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Fuoco indiretto

E’ un rumore sordo, quasi ovattato, che echeggia da lontano, è un colpo “incoming”. Significa che a sparare non sono i “nostri” mortai, quelle dell’Isaf, ma i “loro” quelli della guerriglia. Nel linguaggio militare che riesce, brillantemente, a sterilizzare qualsiasi parola che possa evocare paura, viene definito “tiro indiretto”, c’è chi parla anche di “fuoco indiretto”. I mortai, come i razzi, arrivano a parabola, salgono in cielo e poi ricadono, anche a chilometri di distanza, quasi mai prendendo il bersaglio, arrivandoci vagamente vicino salvo il caso in cui al tiro ci sia un esperto “calcolatore”.

In Afghanistan attacchi del genere nemmeno si contano, sono all’ordine del giorno. Se parla solo quando costano la vita chi li subisce, come accaduto purtroppo sabato al sergente Michele Silvestri, mentre altri cinque soldati italiani hanno riportato ferite. Almeno due di loro verranno segnati da quell’attacco per il resto della loro vita (per inciso, stanno per essere trasferiti al centro medico americano di Ramstein in Germania).

Gli afghani
riescono a muoversi agevolmente sulle loro aspre montagne, riescono a portarsi dietro un mortaio che pesa diverse decine di chili e un massimo di tre colpi, lo sistemano alla buona (altro che messa “in bolla” o calcoli di trigonometria) e sparano in rapida successione sul bersaglio per poi sparire tra le rocce. Il bersaglio sono quasi sempre le evidentemente immobili basi occidentali, soprattutto quelle fob, quei fortini assediati dalle montagne come la base italiana “Ice” in Gulistan, provincia di Farah. L’area nella quale, a tutt’oggi, si contano più caduti italiani. 

I guerriglieri vanno per tentativi, a occhio,
 per questo anche solo per avvicinarsi al bersaglio ci vogliono almeno un paio di “sortite”. Quando i colpi di mortaio arrivano sul bersaglio, in Afghanistan le truppe occidentali, di solito, pensano a combattenti stranieri, come ai “leggendari” ceceni di cui gli americani favoleggiano nella provincia di Logar.
In risposta partono colpi di mortaio che spazzano le alture ma quasi mai riescono a fermare gli attacchi o – per usare il linguaggio ufficiale dell’esercito italiano – a “neutralizzare” gli aggressori (leggi: farli a pezzi).

Mi è capitato diverse volte di trovarmi in una base sottoposta ad attacchi del genere, la prima “mortaiata” ti spaventa, le altre sembrano lontane, poi ti ci abitui e quasi non ci fai più caso nemmeno quando parte la “serie” di colpi di risposta, un boato vicino che invece si squassa dentro.
E’ la routine del conflitto afghano, quella nel mezzo della quale vivono migliaia di soldati occidentali e molti più civili che hanno la sfortuna di ritrovarsi ad abitare nel posto sbagliato. Una routine di cui sarebbe giusto parlare più spessi, descriverla, per far capire quanto complesso sia quel conflitto, quanto pericoloso, quando assurdo nella sua logica di combattimento.
E  anche per non meravigliarsi quando arriva un tragico pomeriggio in cui uno di quei colpi di mortaio cade sul bersaglio, utilizza un cortile per amplificare la sua onda d’urto, spara schegge, sassi e ogni genere di frammento in un ciclone di morte che raggiunge persino le case italiane a migliaia di chilometri di distanza.

Guerra, pace, terrorismo: quando le parole contano

Le parole non sono neutre, non sono un mero accessorio soprattutto quando si parla di argomenti controversi e dibattuti come il conflitto afghano. E’ la riflessione che più di tutte mi viene in mente mentre abbiamo di fronte uno dei peggiori attacchi contro le truppe italiane, quello del Gulistan, costato la vita a quattro alpini della Julia mentre un quinto è stato praticamente miracolato dall’onda d’urto.

Scegliere una parola piuttosto che un’altra per parlare della stessa cosa, può spingere l’opinione pubblica a spostarsi da un alto o dall’altro. Il ministro La Russa, intervenendo subito dopo la strage, ha definito “terroristi” coloro i quali hanno condotto l’attacco contro gli alpini della Julia. E’ una terminologia scelta in passato, in circostanze analoghe, anche da altri leader politici come George W. Bush. E’ chiaro che chi sta a casa si sente più confortato dal sapere che i nostri militari combattono contro terroristi e non contro generici “insurgents”, dà più senso alla loro presenza a migliaia di chilometri da casa ed a spese milionarie per tenerli laggiù.

Nelle “note di linguaggio” Nato, quelle su cui vengono costruiti i comunicai ufficiali, il nemico è stato definito in diversi modi negli ultimi anni: prima ACF (anti coalition forces, ovvero forze ostili alla coalizione) poi AAF (forze ostili all’Afghanistan) ora prevale la definizione “insurgent”, malamente tradotta in italiano come “insorti” che io – personalmente – preferisco rendere come “ribelli” o “guerriglieri”. Terroristi è una definizione utilizzata raramente dai militari anche perchè, tecnicamente, dovrebbe riferirsi solo agli uomini di Al Qaeda che sono una minoranza nella galassia delle forze ribelli, composte da: talebani “veri e propri”, “haqqanisti”, hig-s, uomini dei servizi pakistani, trafficanti e signori della droga, bande locali. Una galassia che conosciamo poco e male. Fazioni che, con interessi e sfumature diverse, hanno tutti lo stesso scopo: mandare via gli stranieri.

Il conflitto in Afghanistan continua ad essere definito “missione di pace” ma evidentemente se la pace resta il suo scopo, quella che si combatte in Afghanistan è una guerra a tutti gli effetti, come definirla altrimenti se laggiù si combatte ormai ogni giorno? Chiamarla “missione di pace” mette a posto la politica con il dettato costituzionale e il sentimento prevalente nell’opinione pubblica che una guerra non la sosterrebbe mai mentre fa sempre più fatica a sostenere la missione afghana. La differenza dirimente potrebbe essere il fatto che le nostre truppe non svolgono azioni offensive, ed è vero solo in parte se solo si considera quello che – per motivi tristissimi – sta trapelando sulle operazione della segretissima task force 45. Operazioni che non possono non essere considerate offensive come nel caso dell’avio-incursione costata la vita al povero tenente Romani il 17 settembre scorso. Ma anche pensando alle operazioni per “costruire” bolle di sicurezza intorno alle fob come accaduto, per esempio, a Bala Morghab, pur condotte assieme alle forze afghane, si fa fatica a considerle operazioni non offensive.
Difficile, inoltre, capire la verità quando – è accaduto oggi – un capo talebano nella provincia di Badghis, nostra zona, viene arrestato da “coalition forces” come dice il comunicato Nato e nessuno sa se quelle forze della coalizione erano anche italiane o no.

Da qualche parte ho letto – forse era un libro di Ahmed Rashid – che ogni paese che mette le mani nel vespaio afghano si ritrova destabilizzato al suo interno. Lasciando da parte i chiari esempi della storia, guardando solo agli ultimi mesi penso alla caduta del governo olandese e alle dimissioni del presidente tedesco. Non so fino a quando tutte queste contraddizioni della missione italiana in Afghanistan potranno essere “compresse” e “gestite” dal mondo politico italiano senza ulteriori effetti collaterali. Sin’ora si è capito che dobbiamo tenere fede ad un “accordo” con gli americani almeno fino al 2011, ma sappiamo anche che le truppe afghane non saranno (sulla carta?) pronte a sbrigarsela da sole prima del 2014. Sarebbe apprezzabile se il mondo politico italiano (maggioranza e opposizione) provasse a capire cosa fare della nostra missione in Afghanistan prima che il film visto in questi giorni si ripeta; prima di ritrovarci a sentir parlare di Freccia, Lince, bombe sui caccia, missione di pace e così via di fronte a nuove vittime. Purtroppo sin da ora sappiamo che i caduti del Gulistan non saranno gli ultimi. Quanto vorrei essere smentito in questa mia amara ma, purtroppo, facile previsione…

Mazzette ai talebani, la seconda puntata

Il Times di Londra non molla, in ossequio alla sua tradizione (quella di uno dei giornali più prestigiosi ed indipendenti del mondo) pur di fronte alle smentite del governo italiano (che vi ha aggiunto una minaccia di querela), della Nato e dei diretti interessanti (i francesi); oggi il quotidiano britannico pubblica una seconda puntata (qui il link) alla sua denuncia di presunti pagamenti alla guerriglia effettuati dai servizi italiani per comprarsi un po’ di pace nelle aree di operazione delle nostre truppe.

Ieri l’articolo provava a smontare uno dei casi di maggior successo dell’Isaf in Afghanistan, quello di Sorobi (vedi la sintesi in un post di questo blog), affermando che in realtà la pace era stata comprata per giunta senza dirlo agli alleati, causando così indirettamente la strage dei parà francesi appena subentrati agli italiani nell’agosto del 2008.

Oggi, invece amplia il fenomeno estendendolo anche al Rc-West, in pratica all’area dove è concentrato il grosso delle nostre truppe con base ad Herat ma attive anche nelle due difficilissime province di Bala Morghab e Farah. Secondo l’articolo di oggi (vedi una sintesi in italiano qui):

A Taleban commander and two senior Afghan officials confirmed yesterday that Italian forces paid protection money to prevent attacks on their troops.

Mr Ishmayel said that under the deal it was agreed that “neither side should attack one another. That is why we were informed at that time, that we should not attack the Nato troops.” The insurgents were not informed when the Italian forces left the area and assumed they had broken the deal. Afghan officials also said they were aware of the practice by Italian forces in other areas of Afghanistan.

A senior Afghan government official told The Times that US special forces killed a Taleban leader in western Herat province a week ago. He was said to be one of the commanders who received money from the Italian Government. A senior Afghan army officer also repeated the allegation, adding that agreements had been made in both Sarobi and Herat.

Non sono in grado esprimermi sulle accuse del Times
(per giunta rivolte ai servizi più che ai militari italiani), di certo appaiono surrogate da fonti diverse e citano persino intercettazioni telefoniche dei servizi americani, ma è altrettanto sicuro che nell’ovest soprattutto negli ultimi sei mesi (ma ricordiamo anche la scorsa “calda” estate con l’Aeromobile nelle stesse zone) gli italiani sono stati in combattimento quasi ogni giorno, che è un elemento sicuramente contraddittorio rispetto al quadro delineato da questi articoli.

Un’osservazione personale. Fermo restando che la tentazione che potrebbe emergere è quella di derubricare tutto alla voce “pessimi rapporti tra Berlusconi e la stampa internazionale” (insomma che piuttosto di affrontare la questione si dica che è solo frutto di screzi e dispetti) e che, comunque, gli effetti sull’immagine internazionale del nostro premier (quello che lui stesso ha definito lo “sputtanamento”) dopo la vicenda escort, non aiuti a dare forza alle pur categoriche smentite governative. Secondo me il punto di tutta questa storia è però un’altro: c’è bisogno di chiarire tutto e farlo subito, non solo per motivi di decoro nazionale (…perdita della faccia…mettiamola così) ma soprattutto perchè i militati sul campo, quelli che rischiano la vita ogni giorno, possono essere seriamente penalizzati da una storia del genere se non chiarita o lasciata (italicamente) perdere per essere poi dimenticata. Chi si trova in prima linea con addosso accuse del genere rischia di non essere più considerato un buon alleato da chi combatte al suo fianco (afghani, americani, francesi, spagnoli che siano) ovvero rischia di ritrovarsi “isolato” e quindi rischia di rischiare molto di più.

Foto-grafie

Scrutatrice in un seggio elettorale a Kabul - agosto 2009 ©np
Scrutatrice in un seggio elettorale a Kabul - agosto 2009 ©np

Ho aggiunto al blog una nuova pagina, quella delle foto…per vedere basta cliccare qui oppure su uno dei tab, le “linguettine” che compaiono sulla home pagina, sotto la foto di testata. All’interno della pagina ci sono una serie di link che portano direttamente al mio spazio su flickr.com il sito “fotografico” dove conservo il mio materiale, c’è anche un link a fine pagina che porta a tutto l’elenco dei “set”, le gallerie tematiche nel caso a qualcuno potesse interessare.

Sparano i Tornado, polemiche militari

Dopo la morte del primo caporal maggiore Alessandro Di Lisio a Farah, il Ministro La Russa durante la sua visita in Afghanistan (alla quale ho partecipato per il Tg3)  aveva annunciato una serie di interventi per rafforzare la sicurezza del contingente, fuori dalla metafora politica io direi per tenere il passo dell’escalation bellica in corso nel Paese.

Il Ministro aveva parlato di più predator (aerei senza pilota da ricognizione, al momento ce ne sono due ad Herat), torrette per il mitragliere più protette sui Lince (tra le ipotesi torrette motorizzate comandabili dall’interno, in maniera tale da evitare che il mitragliere spari dall’interno) e il ricorso ai Tornado anche per fare fuoco. I Tornado sono i jet italiani arrivati in Afghanistan nell’autunno scorso (fanno base a Mazar-i-Sharif) e da allora utilizzati solo per ricognizione non per bombardare. Durante il volo verso l’Afghanistan, il Ministro ci aveva detto di pensare all’utilizzo dei Tornado anche come “copertura aerea” ma non con le bombe bensì con il cannoncino di bordo assimilabile allo stesso degli elicotteri Mangusta (utilizzato e come, da tempo). Oggi in questa intervista al Corriere, La Russa conferma che si è entrati nella fase operativa: “Dopo aver informato le Ca­mere, ho dato via libera ai co­mandanti. A loro valutare. Parliamo non delle bombe, che sull’aereo non portiamo neanche. Ma del cannoncino dei Tornado, simile a quello degli elicotteri Mangusta”


Una scelta che ha già sollevato polemiche e per giunta autorevoli.
Nel fine settimana, all’Ansa, l’ex-capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, il Generale Tricarico, aveva detto (il maiuscolo è un problema di formattazione che non riesco a risolvere): “FAR FUOCO CON I CANNONCINI DEI TORNADO NON SOLO E’ INUTILE, MA ANCHE PERICOLOSO PERCHE’ IN SCENARI COME QUELLO AFGANO IL RISCHIO DI DANNI COLLATERALI E’ CERTO”.

“COLPIRE UN TALEBANO CON LE ARMI DI BORDO DI UN TORNADO E’ FACILE COME VINCERE AL SUPERENALOTTO, MENTRE IL RISCHIO DI CENTRARE BERSAGLI DIVERSI, CIVILI INNOCENTI, E’ ALTISSIMO”

“TECNICAMENTE E’ COSI’, TUTTI LO SANNO. PROPRIO PER QUESTO LE ARMI DI BORDO DEI CACCIA NON SONO
STATE MAI USATE NEPPURE NEI 78 GIORNI DI OPERAZIONI AEREE SUI BALCANI”,

Secondo Tricarico se si vuole offrire copertura aerea ai militari impegnati a terra senza rischi di vittime civili (io direi, limitando questo rischio) bisogna armare i predator. Gli italiani hanno una versione di questi aerei senza pilota che non ha armi ovvero non senza missili “hellfire” anche detti “fire and forget” ovvero spara e dimenticatene (non è un riferimento alla morale ma alla loro capacità di seguire il bersaglio). Tra l’altro Tricarico ricorda la vecchia polemica di Rifondazione che contestò il nome aggressivo di questo veivolo come segno della natura bellica della missione durante le divisioni “afghane” all’interno del governo Prodi.

Un’ultima osservazione sull’intervista al Ministro. Almeno temporalmente noto che dopo la mia intervista al Generale Castellano (vedi post più sotto, all’interno il link al pezzo del Tg3), per la prima volta sulla stampa italiana si parla dei talebani uccisi. Ecco il passaggio, sempre dall’intervista di oggi al Corriere:

Se viene ucciso un militare italiano, la Difesa lo dichiara: dal 2001 in Afghanistan ne sono morti 15. Manca però un dato: quanti mili ziani afghani sono stati uccisi dai nostri soldati in scontri a fuoco?
«Il numero preciso non vie ne tenuto. Non c’è una conta bilità anche perché è difficile accertarlo. Di certo il numero degli insorti — talebani, trafficanti di droga, tutti coloro che compiono atti ostili — è superiore alle perdite subite dai contingenti internaziona li. E di molto».

Quelli colpiti da italiani?
«Anche per i nostri il rapporto è di sicuro più alto. Quando i nostri sono stati costretti a difendersi, gli altri hanno subito perdite. Tra i contingenti siamo quelli che hanno avuto meno lutti, an che se non per questo meno dolorosi».

Debole prova di forza

E’ un intervento autorevole, per la firma che porta, e durissimo per i suoi contenuti di critica alla missione afghana della Folgore quello pubblicato su l’Espresso del 30 luglio. Ecco alcuni passaggi dell’articolo del Tenente Generale Fabio Mini (dalla vasta esperienza internazionale e come analista), intervento che rilancio con un po’ di ritardo vista l’attesa (vana) che venisse messo on-line sul sito de l’Espresso.

“Tra le forze del nostro esercito i paracadutisti sono quelli meglio preparati alle operazioni ma anche i più vulnerabili alla propaganda dell’uso della forza. Sono immersi nella retorica delle maniera spicce, dello show di forza fisica ed armata. I nostri parà hanno perciò ritenuto logico e naturale seguire l’onda sciagurata di quelle parti della nostra politica, della nostra stampa e dei nostri generali che assecondando il rambismo hanno creduto di fare un favore agli americani e agli altri alleati. Hanno creduto a chi facendo leva sul loro spirito di corpo, reclamava il riscatto dell’onore nazionale macchiato dai precedenti contingenti, comandanti e governi ritenuti imbecilli e incapaci solo perchè avevano sparato e si erano fatti sparare meno degli altri.”

In pratica secondo Mini, la Folgore (nell’indifferenza dei nostri politici e vertici militari) ha deciso e attuato un nuovo atteggiamento operativo (l’uscita dalle basi, il presidio del territorio) che ha portato ad una serie di effetti negativi: “Quattro mesi di questo attegiamento hanno contribuito ad alterare equilibri fragilissimi e hanno smontato il lavoro fatto dagli altri contingenti”. Il tutto senza pensare al dopo, ad ottobre quando arriverà come di consueto un altro contingente: “Hanno creduto che la missione internazionale si sarebbe conclusa con la loro operazione: nell’apoteosi”. Ad essere carente, secondo Mini, è il quadro di tutto la missione: “Non si sa quale sia la missione da compiere e così tutti possono reclamare di averla compiuta. E si oscilla tra l’assistenzialismo e le operazioni da seconda guerra mondiale”. In conclusione secondo Mini: “E’ necessario che qualcuno si assuma la responsabilità di stabilire se si possa lasciare alle pulsioni o alle percezioni di ogni contingente l’iniziativa di scegliersi procedure e priorità”.

Nonostante la densità di contenuti (piacciano o meno) l’articolo del generale Fabio Mini è caduto nel vuoto. Unica eccezione, tra le reazioni, la risposta, altrettanto dura, dell’On. Gianfranco Paglia del Pdl (nonchè medaglia d’oro al valor militari, ferito durante la battaglia del check-point Pasta a Mogadiscio) intervistato da “Il Giornale” (secondo Paglia – sintetizzo – le critiche sono legate ad una mancata candidatura al Parlamento dello stesso Mini). La sostanziale assenza di reazioni ad un articolo del genere (che tra l’altro probabilmente esprime anche il disagio di una parte delle stesse forze armate) è il segno di come in Italia il tema (e il dibattito sull’) Afghanistan sia trascurato e carente. Una carenza (bipartisan) che prima o poi arriverà al dunque, con esiti – prevedibilmente – disastrosi.

Due giorni da dimenticare

Il luglio del 2009 in Afghanistan verrà ricordato come il mese peggiore dalla caduta dei talebani per le truppe occidentali, in particolare per britannici e americani. Un primato triste che si è consumato tra il 25 e il 26 luglio mentre la città di Khost (nell’est del paese al confine con il Pakistan) era sotto attacco combinato di kamikaze e guerriglieri, un candidato alle elezioni presidenziali veniva attaccato nella (un tempo tranquilla) provincia di Kunduz e gli italiani finivano due volte sotto attacco a poche ore di distanza.

Con le ultime vittime di questa macabra contabilità, i britannici uccisi sono ormai 21 dall’inizio di luglio (su un totale di 185 dal 2001) mentre le vittime americane sono arrivate ormai a quota 39 (su un totale di 667). A luglio i militari occidentali uccisi sono ormai 68 (compreso l’italiano Alessandro Di Lisio) e il mese non è ancora finito…Numeri, purtroppo, fatti volare sia dall’offensiva anglo-britannica nell’Helmand che dal generale incremento degli attacchi della guerriglia in tutto il paese in vista delle elezioni. Mentre in Gran Bretagna si discute ormai non solo del costo in termini di vite umane ma anche del costo economico della guerra afghana, i britannici continuano a morire per colpa di mezzi inadeguati come i semi-blindati Viking o le Land Rover Snatch ottime per le molotov di Londonderry non per le IED talebane.

Sugli episodi che hanno riguardato gli italiani, provo a dare qualche dettaglio in più. Sabato 25 luglio i nostri militari sono stati attaccati in due episodio distinti (vedi il servizio dal Tg3 delle ore 14.20 del giorno successivo) riportando tre feriti (cinque in realtà considerando i due militari non ospedalizzati visto la lieve entità delle ferite). Il primo nell’ormai “solito” distretto di Bala Baluk dove una pattuglia mista bersaglieri (1mo reggimento) e parà (187esimo) è stata costretta ad una battaglia durata cinque ore e conclusasi con gli interventi degli elicotteri d’attacco Mangusta in una zona dove è impossibile utilizzare copertura aerea dei jet salvo mettere in conto vittime civili (ricordiamo il drammatico bombardamento americano in questa zona ai primi di maggio, il peggio “incidente” del genere di sempre). Nei combattimenti è rimasto ferito un bersagliere. Un attacco del genere non accadeva dall’11 giugno, data di una massiccia e ben coordinata imboscata contro gli italiani che sembrava aver fatto desistere i talebani da attacchi del genere ripiegando sui i più semplici attacchi IED. Cosa significhi tutto ciò è difficile da capire anche se viene da pensare a nuovi rinforzi, talebani in fuga dal sud che si rifugiano e si riorganizzano a Farah.

Il secondo attacco è avvenuto ad Adraskan, mezz’ora di auto a sud da Herat, una località lungo la ring road dove i carabinieri hanno una base e svolgono un programma (pubblicamente lodato da Petraeus) di addestramento di un particolare corpo della disastrata e corrotta polizia afghana. In quella zona stava transitando un convoglio di Omlt (i consiglieri militari italiani che addestrano l’esercito aghano, in questo turno di dispiegamento parà della Folgore) quando, era quasi sera, è esplosa una moto lasciata lungo il ciglio della strada e carica di esplosivo. Ad attivarla un comando a distanza. A minimizzare i danni (due i militari lievemente feriti dal ribaltamento del mezzo) sono stati il blindato Lince e la bravura degli autisti (lo racconto per esperienza personale avendo viaggiato con loro decine di volte) che guidano al centro della carregiata, cambiano traiettoria, si allontanano da ogni tipo di possibile pericolo (che in Afghanistan può essere anche solo qualcuno in bici con una teiera sul manubrio) cambiano strada ad ogni blocco del traffico e sono pronti a sterzare bruscamente quando c’è da evitare lo speronamento di un kamikaze.

Il tabù dei talebani uccisi

Nell’edizione delle 19 del Tg3 di oggi è andata in onda un’intervista al Generale Rosario Castellano, il comandante della Folgore nonchè comandante dell’Rc-West, il quadrante nord-occidentale della missione Isaf in Afghanistan. L’ho girata alcuni giorni fa ad Herat, con il collega Mario Rossi. Potrei sbagliarmi, ma sono quasi sicuro che è la prima intervista in assoluto in cui un alto ufficiale italiano affronta il tema dei talebani uccisi in Afghanistan da truppe italiane. Ad una mia precisa domanda sul punto, Castellano ha risposto “parecchi, parecchi” pur senza fornire numeri precisi. Un’affermazione (senza compiacimento) seguita da una puntualizzazione, ovvero quella che l’obiettivo non è ammazzare talebani in quantità ma raggiungere obiettivi strategici (per esempio, eliminare un capo talebano in maniera tale che la popolazione locale si senta più libera).

Mi sembra si tratti di un fatto (l’intervista su questo tema) da rimarcare perchè rompe un tabù e segna un progresso nella trasparenza sulla missione italiana in Afghanistan. Anche l’anno scorso (per esempio a Sorobi ma anche nella parte occidentale del paese) sono stati uccisi talebani vuoi da azioni degli elicotteri d’attacco Mangusta, vuoi durante vere e proprie battaglie. Quest’anno (con riferimento alla battaglia di Bala Morghab a giugno) è stato emesso quello che, a mia memoria, è il primo comunicato ufficiale nel quale si parlava di: “In a three-hour action, ANA forces supported by ISAF killed and wounded a significant number of insurgents near Bala Murghab valley”. Un “numero significativo” che poi si saprà (informalmente) essere pari ad oltre novanta vittime.

Gli americani, per esempio, hanno una contabilità molto attenta delle perdite inflitte al nemico. Gli italiani spesso (ed è una novità dell’ultimo anno dopo il silenzio di quelli precedenti) si limitano ad usare termini come “neutralizzato” od “eliminato” in riferimento ai ribelli. Non vorrei essere frainteso (parlando di questioni militari è un rischio che si corre spesso) non sto dicendo che bisogna vantarsi delle vittime lasciate sul terreno ma da giornalista ritengo che, soprattutto in una situazione come quella afghana dove non è consentito seguire le truppe italiane in “embed”, quanta più trasparenza si raggiunge in termini “fattuali” sugli episodi di combattimento meglio è.  Meglio per l’opinione pubblica, meglio per il mondo politico, meglio per gli stessi militari. Meglio per l’informazione come valore indispensabile di una democrazia affinchè ognuno possa farsi la propria idea e giudicare quello che sta succedendo davvero in Afghanistan.

1/2 Sicuro

In questi giorni, dopo la morte del primo caporal maggiore Di Lisio a Farah, si parla tanto della sicurezza dei mezzi utilizzati in Afghanistan. E’ un tema delicato, sicuramente importante, ma temo possa creare l’illusione che un “mezzo tecnico”, qualsiasi esso sia, possa azzerare il rischio di feriti o peggio vittime in un contesto difficile come quello Afghano. Contesto dove ieri, con la morte di un militare americano, è stato sancito anche statisticamente quanto male vadano le cose: il mese di luglio 2009 (che per giunta non è ancora finito) è il peggiore di sempre (leggi dal 2001) per le forze internazionali in termini di vittime.

Entrando nello specifico dei mezzi, giusto per dare una panoramica sul tema, il blindato Lince sin’ora ha salvato molte vite, il suo è un sistema a cellula di sicurezza, ovvero in caso di esplosione volano vano motore e vano carico (sto semplificando) mentre l’equipaggio è protetto dalla cellula di sicurezza interna, tutto l’equipaggio tranne il mitragliere che è poi l’uomo più esposto. Secondo indiscrezioni, non confermate dal comando italiano, Di Lisio sarebbe stato proprio l’uomo in “ralla”, ovvero il mitragliere. Il Lince dovrebbe tra poco essere utilizzato anche dai britannici, tra le cui fila il tema dell’inadeguatezza dei mezzi ha causato non pochi trambusti (vedi le dimissioni del capo delle forze speciali in polemica con l’utilizzo delle “snatch”, fuoristrada pensati per le sassaiole di Londonderry non per le IED afghane – al riguardo vedi un vecchio post). Mi dicevano alcuni militari che i britannici hanno però ordinato una versione con torretta motorizzata che appunto evita la presenza all’esterno del veicolo del mitragliere. Sulla protezione del mitragliere, ho visto anche qualche interessante post pubblicato sul gruppo di Facebook il cui nome dice tutto: “Santo Lince”.

MRAP e Freccia. Quella dei “Mine Resistent Ambush Protected” è una famiglia di mezzi, molto costosi e molto sicuri, su cui hanno puntato gli americani ordinandone migliaia. Nell’Rc-West, se non erro, gli italiani ne hanno una decina (nella versione Buffalo e Couguar).  In questi giorni ad Herat si è concluso il passaggio di “consegne” tra i tecnici dell’azienda produttrice e quelli delle forze armate che dovranno occuparsene in futuro. Nel marzo dell’anno scorso, ho viaggiato (primo mezzo – !- di convoglio logistico) su un mezzo della famiglia MRAP lungo la strada tra Jalalabad e Asadabd nell’est del paese, era uno dei primi consegnati agli americani in Afghanistan. La sensazione di protezione è totale, sono mezzi molto alti da terra la cui chiglia a “v” scarica l’onda d’urto delle esplosioni, ma sono mezzi utilizzati soprattutto in Iraq. Sono troppo pesanti e mastodontici per muoversi in un paese, l’Afghanistan, dove le strade in buone condizioni sono un’eccezione. In sintesi l’ambiente afghano ne limita l’impiego, da super-sicuri rischiano di trasformarsi in super-rischiosi se si piantano su una pista di sabbia o su un sentiero di montagna. In Afghanistan, agli italiani arriveranno i Freccia (che secondo alcune fonti di stampa, a cui non ho trovato però conferma sul posto, sono già utilizzati dalle forze speciali della TF45) una sorta di blindocentauro (quindi a sei ruote) con il cannoncino del dardo (già presente in Afghanistan, è un mezzo cingolato). Il Freccia avrà dalla sua soprattutto la capacità di “mezzo digitale” ovvero sempre in contatto con l’esterno anche attraverso occhi elettronici (per esempio quelli dell’aereo senza pilota Predator) e quindi limitando i rischi per chi deve sporgersi dalle aperture del mezzo, ma evidentemente non sostituirà il Lince che ha un impiego molto più flessibile.

Una volte un’ex-responsabile della sicurezza della Croce Rossa in Afghanistan, specialista in operazioni di cross-border (ovvero di contatto tra le parti, per esempio per lo scambio di prigionieri e di feriti, tra Mujaheddin e Talebani) mi ha detto che ha sempre preferito muoversi disarmato, perchè c’è sempre qualcuno che ha una pistola più grande della tua. E’ evidente che l’ambiente afghano pone tutta una serie di variabili e problematiche che devono essere affrontate con i mezzi giusti ma è chiaro che a blindatura super la guerriglia risponde con bomba super (come nel caso dell’enorme carica esplosiva utilizzata nell’attacco di Farah) soprattutto in un paese che ha scorte di vecchie munizioni per decenni e dove l’oppio fornisce i soldi per comprarne di nuove, a fiumi. Insomma, non vorrei essere frainteso in questa riflessione, il tema della sicurezza dei mezzi deve essere sempre affrontato per primo (del resto, molto meno dei miltiari, ma io stesso mi ci ritrovo a viaggiarci sopra) ma non deve passare nell’opinione pubblica l’idea che la blindatura risolve tutti i problemi e azzera tutti i rischi che invece ci sono e sono tantissimi. E’ vero dappertutto, nell’Afghanistan di oggi è più vero che mai.

In aggiunta a quest post, inserisco il link ad un mio pezzo andato in onda il 15 luglio al Tg3 delle 19 e che tratta, pur nei limiti della sintesi televisiva, pressochè lo stesso tema