A rileggerla oggi, purtroppo, la storia professionale del fotografo portoghese Joao Silva suona come una sorta di segno premonitore; noto per essere uno dei quattro fotoreporter del “bang-bang club” che si dedicarono a coprire la violenza di strada nel Sud Africa del post-aparteheid negli anni ’90.
Joao Silva è stato gravemente ferito nella provincia di Kandahar, saltato su una mina mentre era al seguito della quarta divisione di fanteria dell’esercito americano. Lo ha reso noto il New York Times, per conto del quale era in Afghanistan. La dinamica dell’incidente non è chiara e forse non lo sarà fin quando – speriamo presto – Joao sarà in grado di raccontarla. Soprattutto per chi lavora con le immagini ed ha bisogno di spostarsi alla ricerca di cambi di campo e inquadrature alternative, lavorare al seguito delle truppe in Afghanistan è sempre più rischioso soprattutto quando si avanza anticipando la colonna o il convoglio a cui si è aggregati. Soprattutto al sud, favoriti dal terreno piatto (a volte desertico a volte coperto da una fitta vegetazione e dai canali dell’irrigazione, trincee “naturali”) i ribelli ricorrono in maniera sempre più massiccia agli IED, gli ordigni nascosti e sempre meno individuabili. Ormai il loro potere esplosivo è cresciuto talmente tanto da non rendere indispensabile l’ “imbottitura” con schegge metalliche e chiodi che ne aumentano la forza distruttrice (come sparare migliaia di proiettili in ogni direzione, allo stesso momento) ma le rendono anche visibili ai metal-detector. L’incidente è avvenuto nel distretto di Arghandab, l’area che gli americani da mesi stanno provando a riportare sotto controllo con piccole operazioni diffuse, dopo il fallimento della spettacolare quanto vana offensiva della relativamente poco distante Marja nel febbraio scorso
Silva è l’ennesimo giornalista che viene seriamente ferito (o muore, per fortuna non è questo il caso) durante un embed sul mobile e sfuggente fronte afghano. Non è chiaro quanto gravi siano le ferite riportate da Silva, ferite che sarebbero concentrate alla gambe. Il sito di Silva racconta del suo straordinario lavoro, visitarlo è forse l’unico modo che abbiamo per stargli vicino in un momento del genere.
Quello che la tv pubblica americana, Pbs, si appresta a trasmettere il 23 febbraio, per la serie “Frontline” è un documento unico. “Behind the talibans lines” è il primo reportage girato (ovviamente da un giornalista afghano) embed con i talebani nel nord del paese (qui la sintesi). Purtroppo nemmeno il web potrai aiutarci in questo caso, visto che il sito della tv è schermato ai contatti non provenienti dagli Stati Uniti. E’ un documento unico perchè per capire la guerra in Afghanistan manca proprio questo punto di vista, quello della guerriglia. Al contrario di quanto accadeva ai tempi dei mujaheddin, i talebani non consentono ai giornalisti (bersagli preferiti dei sequestri) di lavorare con loro, salvo alcune rarissime eccezioni. Questa è una di quelle, forse la più importante.
I film sull’Afghanistan, in generale, sono pochissimi (la memoria corre al magnifico “Ritorno a Kandahar”), tra quelli sulla guerra (più recente) in Afghanistan ricordo solo “Leoni per Agnelli”. Pochi anche i documentari, per esempio il duro “Taxi to the Dark Side”. A questa lista si è da poco aggiunto un film-documentario che ha aperto e chiuso il festival di Sundance 2010, baluardo del cinema non-commerciale negli Stati Uniti. Lo ha chiuso perchè dopo la serata inaugurale del festival è tornato in scena durante la serata di premiazione; ha vinto la sezione dei documentari.
Il film si chiama “Restrepo”, e mi ci sento particolarmente legato pur non avendolo visto, perchè ho incrociato la strada degli autori e ho vissuto esperienze e luoghi raccontati in questo film-documentario oltre ad aver conosciuto sul campo, a Korengal, parte dei soldati che ne sono protagonisti, gli uomini della battle company della 173ma brigata aviotrasportata dell’esercito americo, 2ndo Battaglione “The Rock”.
“Restrepo” è stato girato da Sebastian Junger e Tim Hetherington. Il primo è famoso per il suo capolavoro letterario di docu-fiction “La Tempesta Perfetta” (da cui il film omonimo), con trascorsi da reporter di guerra in Afghanistan negli anni ’90. Il secondo, è un fotoreporter diventato famoso per aver scattato sempre nella valle di Korengal (meglio nota come la valle della morte provincia di Kunar, Afghanistan orientale) la foto che gli fatto vincere il world press award del 2008 (“la stanchezza di un uomo, la stanchezza di una nazione – qui per vedere la foto, entrambi scrivono per Vanity Fair). Il film ha un punto di forza: è stato girato lungo tutto l’anno di servizio nella valle, una decina di viaggi embed che hanno portato i due autori a coprire praticamente tutte le esperienze vissute da questi uomini nel luogo che incarna la guerra in Afghanistan e tutte le sue contrattizioni. (solitamente gli embed non arrivano ad un mese di durata per mille motivi pratici dei giornalisti che li svolgono). Gli autori hanno poi incontrato di nuovo gli stessi militari a Vincenza, dove la 173ma fa base, per raccogliere i loro ricordi su quell’infernale anno.
“Noi siamo già famosi” mi ha detto, una volta, uno degli anziani della valle (che nel film si vedono durante estenuanti e inconcludenti shura, riunoni tribali) durante la mia permanenza lassù, in uno scenario naturale bellissimo a parte i bombardamenti e le imboscate. Una frase che dice tutto sul destino di quella valle, ormai un’icona della guerra in Afghanistan citata persino in diverse menzioni di premi giornalistici (tra cui l’Ilaria Alpi, assegnato nel 2008 a me ed al collega Gianfranco Botta del Tg3) ed ora addirittura in recensioni cinematografiche.
“Restrepo” sembra straordinario (dico sembra perchè non l’ho visto- mi baso sulla mia conoscenza del lavoro dei due e sui materiali preliminari pubblicati in questi ultimi tre anni “in pillole” come articoli, servizi tv, ecc. ecc.). Un impietoso quadro delle contraddizioni e del tono di surreale della guerra in Afghanistan, con le quali devono ogni giorno confrontarsi le truppe occidentali, immerse in un’ambiente ostile o – nella migliore delle ipotesi – incomprensibile. Un film da vedere per capire meglio perchè in Afghanistan si gioca una sorta di “tris” sul campo di battaglia, il “tic-tac-toe”…un gioco dove alla fine non vince mai nessuno o meglio nessuno può vincere.
Restrepo - Junger ed Hetherington
Commento. “Restrepo” è un film embed, ovvero girato al seguito delle truppe americane. Ha vinto il Sundance, icona dell’indipenza. Spero che tutto questo aiuti a superare una preconcetta e salottiera avversione all’embed, cominciata da quando questo termine è entrato in voga (Iraq 2003) sull’onda della (giustificata) rabbia contro una guerra sbagliata, tra le più assurde di sempre. La retorica anti-embed presuppone che articoli, servizi, reportage realizzati al seguito di militari non siano prodotti giornalistici degni di questo nome, diciamo anche non indipendenti, asserviti. Chi si nasconde dietro questa retorica dimentica che, quando non si chiamava embed, con queste modalità sono state raccontate pagine memorabili di guerra che altrimenti non si sarebbe potuto descrivere/mostrare: dallo sbarco in Normandia alla guerra civile spagnola – anche Robert Capa era embed! – per finire alla guerriglia anti-sovietica dei mujaheddin in Afghanistan. Inoltre alcuni fanno finta di non capire o non sanno che ci sono – per esempio nell’Afghanistan di oggi – zone dove semplicemente per i giornalisti non è possibile andare se non al seguito delle truppe, pena la vita o peggio (sofferenza per un intero Paese) un sequestro. Senza l’embed oggi non sarebbe possibile mostrare l’assurdità della guerra in Afghanistan, come dimostra “Restrepo” e tante altre pagine di bel giornalismo scritte di recente. Nel mio piccolo è la stessa cosa che ho provato a fare, trovandomi a scegliere tra non raccontare/mostrare nulla e farlo in modalità embed. Ho scelto la seconda opzione perchè ho sempre pensato che vedere un soldato che spara in mezzo ad inaccessibili montagne o una vittima, una sola vittima civile, oppure una famiglia in fuga dalla propria casa…beh che tutto questo valga centinaia di note ufficiali che fanno la conta delle vittime o di editoriali scritti da colti intellettuali; che lo valga a prescindere dal fatto che quelle immagini siano state riprese al seguito dei soldati occidentali, dei talebani o muovendosi autonomamente (come speriamo di poter fare, prima o poi in Afghanistan). Non sto dicendo che l’embed è il migliore dei mondi possibili, ma solo che ultimamente è molto spesso l’unico. Certo è uno strumento delicatissimo che si presta a manipolazioni e condizionamenti. Soprattutto richiede – forse più che in altri contesti – onestà intelluale, grande sforzo professionale, caparbietà e un sentimento di dovere ulteriore verso il pubblico cui spiegare anche in che condizioni si è lavorato affinchè chi guarda o legge possa fare la sua “tara”, al di là di quella già fatta (auspicabilmente) dall’autore.
Non era mai capitato prima, sabato però è successo. Cosa? In EBU, il circuito internazionale all’interno del quale le tv europee condividono immagini e servizi, sono passati due “feed” dall’Afghanistan: il primo un servizio dell’AP dalla valle di Korengal, il secondo un servizio della BBC dalla provincia di Wardak. Entrambi (ed è questa la cosa che mi ha colpito) mostravano combattimenti.
Nel primo caso, il cameraman dell’Ap (da qualche giorno embed con gli americani nella valle di Korengal) visitava una scuola nel “villaggio della morte”, Aliabad, al seguito delle truppe afghana con alcuni Marines ETT (embedded tattical trainer, consiglierei militari in poche parole). Praticamente, durante il colloquio con gli scolari (emblematica la domanda dell’ufficiale afghano: “preferisci gli americani o i talebani?” il bambino risponde “non lo so”) arrivano raffiche sulla scuola e si inizia a sparare al solito nemico fantasma dall’altra parte della valle. Per la cronaca, il fruttuoso embed dell’Ap ha dato vita anche ad una foto che ha fatto un po’ discutere negli Usa (ovviamente all’insegna della curiosità la riporta Repubblica.it).
Nel servizio della BBC, invece, si parla di “indirect fire”…al seguito della 10ma Divisione di Montagna dell’esercito americano, durante un’intervista si sente un boato, iniziano a piovere colpi di mortaio con le schegge che suonano lo xilofono sui blindati dove militari e giornalisti si vanno a rifuggiare (“took cover”). La scena di svolge nella provincia di Wardak, a ridosso di Kabul, uno dei luoghi chiave del cosiddetto assedio talebano a Kabul, dove sono arrivate già a gennaio rinforzi americani (non quelli successivamente decisi dal presidente Obama). Ecco il link . Per inciso, ho ripreso entrambi i contributi in un pezzo per il Tg3.
Qual è la cosa che mi colpisce? Nel marzo del 2008 sono stato nella “valle maledetta”, quella di Korengal al confine tra Afghanistan e Pakistan, con la 173ma aviotrasportata dell’esercito americano, documentando – tra le altre cose – una battaglia con il nemico invisibile (con il collega Gianfranco Botta, quella trasferta ci ha fatto vincere il Premio Ilaria Alpi). A chi interessa, ecco il link per rivedere lo speciale che sintetizza tutto il lavoro svolto in quell’embed.
In quella stessa valle era stata scattata pochi mesi prima la foto poi destinata a vincere il world press award (la stanchezza di un uomo, la stanchezza di una nazione) ma in generale gli embed erano esperienze lasciate ai free lance e poco praticate in primis dai grandi media americani, troppo impegnati sul fronte iracheno (come del resto le stesse forze armate usa). Insomma da un lato noto che la guerra in Afghanistan piano piano sta cessando di essere “the forgotten war”, la guerra dimenticata (tra ridimensionamento di quella irachena e nuova strategia di Obama), dall’altro noto che gli embed si stanno facendo sempre più pericolosi perchè le truppe occidentali sono sempre più sotto attaco. Rischi del mestiere, certo, l’aspetto positivo (se qualcosa di positivo ci può essere in una guerra) è che l’opinione pubblica vedrà sempre più il vero volto dell’Afghanistan e potrà trarne le proprie conclusioni.