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Troppo pochi

La guerra in Afghanistan ricomincia, verrebbe da dire, se non fosse che non è mai finita. Diciamo che ricomincia per l’America, che già spende 23 miliardi di dollari l’anno per la missione afghana con un dispiegamento di circa 8000 unità. L’amministrazione Trump si prepara a mandare altri 3000 uomini. a tagliare i caveat al loro utilizzo al fianco delle truppe afghane (“taglio” delle restrizioni già cominciato con Obama) e a cancellare i limiti all’uso dei bombardamenti (l’indiscrezione poi confermata, è del WP). La decisione finale è attesa dopo il summit della Nato del 25 maggio, ma è evidente che Washington si aspetta un aiuto dagli alleati. Solo per la cronaca ricordiamo che l’Italia è il secondo Paese contributore alla missione “Resolute Support”, missione che formalmente ha compiti di addestramento delle forze di sicurezza afghane.

La svolta matura in un quadro complesso, del quale sono pubblici sostanzialmente solo due elementi: le altrettante richieste dei vertici militari (il capo della missione afghana e il generale che guida il comando delle forze speciali) di avere più truppe sul campo.
Gli elementi da valutare sono però molteplici:  Continua a leggere “Troppo pochi”

Uccidete Geronimo

situation room
situation room

E’ stato come vedere un film, solo che i minuti sembravano ore – racconta chi c’era. Nella situation room della Casa Bianca, Obama, la Clinton e tutti i vertici della sicurezza americana si sono riuniti domenica per guardare su uno schermo quello che stava succedendo in Pakistan. Come quando si va al cinema o si vede una partita importante qualcuno era andato da Costco (il supermercato delle grandi quantità e dei grandi sconti) per comprare panini e bibite. Il racconto di questo e di altri aspetti del blitz contro Bin Laden è contenuto in questo articolo del Ny Times.

Il Pentagono non ha ancora mostrato immagini nè del blitz nè del corpo (sarebbe ora…) e dopo l’uscita, da fonte pakistana, della falsa foto diffusa ieri, le teorie della cospirazione stanno alimentando dubbi e scetticismi che, del resto, non potevano non mancare quando si tratta dell’uccisione dell’uomo la cui stessa esistenza in vita ha giustificato guerre e morti. Ci vorranno forse mesi, sicuramente anni per capire cosa è successo davvero ad Abbottabad e a Washington.

Ora sappiamo un po’ di cose in più rispetto ad ieri. “Geronimo”, nome in codice per Bin Laden, era stato individuato da mesi grazie al suo corriere, rintracciato sul campo ma individuato grazie alle confessioni estorte a Guantanamo.
L’ultimo uscita di WikiLeaks stava mettendo tutto a rischio, in qualche modo, perchè un documento tra i più recenti diffusi parlavo proprio di questo “corriere”, il postino del grande capo. Sappiamo anche che i pakistani erano all’oscuro di tutto, militarmente è stato un capolavoro, entrare in un territorio di un altro Paese ed entrarci tanto in profondità e in una zona tanto popolata (50 km dalla capitale) è un rischio enorme e richiede piloti (di ben quattro elicotteri) con un’abilità assoluta, quella di volare praticamente “pancia a terra” per sfuggire ai radar (se fossero stati abbattuti, intercettati sarebbe finita come “black hawk down”).
Sappiamo che Bin Laden è stato riconosciuto prima con il sistema biometrico e poi con un campione di dna. Sappiamo anche un suo video (fonte Ap) potrebbe essere diffuso nelle prossime ore, potrebbe essere il testamento del leader di Al Qaeda preparato da tempo e consegnato a qualcuno fidato proprio per l’evenienza di una sua morte.

Al di là di che faccia avesse Bin Laden oggi, nel senso di come fosse cambiato visto che non lo si vedeva da anni, quello che non sappiamo è cosa succederà adesso. Al Qaeda è profondamente indebolita e comunque non è più l’organizzazione monolitica degli anni ’90, nella quale se uccidevi il capo avevi ucciso l’organizzazione. Ieri è stato ucciso solo un simbolo. Al Qaeda ormai è un “franchising” del terrore, vedi il suo braccio somalo, quello magrebino, quello yemenita; una galassia che si ispira a Bin Laden ma dove “ogni punto vendita” è autonomo, come si direbbe nel commercio (passatemi il sarcasmo). Il fatto che sia indebolita non però significa (gli attentati di Londra insegnano) che non possa avviare una rappresaglia, colpire da qualche parte.
L’altra cosa che sappiamo è che non ci sono più scuse per gli Stati Uniti sul versante Pakistan. La comoda vita del fuggitivo Bin Laden, non in una caverna ma in una villa, confermano la verità di cui tutti parlano e scrivono da anni, il Pakistan attraverso l’Isi protegge, direttamente o indirettamente, gli uomini di Al Qaeda e quelli che fanno la guerra in Afghanistan. Sulle prime ieri, mi sembrava impossibile che gli americani avessero osato un blitz del genere senza avvertire i pakistani, troppi rischi. Ho immaginato che ci fosse stato qualche sorta di scambio tra americani, l’Isi e il governo di Islamabad dopo queste settimane di tensione sul contractor della Cia arrestato per omicidio e i bombardamenti dei droni. Se sono stati presi quei rischi, vuol dire che affidarsi ai pakistani avrebbe significato far saltare l’operazione, di cui persino i Navy Seals hanno saputo solo alla fine.

I simboli hanno un loro valore, sia per vincere le campagne elettorali che per far sentire alla generazione di ground zero che una pagina si è chiusa, ma se si vuole per davvero rendere il mondo più sicuro o quantomeno sbrogliare il groviglio della guerra afghana bisogna agire proprio in Pakistan, tagliando quelle complicità che consentivano a Bin Laden di vivere di fronte ad un’accademia militare ed al mullah Omar chissà dove. Ma questa è una strada lunga (diplomatica, politica, di intelligence) e che nessun blitz armato risolvere in quaranta minuti…

Diario minimo

Ho passato molte ore a leggere una parte, seppur minima, dell’enorme massa di informazioni messe ieri on line da wikileaks.org (qui il data base) con un’inedita collaborazione con tre diverse testate in altrettante giurisdizioni nazionali (per comprenderne il meccanismo si veda questo dettagliato articolo del Guardian) volta ad evitare che le “notizie” si perdessero in questo mare di file che, se stampati, probabilmente occuperebbero decine di scaffali.

La più importante delle rivelazioni contenute in questi documenti mi sembra essere quella sull’imprecisione della TaskForce 373 e sui dubbi di leggitimità sulla suo “scopo sociale” (uccidere capi talebani), per il resto è la conferma (“in the own words” dei militari) di tutta una serie di problemi e di fragilità, tutto sommato noti. Personalmente, tra quello che ho potuto leggere
mi ha molto colpito il diario “minimo” della guerra che emerge da molti di questi rapporti.  Si tratta di piccoli episodi, dai commenti sulla distribuzione di aiuti che entusiasma gli americani (convinti di poter ottenere il supporto della popolazione locale) allo stillicido di attacchi quotidiani che siano contro una scuola, una pattuglia di poliziotti afghani, un gruppo di guardaspalle di politici locali; i racconti dei tanti scontri a fuoco “minori” sino agli attacchi con razzi e colpi di mortaio contro le fob (basi operative avanzate) occidentali. E’ il racconto di una guerra la cui quotidianità, tra disattenzione dei media e le politiche propagandistiche degli uffici stampa militari, svanisce dalle cronache accessibili al pubblico. E’ così che alla gente (se volete ai contribuenti occidentali che questa missione pagano) non arriva che un racconto frammentario del conflitto; racconto che tocca i suoi picchi, sostanzialmente, in occasione di grandi massacri di civili, di vittime militari (soprattutto se della nazionalità di riferimento – quella di chi legge), di visite ufficiali di politici. Un problema generale di tutti i Paesi membri di questa missione (imbarazzante per troppi governi), problema che in un paese come l’Italia è particolarmente evidente. Lo è di meno in America – anche per la sua tradizione di cronaca militare. Anche per questo ho particolarmente apprezzato la scelta del New York Times di pubblicare una di queste storie minori, quella dell’outpost Keating (clicca qui per l’articolo) nell’inaccessibile provincia del Nuristan. Chiunque voglia capire che cosa sia la guerra in Afghanistan dovrebbe leggerlo. Personalmente, nei limiti dei mezzi dati, ho sempre provato a raccontare la guerra nella sua quotidianità, la vita ordinaria dei militari occidentali sul campo. Sono sempre stato convinto che siano queste storie “minori” molto più del giornalismo e dell’opinionismo militante (di ogni versante) a far capire alla gente che cosa sia davvero la missione Afghana e se valga la pena o meno di continuarla. Se navigate dentro i “war diaries” – magari alla caccia della grande notizia che per ora non sembra esserci – non trascurate questi brandelli di storie dal campo. Basta leggerne alcune per capire tutto.

Pietra Tombale

Sarà anche irresponsabile come dice la Casa Bianca pubblicare i 92mila documenti segreti come oggi hanno fatto il New York Times, Der Spiegel e il The Guardian, ma forse è ben più irresponsabile continuare a voler tenere il coperchio sulla pentola in ebollizione di una guerra che è sempre più ingestibile, arrivata com’è ai tempi supplementari, anche e soprattutto grazie alla magnifica strategia degli anni passati di Bush e Rumsfeld. Come è altrettanto irresponsabile, da parte delle fonti governative (americane e non), raccontare all’opinione pubblica internazionale che le cose vanno sì male ma poi non così male come invece si capisce, chiaramente, da questi documenti scritti dai militari in prima persona, ovvero da chi quella guerra combatte a rischio della proprio vita.
Soprattutto se si guarda alla scelta del New Times (ben descritta in questa nota ai lettori) di controllare in dettaglio i documenti, riscontrarne l’autenticità (che del resto il governo americano non mette assolutamente in dubbio in questi primi commenti) e soprattutto di non pubblicare dati sensibili ma non indispensabili a capire il contesto del “racconto” (come per esempio i nomi degli agenti segreti o degli uomini delle forze speciali che operano sul campo come quelli delle fonti afghane – proprio per non metterne in pericolo la vita) si capisce che poi di irresponsabile c’è ben poco.

I dati vengono dall’organizzazione wikileaks.com (vedi qui http://wardiary.wikileaks.org/) che in anticipo rispetto alla pubblicazione di oggi, qualche settimana fa, li ha forniti alle tre testate internazionali – proprio per consentire loro la rielaborazione giornalistica di materiali altrimenti indigesti per la loro enorme mole; farebbero parte dello stock di dati classificati trafugati da un giovane militare americano (attualmente agli arresti in Kuwait, per quanto se ne sa) servendosi semplicemente di un finto cd musicale (in realtà un disco riscrivibile). Dati poi passati – come il video del massacro iracheno dei due giornalisti Reuters e di diversi civili – proprio a wikileaks.org
A proposito se vi trovare a Londra, martedì 27 il fondatore dell’organizzazione sarà ospite del FrontLine Club per una conferenza che si preannuncia interessante. Julian Assange è stato per mesi in fuga in giro per il mondo, proprio per prepare la diffusione di questi documenti e di un’altra vasta quantità dei quali non si sa ancora nulla.

Non ho avuto ancora il tempo di leggere nel dettaglio almeno una parte dei documenti, delle fonti originali (che riserveranno probabilmente anche qualche commento e qualche notizia sull’attività dei militari italiani), ma le sintesi giornalistiche (qui il dossier del NY Times, qui quello del The Guardian, e quello di Der Spiegel – purtroppo per me solo in tedesco) sono molto interessanti ed utili per navigare nel mare magnum di questi rapporti classificati. Sostanzialmente, i filoni delle”rivelazioni” sono quattro e riguardano tutti i punti criciti della guerra in Afghanistan: le vittime civili; l’utilizzo modello far west delle forze speciali; il ruolo dei servizi segreti Pakistan; la guerra delle ied. A prescindere dal racconto che ne emerge (perchè a tratti si legge come un racconto fatto da inconsapevoli protagonisti) queste rivelazioni potrebbero essere ricordate più che per quello che rappresentano di per sè, come un colpo al governo americano già alle prese con non pochi problemi interni. Ovvero come una pietra tombale sull’idea che questa guerra si possa raddrizzare o come ritiene il generale Petraeus che la dottirna McChrystal sia sì buona ma applicata male sin’ora.
Resta ovviamente l’interrogativo sul che fare in Afghanistan, ma leggo in giro (come sul Financial Times di qualche giorno fa) che iniziano ad emergere soluzioni fantasiose come la scissione del sud, elemento base di un costituendo Pashtunistan. La confusione mi sembra essere l’unica certezza, ora che – applicata seppur parzialmente la nuova strategia di Obama – la situazione peggiora invece che migliorare e non c’è più nemmeno la speranza di un anno fa, ovvero che le nuove direttive, le nuove idee potessero capovolgere il quadro del conflitto.

Karzai, l’americano

Con la conferenza stampa di oggi alla Casa Bianca, dove persino le bandiere afghane sembravano più grandi o meglio illuminate, di quanto accade di solito in questi incontri, ha toccato il suo apice l’operazione mediatico-diplomatica voluta dall’amministrazione Obama in occasione della visita del presidente Karzai. In realtà gli americani sono preoccupati di ben altro che della visita del presidente afghano nel loro Paese (altro a cominciare dai disastri dei petrolieri), l’operazione di cui sopra è tutta rivolta a Karzai, a rassicurarlo, a mostrarlo in patria saldamente in sella, ed a ricucire legami sfilacciati dagli interventi maldestri degli americani da quando George W. Bush ha lasciato lo studio ovale.

Un’operazione che ha tanto di “afghano” nello stile cortigiano. Ad accompagnare il presidente in America, è stato l’ambasciatore americano a Kabul l’ex-generale Eikenberry, che aveva accusato Karzai di essere un alleato inaffidabile. Ad aspettarlo all’aeroporto c’era invece l’inviato speciale per l’Afghanistan, Holbroke, che nell’agosto scorso si era alzato da tavola durante una “colazione di lavoro” con Karzai lasciando dopo una furibonda lite sui brogli elettorali. Persino Eikenberry e il generale McChrystal, capo della missione militare occidentale in Afghanistan, si sono pubblicamente ossequiati anche se su molte cose del “programma” afghano la pensano diversamente. Prossima tappa del tour di Karzai, l’incontro privato con la Clinton; forse l’unica del gabinetto Obama con la quale pare che il presidente afghano abbia davvero un buon rapporto. Se dovessi usare un’immagine penserei al pendolo. Questa visita di Karzai – ricordiamolo – è stata messa in dubbio alcune settimane fa dalle uscite polemiche e anti-occidentali del presidente – autoclassificatosi come aspirante talebano – oggi invece segna una nuova oscillazione nelle posizioni della Casa Bianca (questa volta su posizioni iper-conciliatorie) che non riesce nè a liberarsi nè a fare a meno di Karzai. Chissà se, di oscillazioni, sarà l’ultima.

Karzai ha portato a Washington il suo piano, largamente anticipato, per la reintegrazione dei talebani e la fine del conflitto. Ho visto sui media italiani grande enfasi all’idea che Obama vuole fare la pace con i talebani, quando in realtà non mi sembra ci siano sostanziali novità su questo punto: il presidente Usa – a quersto giro – non ha cambiato la sua linea e continua a parlare di processo tutto gestito dagli afghani (che ne discuteranno non a caso nella peace jirga – la riunione tribale – prevista a Kabul a fine mese). Del resto sui media americani il “titolo” di questa conferenza stampa è la previsione di Obama di duri combattimenti nell’imminente futuro. Prossima fermata Kandahar.

Le platee del presidente

A quante platee stava parlando Obama quando ha annunciato l’aumento delle truppe in Afghanistan? Oltre ovviamente a quella che gli stava di fronte, l’elitè intellettuale delle forze armate americane, i cadetti dell’Accademia di West Point? È una domanda forse utile a capire quali fattori gravano su e condizioneranno l’impegno americano nel Paese.

Andiamo per ordine di prossimità. Obama per la prima volta (se la memoria non mi tradisce) ha parlato di una questione di primo piano in mezzo ai militari, che invece erano lo sfondo preferito da George W. (persino per parlare dell’uragano Katrina).
Obama ha parlato “ai” militari non li ha usati solo come scenografia, ha fatto sapere loro che gli sta dando le risorse idonee per combattere quella guerra, come aveva chiesto il gen. McChrystal (che si è subito detto soddisfatto e stamane è andato a visitare i punti caldi del fronte afghano, saltando purtroppo Herat per via del maltempo).

Obama ha parlato agli americani sempre più scettici su questa guerra; lo ha fatto ripartendo dall’11 settembre e dagli errori dell’Iraq, quantomeno per non perdere altri punti nei sondaggi.

Obama ha parlato ai Democratici, tanti dei quali non voteranno il rifinanziamento della missione, e ai Repubblicani, dei cui voti di conseguenza avrà bisogno in Parlamento.

Obama ha parlato ad Hamid Karzai e a Michael Moore (il regista che tanto l’ha supportato in campagna elettorale e che invece ora gli scrive una pesante lettera aperta). Ad entrambi ha fatto sapere che c’è già una data per il ritiro. Ovvero (a Karzai) ha detto qualcosa come: o ti sbrighi a fare bene il tuo lavoro o poi ti dovrai difendere con i tuoi corrotti alleati e funzionari che non sono all’altezza di difenderti. Mentre (a Moore) ha detto di stare tranquillo perchè si tratta solo di finire un lavoro iniziato male da Bush e senza impegni all’infinito.

Proprio George W. non aveva voluto mai fissare una data per il ritiro durante la campagna irachena, perchè lo considerava un errore tattico, un favore fatto al nemico (critiche che risuonano anche in questa occasione).

Obama ha parlato agli alleati europei, che poi sono sostanzialmente tre: italia, Germania e Francia. Tre paesi chiamati quantomeno ad avvicinarsi ad i numeri britannici, paese che tra crisi economicopolitica e forze armate sottoequipaggiate difficilmente potrà fare più di quello che sta già facendo in Afghanistan. La Spagna la escludo perchè sulla missione ha gli stessi imbarazzi dell’Italia di Prodi e quindi sta con un piede dentro e l’altro fuori. Sui numeri dei singoli paesi (per un incremento totale di almeno 5mila unità secondo Rasmussen) è troppo presto per sbilanciarsi vista la situazione fluida. Obama però da sempre dice che quella non è solo una guerra americana e agli europei ha fatto capire che se il suo paese è pronto a giocarsi tutti nella “tomba degli imperi”, qualcosa dovranno fare anche gli alleati, altrimenti Obama cederà proprio sul fronte interno e a quel punto dalla Nato partirà un effetto go-down senza precedenti.

Per quanto non possa esistere una guerra giusta, bisogna ricordare che il modello di economy of force di Rumsfeld in Iraq è stato un fallimento (chiedere al saccheggiato museo di Bagdad, mentre non c’erano americani a sufficienza nemmeno per dirigere il traffico nella capitale).
Obama inoltre nell’assumersi in proprio le responsabilità di quella che è ormai la sua guerra è stato coorente con gli impegni elettorali, inoltre ha fatto quello che i democratici chiedevano a Bush (una deadline per il conflitto, il 2011) e soprattutto ha preso un impegno a scadenza pochi mesi prima della campagna per la sua rielezione!

Come tutti questi fattori (i militari, l’opinione pubblica, i voti in parlamento, gli opinion-maker e i partner afghani ed europei) poi condizioneranno in futuro la strategia afghana delineata ieri, beh questo è davvero impossibile dirlo ora ma, per le sorprese lo spazio sembra tanto.