Sul portico della mia guest house, ho davanti una tazza di tè verde, un piatto di riso kabuli e di pane nan, quello piatto, cotto sulle pareti dei forni scavati nel terreno.
Basta questo a farmi sentire a casa, finalmente, cinque anni dopo.
Esattamente come basta poco, in una zona di conflitto, ad abituarti a quello che, altrove, sarebbe anormale: il “clak” del colpo che entra in canna, negli Ak-47 delle guardie in giardino, gli chinook che attraversano il cielo (magari portando nei loro compund blindato quelli che non vogliono affrontare la strada più pericolosa del mondo, la airport road), il clangore del doppio portone blindato che si apre in sequenza.
Quando un auto si avvicina all’ingresso, le due enormi ante fanno gridare i cardini: l’ispezione anti-bomba viene completata e solo allora si apre il secondo portone mentre il primo resta chiuso.
La città è tappezzata di manifesti per le elezioni di sabato prossimo, le parlamentari. La situazione sicurezza sembra stabile con migliaia tra soldati e poliziotti dispiegati in città, ma la vulnerabilità di Kabul è tale che non può essere cancellata in una notte. E a ipotecare queste elezioni potrà essere più il pericolo dei brogli che la violenza, il che è tutto dire sulla tenuta della cosiddetta democrazia afghana.
Come avete capito leggendo sin qui, il lavoro sul campo per completare il mio prossimo libro sull’Afghanistan è cominciato da qualche ora.
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