festa confusionaria e allegra impone ma ricordo una ragazza che era con lui; una volta sola, da parte mi chiese come mai pur avendo visto “a lot of shit on the battle field” i reporter, tornati a casa, non ne parlano mai. Non le seppi dare una risposta, non lo saprei fare nemmeno ora mi sembrerebbe troppo scontato.

Questa ci mancava

In Afghanistan si continua a morire e l’impressione è sempre la stessa ovvero che le cose si raccontino in maniera quantomeno approssimativa, ma all’Italia (e ad una buona parte dei suoi media) sembra che la cosa interessi poco, c’è il bunga-bunga di cui parlare…roba seria, alto che un conflitto più lungo della seconda guerra mondiale.

La morte dell’alpino Luca Sanna 32 anni  e il ferimento del suo commilitone Luca Barisonzi, che rischia di portare per tutta la vita i segni dell’attacco, è avvenuta in una circostanza sin’ora mai toccata al contingente italiano, ovvero quello di un infiltrato tra le fila dell’esercito afghano che ha sparato ed è fuggito via, in uno dei “caposaldi” intorno alla base di Bala Morghab, florida terra di nessuno al confine con il Turkmenistan. Ormai è una piaga diffusa quella degli infiltrati all’interno di un esercito che sembra stare in piedi per fare “numeri”  (di ieri la notizia di un piano per portare quasi a 400mila unità le forze di sicurezza – vedi qui ) ovvero consentire agli occidentali di ritirare il grosso delle truppe.

Poco distante da Bala Morghab, a Qal-e-Now, capitale provinciale, pochi mesi fa, proprio un infiltrato del genere aveva ucciso due istruttori spagnoli. Solo una manciata di giorni addietro, più a sud, a Sangin, l’inferno in terra per gli inglesi prima e i Marines ora, un militare americano aveva ammazzato un soldato afghano prima di essere ucciso dal commilitone.
Dei 36 militari italiani uccisi in Afghanistan, pochissimi sono morti per colpi di arma da fuoco (se non ricordo male, il primo è stato il maresciallo Pezzulo, nel 2008 a Sorobi) quasi tutti invece per colpa di ordigni Ied, ma il loro numero negli ultimi mesi è drammaticamente aumentato (Romani, Miotto, ieri Sanna). Oggi possiamo contare la prima vittima della collaborazione con un esercito afghano non sempre affidabile, dove i confini tra indisciplina, stress da shock traumatico e infiltrazione vera e propria sono labili. Questa, purtroppo, ci mancava; ce la saremmo risparmiata molto volentieri: è la misura di una missione sempre più impegnativa e quindi più rischiosa; rischio (nonostante le affermazioni di La Russa che intende coinvolgere sul punto anche il generale Petraeus) sostanzialmente “incomprimibile” perchè più ti avvicini alla sponda del fiume, più ti bagni.

Anche questa volta, il racconto all’opinione pubblica è stato quantomeno approssimativo. Quando ieri ho letto il lancio d’agenzia, poche righe, sulla sparatoria nella base…beh gli scenari che mi sono venuti in mente sono stati appunto due, il primo quello di un attacco “complesso” alla fortificazione (ma si sarebbe dovuto trattare di un attacco su vasta scala, difficilmente condotto con armi leggere), il secondo – appunto – quello di un infiltrato. Del resto Bala Morghab è un’area da manuale per la collaborazione tra truppe di nazionalità diversa (americane, italiane, spagnole e appunto afghane). L’ho detto subito ad un collega con il quale stavo parlando al telefono e che mi ha riferito la notizia in tempo reale.

Il ministro alla Difesa (vedi qui) con la sua stoffa da comunicatore ha subito lanciato lo slogan-notizia del terrorista con la divisa dell’esercito afghano, insomma un attacco di qualcuno travisato da militare non di un militare vero e proprio (eventualità che però in Afghanistan è riferita soprattutto alle forze di polizia). Il ministro definiva “meno probabile” che fosse un infiltrato nell’esercito afgano, arruolatosi proprio per compiere azioni di questo tipo. Oggi ovviamente alla Camera è stata raccontata un’altra storia“era un infiltrato nell’esercito afgano, cioè uno dei militari” che prestavano servizio insieme ai soldati italiani nell’avamposto di Bala Murghab. L’uomo era nell’esercito afgano “da tre mesi”. Non mi riesco a spiegare questi “errori” di comunicazione se non come la fretta di dare le notizie o con la voglia di lanciare messaggi rassicuranti agli italiani, perchè è sempre meglio parlare di un terrorista in divisa piutosto che raccontare che combattiamo fianco a fianco con qualcuno, in certi casi, pronto ad ammazzarci da un momento all’altro.
Non mi sembra ci abbia fatto caso nessuno, del resto sono i giorni del bunga-bunga che vuoi che ce ne freghi di quello che fanno 4000 italiani nel Paese soprannominato la tomba degli imperi per quanti Paesi stranieri ha messo in ginocchio?

Diritto/Delitto di cronaca

Una ragazza col velo in testa che cammina veloce, parlando da sola. Piange mentre guarda a terra forse a voler evitare i detriti. Una donna di mezz’età, anche lei col velo in testa, che grida, una borsa pesante in una mano, l’altro braccio stretto da un uomo che l’aiuta a entrare in una casa dalle finestre divelte. Un pick up che porta le insegne della polizia municipale di kabul. È rosso e bianco. Così il sangue della decina di persone che siedono sul suo pianale sembra quasi fare meno orrore. Sono tutti imbrattati di sangue, rosso vivo sugli abiti, rosso scuro – rappreso – sui volti. Una fila di corpi coperti, composta, allineata al centro della carreggiata vicino allo spartitraffico. Altre scene di soldati e di polizia locale che coprono corpi, semi-nascosto si intravede il cadavere di un civile, la sua shawol kamiz coperta di sangue, il ventre al cielo. Ci sono anche inquadrature strette, impietose, dei due caduti italiani più direttamente investiti dall’esplosione.

Sto descrivendo le immagini che l’altro ieri un freelance afghano mi ha fatto recapitare. Negli ultimi giorni, ho messo a soqquadro Kabul alla ricerca di un documento filmato o fotografico che potesse aiutarmi a capire meglio la dinamica dell’attacco agli italiani. Non ho trovato nulla di utile, comprese le immagini che vi sto descrivendo che però sembravano girate prima (rispetto al momento dell’esplosione) e meglio di molte altre viste sui circuiti internazionali.

L’attenzione alle vittime civili, il racconto delle dimensioni della strage, la cruda cronaca della morte ne facevano un vero documento giornalistico. Nonostante ciò non le ho comprate, per vari motivi. Perché non aggiungevano nulla alla comprensione della dinamica dell’attacco, perché perso il loro valore di cronaca e per altre valutazioni pratiche.

Eppure quella visione mi ha scatenato mille riflessioni su fin dove si possa spingere la cronaca. Le ho viste con Craig, il mio cameraman delle dirette all’Ebu di Kabul, un ex-fotografo scozzese convertitosi alla telecamera che però conserva il gusto fotografico per l’immagine. Pur avendo già rimandato indietro il nastro, per il piacere di capire, ne abbiamo parlato a lungo attendendo una diretta notturna, l’ultima dopo 29 ore di diretta satellitare in 5 giorni (fonte l’altro craig, l’ingegnere dell’uplink via satellite all’ebu di Kabul).

Secondo Craig, mostrare quelle immagini nel giorno dei funerali sarebbe servito solo a riaprire una ferita proprio nel momento in cui il paese stava “maturando” il lutto, per giunta senza aggiungere nulla alla cronaca dei fatti. Un argomento di opportunità, convincente, “secco”, il suo.

Ma ne abbiamo continuato a parlare, perchè se l’informazione ha un dovere, quello di pubblicare tutto, che limiti – ci siamo chiesti – può avere questo dovere? Ho pensato alla recente polemica sulle foto dell’attentato pubblicate in Italia da il riformista e da il giornale. Ma il vero dibattito su un tema del genere è, secondo me, quello scatenatosi di recente negli stati uniti per la foto del Marines morente, fatto a pezzi da un rpg nell’hellmand. Famiglia contraria, governo contrario ma l’AP l’ha pubblica lo stesso. Un dibattito che mi sembra ben sintetizzato qui http://lens.blogs.nytimes.com/2009/09/04/behind-13/?scp=4&sq=Nickelsberg&st=cse, nel foto-blog del NY Times.

Tra l’altro di quella foto, proprio nei giorni in cui tuonava Robert Gates, ne ho parlato con Bob Nickelebergr, un grande fotografo di guerra, embed a Kunar con me, lui per conto del NY Times. Bob, a cui la foto del Marines morente non “piaceva”, è stato protagonista di un episodio analogo, per una foto a corredo di uno degli articoli più straordinari mai scritti sulla guerra in Iraq. http://www.nytimes.com/2007/01/29/world/middleeast/29haifa.html?_r=1

Nel mio piccolo, mi è capitato varie volte di confrontarmi con il tema. Ne ricordo due in particolare, entrambe in Afghanistan. Il primo nel 2007 quando dopo un attacco kamikaze con Mario Rossi riprendemmo i resti dell’attentatore suicida, il secondo pochi giorni fa quando con Gianfranco Botta abbiamo ripreso bimbi feriti da un attacco a colpi di mortaio su una base americana.

Non voglio scendere nel filosofico ma c’è un nodo del dibattito che nè io nè Craig siamo riusciti a sciogliere nell’aria pungente della notte di Kabul, appollaiati su una terrazza tra parabole giganti e ogni genere di intereferenza elettromagnetica.
E purtroppo non siamo i soli incapaci di trovare una risposta.

Il nodo è questo: se la guerra è fatta di corpi spappolati, arti scagliati a decine di metri di distanza, vite distrutte, case violate, panico, feriti imbrattati da brandelli di corpi che non gli appartengono, di un soldato che poco prima era un uomo forte e coraggioso e pochi minuti dopo è solo un corpo dove i suoi compagni frugano alla ricerca di un’arteria da suturare. Bene se la guerra è tutto questo – e lo è senza dubbio – perché quando è possibile mostrala nella sua vera essenza un giornalista dovrebbe fermarsi?

Spinti da valori nobili, come il rispetto delle famiglie, la pietà, il non indugiare banalizzando il dolore, non finiamo magari col raccontare una guerra idealizzata? Fatta solo di potenti mezzi che avanzano nel deserto assieme uomini e donne coraggiosi, equipaggiati da guerrieri? Del resto che il dibattito sia complesso

Probabilmente la risposta (provvisoria e precaria) sta nella prassi, sta nel cercare di volta in volta un punto di mediazione tra le due esigenze ma è