Poco meno di tre anni dopo il mio ultimo viaggio, sono tornato in Grecia perchè il governo aveva appena annunciato l’accordo per la fine del commissariamento internazionale, in pratica dal 21 agosto Atene riprenderà la propria sovranità contabile, lasciandosi alle spalle le richieste di Fondo Monetario Internazionale, Unione Europea e Banca Centrale Europea.
Ma come stanno davvero le cose del Paese? I numeri sono migliorati ma dieci anni di crisi e otto anni di troika hanno lasciato il segno, a pagare sono – come sempre – gli ultimi.
Il mio racconto in questi pezzi realizzati per il Tg3 (i link rimandano alla pagina FaceBook della testata):
Tag: crisi
Il racconto immersivo
NEI CAMPI DEI ROHINGYA – UN’ESPERIENZA A 360 GRADI (h264) from Nico Piro on Vimeo. ATTENZIONE, RICHIEDE UN BROWER COME FIREFOX COMPATIBILE CON LA VISUALIZZAZIONE 360° INTERATTIVA (NO SAFARI).
Rohingya, un crisi per immagini
In queste immagini, la crisi dei rohingya per come l’ho vista io sul campo nelle ultime due settimane o almeno per come l’ho “fissata” in quei momenti in cui ho avuto la prontezza e il tempo per scattare una foto.
Il dramma dei rohingya è talmente vasto che diventa persino difficile “esaurirlo” in un racconto unico, per quanto si possa ricercare una sintesi. E’ l’estensione della crisi e la velocità con cui si è sviluppata a rendere l’esodo dei rohingya un evento, catastroficamente, unico.
A passare il confine con il Bangladesh, in poche settimane, sono stati seicentomila profughi in fuga dalla pulizia etnica (c’è chi la chiama genocidio) condotta dagli estremisti buddisti e dall’esercito del Myanmar; pulizia etnica cominciata dopo gli attacchi del 25 agosto dell’ARSA – una piccola formazione di guerriglia rohingya – contro l’esercito.
L’ARSA ha fornito una scusa buona e molto “contemporanea” (la “lotta al terrorismo”) all’esercito per avviare l’ennesima ondata di violenze – stupri di gruppo, esecuzioni, tecniche di “terra bruciata” nei villaggi – contro quella viene ritenuta la minoranza più perseguitata della Terra. Sono mussulmani a cui dal 1982 è stata tolta la cittadinanza, vengono trattati come immigrati clandestini nella terra in cui sono nati. La parola “rohingya” non viene nemmeno riconosciuta nel lessico del Myanmar, infatti nei vari documenti ufficiali di questi giorni – per esempio quello sul presunto “rimpatrio”, siglato da Bangladesh e Myanmar – il termine non compare.
In Myanmar, vengono genericamente definiti come persone di “razza bengalese”.
Viaggio a Calais
“Fango”, in onda sabato
Il mio reportage dalla costa atlantica nel nord della Francia, sulla crisi dei rifugiati tra Calais e Grand Synthe, va in onda sabato notte (20 febbraio) per “Agenda del Mondo” la rubrica di esteri del Tg3.
Si intitola “Fango” e racconta delle migliaia di profughi – comprese intere famiglie con donne e bambini piccoli – che vivono in condizioni vergognose, sperando di raggiungere il Regno Unito; tentativi destinati a fallire vista la militarizzazione di ogni possibile punto di passaggio (traghetti, EuroTunnel, la ferrovia) e la netta chiusura del governo Cameron.
Appuntamento per sabato 20 su RaiTre, al comodo orario delle 0.55 (al netto del probabile ritardo di qualche minuto) sperando che non la guardino solo gli insonni…ma anche dei pazienti telespettatori.
Assalto alla banca – 2
L’assalto di cui sto per parlavi non è stato condotto a colpi di arma da fuoco, nè con granate, nè con attentatori suicidi. E soprattutto non è stata opera dei talebani. La Kabul Bank è il simbolo del neo-capitalismo afghano ed è stata “rapinata” dalla classe dirigente che ruota intorno al governo Karzai. Adesso il suo tracollo, in puro stile Wall Street, rischia di far scivolare nel baratro tutto il Paese.
Per la verità più che di neo-capitalismo si dovrebbe parlare di economia di guerra, quell’economia legata non tanto ad una vera crescita del prodotto interno lordo ma ad un’artificiale incremento dello stesso legato ai ricchi contratti per la logistica e la ricostruzione che arrivano dalla coalizione Isaf e dai fondi della ricostruzione internazionale alias dalla guerra.
La Kabul Bank, la più grande banca privata del Paese, emblema della rinascita afghana, è andata in crisi a fine agosto quando una folla di correntisti ha cominciato a ritirare i propri risparmi mettendo alle corde la stabilità della banca (che è il tesoriere delle forze di sicurezza alle quali paga gli stipendi per conto del governo). In pratica si è andata diffondendo la voce – rivelatasi vera – di una prassi di prestiti facili concessi agli amici degli amici (compreso il fratello del presidente e quello del vicepresidente), in buona parte utilizzati per investimenti immobiliari a Dubai. Una volta che la crisi dell’emirato si è propagata ci sono voluti pochi mesi per arrivare a far cadere anche l’ultima tessera del domino, appunto la banca afghana che è stata “nazionalizzata”.
Ma il caso della Kabul Bank è diventato un caso mondiale in un Paese che sta assorbendo milioni di dollari della comunità internazionale non donati per far arricchire la casta degli ex-signori della guerra ma per ricostruire il Paese e vincere “i cuori e le menti” degli afghani così da vincere la guerra.
E’ per questo che da mesi l’Imf, il fondo monetario internazionale, sta provando a raggiungere un accordo con il governo Karzai, in cambio di una nuova ondata di aiuti gli afghani devono vendere la Kabul Bank (che peserebbe per 500 milioni di dollari sulle case del governo) e rimettere mano al sistema creditizio. Senza il via libera dell’Imf, inoltre, molti Paesi donatori potrebbero non fornire altri fondi all’Afghanistan. L’ultima tornata di colloqui è fallita pochi giorni fa, ne ha riportato notizia il Financial Times che sta seguendo da mesi la vicenda.
Secondo il governatore della banca centrale afghana, Abdul Qadir Fitrat, di ben 315 milioni di dollari in prestiti sarebbe già garantito il rientro su un totale di 579, stime che molti però mettono in dubbio come la previsione che la banca possa tornare in profitto entro la fine dell’anno. Negli ultimi due mesi lo scandalo si è aggravato con l’apertura di un’inchiesta (purtroppo da parte del procuratore generale, noto per i suoi stretti legami con Karzai) e nuovi nomi “pesanti” coinvolti nello scandalo.
La vicenda della Kabul Bank è emblematica: i soldi arrivano dall’occidente finiscono al governo Karzai (con le migliori delle intenzioni), governo che ora vorrebbe, anche con quei soldi, ripianare i buchi della banca, buchi creati dagli stessi membri del governo per i propri affari personali…Forse spiegata così suona meglio, no? Forse, perchè il punto è anche un altro: la corruzione indebolisce la credibilità del governo quindi rafforza la guerriglia quindi rende inutili gli sforzi bellici contro i talebani. E poi mi chiedo perchè più di qualche candidato alle parlamentari che ho incontrato a Kabul lavorarava per la Kabul Bank?
Minimi termini
Non mi sembra che abbia riscosso grande attenzione, in Italia in particolare e nel mondo in genere, il fatto (forse trascurabile!?) che i rapporti tra gli Stati Uniti e l’occidente in genere con il loro “uomo a Kabul”, ovvero il presidente Karzai, abbiano raggiunto i minimi termini. In questi giorni si è toccato il punto più basso degli ultimi nove anni nelle relazioni tra gli alleati stranieri e il loro punto di riferimento nel Paese, intorno alla quale – lo si è detto ormai fino alla noia – ruota tutta la nuova strategia militare americana (ovvero “non basta vincere militarmente ma dobbiamo mostrare agli afghani che conviene stare dalla parte del governo”).
Andiamo con ordine: eletto dopo un lungo calvario di brogli, voti annullati, accuse fino al colpo di teatro del suo rivale Abdullah che si ritira dal ballottaggio, Hamid Karzai ha ben pensato nelle ultime settimane di mettere le mani sulla ECC, la commissione di controllo delle elezioni. Prima ha deciso di eliminarne la presenza internazionale (5 membri afghani su 5) poi ha riammesso due membri stranieri, così da fare in modo che i controllori afghani (3 su 5, ovvero quelli da lui nominati) continuassero ad avere la maggioranza in caso di decisioni controverse (vedi un po’ di post precedenti di questo blog).
Accade che, giovedì, il Parlamento decide di rimandare al mittente la decisione e poco dopo Karzai in una conferenza stampa arriva ad accusare le Nazioni Uniti e le diplomazie straniere delle frodi elettorali di agosto (vedi qui). Roba mai sentita sin’ora! Karzai, in realtà, fa anche uno specifico riferimento al vice-capo missione dell’Onu (l’americano Galbraith) cacciato da Kei Eide (e qui le versioni si differenziano) diciamo per essere stato troppo zelante negli scenari del dopo voto. Ma l’insieme del discorso è quasi, come toni, da comunicato dei talebani. Il seguito è routine: Abdullah che ritorna a parlare con i giornalisti, Washington che chiede chiarimenti ed infine la telefonata di pacificazione tra la Clinton e Karzai. L’ennesimo teatrino dei pessimi rapporti tra Karzai (amato da Bush) e l’amministrazione Obama sembra chiuso ma ormai è chiaro che, per come si sono messe le cose, con questo presidente all’ARG (il palazzo presidenziale di Kabul) sarà sempre più difficile dialogare e collaborare. E non è solo colpa sua. Appuntamento al prossimo teatrino mentre “outside the wire” si continua a morire.