Tag: Bala Morghab

Per un pugno di pistacchi

Kabul, malintesa modernità np© 2010
Kabul, malintesa modernità np© 2010

 

Non so se sia illegale, in America lo sarebbe stato di sicuro, in Italia non so. Non me l’hanno chiesto in aereoporto, non me lo sono chiesto nemmeno da solo, per distrazione più che altro. Dal mio ultimo viaggio afghano ho riportato a casa un paio di chili dei miei pistacchi preferiti. Comprati da Salahuddin, nel suo negozio stracarico di frutta secca, pistacchi e mandorle nel cuore di Shar-e-Now a Kabul.
I pistacchi afghani sono magici, ogni volta che entri in casa – anche in quelle più povere – ti aspettano a terra in un piccolo vassoio assieme all’uva passa e a qualche caramella confezionata in Pakistan; novità recente, “del benessere” che ha soppiantato le caramelle artigianali vendute dai carretti per strada fino a qualche anno fa. Mentre la malintesa modernità segna le strade della capitale  assieme ai cantieri della speculazione edilizia, i pistacchi afghani vengono dal nord del Paese. Io amo quelli della provincia di Baghdis, dove crescono spontanei e sembrano quasi “foreste”. Sono più buoni di quelli iraniani che si riconoscono per la pennellata di giallo (zafferano?) sul guscio, qualcuno mi ha detto che una volta sono stati persino tra i protagonisti di Terra Madre a Torino. I pistacchi di Bagdhis costano più di quelli iraniani, devi insisterli per averli perchè si vendono con più difficoltà.
In Italia, li sguscio, li lavo e butto via una tonnellata di terra rossa, la polvere afghana che penetra dappertutto. Li offro agli amici o ci faccio un pesto che incanta tutti. Non sono salati i pistacchi afghani ma hanno più carattere, un gusto delicato ma più deciso di quelli italiani e mediterranei in genere, tanto che per un dolce non li userei mai. Insomma, sono quasi la sintesi di un Paese.

Che c’entra tutta questa storia sui pistacchi afghani con l’Afghanistan? Con la guerra? Con il corano bruciato? Con le sofferenze di un intero popolo? Beh, c’entra nella misura in cui a volte voglio pensare al Paese più bello del mondo per la sua bellezza, per l’ospitalità della sua gente, per i sapori regalati dalla fatica su terra desertica anche quando è fatta di pietre e non di sabbia. A Baghdis, c’è Bala Morghab, il fronte nord degli italiani, di quella provincia sentiamo parlare solo per i combattimenti non per “tesori” come questi. In quei pistacchi forse c’è una speranza per l’Afghanistan, come c’è nello zafferano, nei semi di sesamo, nei melograni, in un’agricoltura capace di ricostruire l’immagine di un Paese oltre che di sfamarlo.

Sabbia rossa

Operazione Sabbia Rossa ©Isaf 2011

E’ arrivata la primavera ma in Afghanistan non è solo una questione climatica, in luoghi come Bala Morghab (luoghi resi inaccessibili dalla neve in inverno) è l’inizio della stagione dei combattimenti. Puntuale è arrivata l’operazione Red Sand (sabbia rossa) condotta da uomini del 10mo cavalleria dello US Army, con il supporto dell’aviazione americana e degli italiani con compiti di osservazione, ovvero supporto agli scouts del Red Platoon nell’individuare i movimenti nemici. L’operazione, come raccontano le fotografie, è stata “pesante” soprattutto per quanto riguarda il supporto aereo, sono stati sganciate bombe GBU-38 (da 250 chili) e aerei B-1, bombardieri d’alta quota. Ed è consistita nell’uscire dalla cosiddetta bolla di sicurezza, l’area ritenuta sotto controllo da parte delle truppe occidentali, intorno alla Fob Columbus, fino a raggiungere una base talebana dove si producevano ordigni ied – racconta la nota dell’ufficio stampa Isaf. Diversi guerriglieri sono stati uccisi.

Al di là di come si sia svolta l’operazione (nella remota provincia di Badghis mancano fonti indipendenti), è evidente che ci

bombardamento sul bunker talebano ©isaf 2011
bombardamento sul bunker talebano ©isaf 2011

dice una cosa non secondaria, ovvero che (bolla o non bolla) la situazione nella valle del fiume Morghab resta ancora fuori controllo a quasi tre anni dall’arrivo della prima presenza stabile di militari occidentali. Bala Morghab è il fronte italiano più caldo, o almeno caldo come quello nell’ex-opbox Tripoli, a sud, sull’altro versante dell’area di operazioni Rc-West, a comando italiano. Nelle prossime settimane anche nella zona si completerà il dispiegamento della Folgore e vedremo altre operazioni del genere.


Ultima fermata, Gulistan

Mentre i vivi litigano, e se ne discute non senza ipocrisie, c’è voluta la sincerità delle parole lasciateci da un giovane caduto alpino per mostrare a chi si ostina a guardare il dito, tutto quello che c’è intorno. C’ho messo qualche giorno per scrivere questo post, perchè di solito evito di fare commenti “geopolitici” nei giorni destinati al lutto come purtroppo è stato l’ultimo del 2010. Nei giorni successivi poi, ho visto aprirsi una fisarmonica di eventi e dichiarazioni sulle quali mi sembrava il caso di riflettere.

Matteo Miotto ha scritto nel suo testamente di voler essere sepolto nella parte del cimitero di Thiene dedicata ai caduti di guerra. Sembra una decisione privata, per me sono parole di verità nella vicenda afghana. Al di là della facile retorica, dovrebbe spingere molti a spostare lo sguardo dal dito, a guardare a cosa quel dito stia puntando.
Matteo è morto in guerra, da professionista sapeva che c’era questa eventualità e l’ha scritto nel suo testamento. Non voglio riapre il discorso sulla natura della missione italiana, finiremmo con il parlare della Costituzione e perderci la sostanza ovvero che in Afghanistan si combatte una guerra e la politica (tutta) non si assume la responsabilità di dirlo al Paese. Di dire agli italiani che quella è una guerra, magari giusta (come ritiene il Premio Nobel per la Pace, il presidente Obama e – più implicitamente – tantissimi governi di mezzo mondo) ma null’altro che una guerra.

Quanto sia importante questa verità l’abbiamo capito nei giorni successivi alla morte di Matteo, in una vicenda dove quella decisione di un giovane alpino diventava sempre più altamente simbolica, proprio ora e mai come ora.
Il ministro La Russa arrivato ad Herat la sera del 5 gennaio, racconta che Miotto non è morto come inizialmente detto (colpito da un cecchino) ma colpito durante un attacco “multiplo” alla sua base. Due scenari ben diversi. La Russa polemizza con i militari che l’hanno informato tardi, parla del “riflesso di un vecchio metodo, di cercare di indorare la pillola della realtà dei fatti, di dire la verità ma nel modo più indolore possibile” – ovvero riapre la polemica con il metodo del governo Prodi (che poi proprio sull’Afghanistan scivolò la prima volta). Oggi sul Corriere della Sera, la smentita del Capo di Stato Maggiore, il generale Camporini apre uno scontro senza precedenti tra i vertici civili e quelli militari delle forze armate. Il ministro La Russa deve convocare in mattinata una conferenza stampa per ricucire lo strappo con le stellette.
Qualcuno mi sembra provi a leggere lo scontro secondo le categorie dell’italico “politichese”. Qualunque cosa sia successa l’ultimo giorno dell’anno nel Gulistan (e molti dubbi continuano ad esserci), queste onde “telluriche” altro non sono che frutto del peso dell’Afghanistan; qualunque entità metta le mani in quel Paese – lo dice la storia – si ritrova profondamente destabilizzata, solo negli ultimi tempi penso alle dimissioni del governo olandese o a quelle del presidente tedesco. Ora sbattono le porte di Palazzo Baracchini, la sede del Ministero alla Difesa, a Roma.

L’altra cosa a cui punta il dito, lo stesso dito dal quale gli occhi non riescono a staccarsi, è un distretto della provincia di Farah. Si chiama Gulistan, il posto dei fiori in lingua dharì, sempre più – drammaticamente – fiori di lutto per gli italiani. Dal primo settembre i nostri militari sono arrivati per estendere la presenza del governo di Kabul, tradotto per tagliare le retrovie dei talebani che nella confinante provincia di Helmand, la loro roccaforte, sono sempre più messi alle strette dalle massicce operazioni anglo-americane, ma hanno bisogno della strada della droga e della strada della ritirata verso il nord. Fino ad agosto l’op-box Tripoli ovvero una parte della provincia di Farah, Gulistan compreso, era in mano agli americani più del doppio dei 350 italiani che hanno preso il loro posto, asserragliati in tre fortini, chiaramente pochi per il compito loro assegnato e per dedicarsi ad un territorio così vasto.
Dal primo settembre i sei caduti riportati dagli italiani sono morti qui, cinque in Gulistan, uno nel confinante distretto di Bakwah. C’è bisogno di dire altro per capire che inferno sia quella zona in passato terreno solo delle forze speciali per brevi raid? Un terreno tutto da “riconquistare” dove solo poche settimane fa sono arrivati i primi militari afghani (anche per questo gli italiani finiscono con l’essere pochi). In confronto l’estensione della “bolla di sicurezza” di Bala Morghab corre il rischio di sembrare una passeggiata.
E siamo ancora in inverno, da marzo in poi la situazione – è facile prevederlo – si farà sempre più difficile, all’epoca in campo sarà schierata la prima aliquota di parà della Folgore che quest’anno copriranno il turno estivo (da aprile) della missione italiana.

Penso alla visita del generale Petraeus e del generale Camporini, il giorno di Natale, proprio a Bakwah. Rileggo i comunicati, quello in italiano dove spicca questa frase “Bakwah è una delle aree dove maggiormente si concentrano gli sforzi degli italiani nell’implementare la sicurezza, di concerto con i militari afghani. Sicurezza che i cittadini percepiscono di giorno in giorno e che va di pari passo con la fiducia nel lavoro delle forze di coalizione.” Quello destinato ai media internazionali (scritto in inglese), dove all’incirca nello stesso punto compare invece questa frase: “Bakwa is one of the more volatile areas in RC-West, and the Soldiers based there often engage insurgents in kinetic activities.” Ovvero “Bakwa è una delle aree più instabili dell’RC-West, i soldati di stanza qui spesso combattono con i ribelli”. Li rileggo e penso a quanto siano pesanti le parole di verità scritte da un giovane alpino morto a migliaia di chilometri da casa, scritte da chi pensa a dire le cose come stanno non all’effetto che le sue parole potranno produrre.

Purtroppo penso anche a cosa saranno i prossimi mesi nell’infero del Gulistan.

Fare Scuola

Posa della prima pietra - Scuola "Ramadù - Pascazio"
Posa della prima pietra - Scuola "Ramadù - Pascazio"

Mentre, lunedì, a Bala Morghab il convoglio italiano finiva sotto attacco, più a sud nella provincia di Herat, quasi in contemporanea, il Prt italiano posava la prima pietra di una scuola. Verrà intitolata al sergente maggiore Massimiliano Ramadù e al caporal maggiore scelto Luigi Pascazio, i genieri della brigata alpina Taurinense uccisi proprio in quell’attacco. La notizia è arrivata dal comando italiano, poco dopo la fine dei funerali dei due caduti. Gli americani di solito intitolano ai caduti le loro basi (Fob Tillman, Camp Blessing…), gli italiani hanno scelto una scuola – mi sembra una differenza non da poco, al di là della retorica della missione di pace a cui ormai non crede più nessuno. Un gesto che, tra l’altro, forse contribuirà anche a dare un po’ di sollievo a famiglie dei due alpini, il cui dolore sarà comunque incancellabile.
Mi ha fatto piacere leggere quel comunicato – subito dopo, però, ho provato a guardare al 2020 o forse solo al 2015. Mi sono chiesto che cosa sarà di quella scuola tra dieci anni? Qualcuno in Afghanistan proverà a leggere quei due cognomi stranieri pensando a quello che hanno contribuito a fare per il loro paese o il tempo, la guerra, il caos avranno intanto cancellato tutto? Insomma mi chiedo quanto durerà la guerra e cosa resterà di quello che gli occidentali stanno facendo, nel bene e nel male, in Afghanistan. Sarà il dolore per queste due nuove vittime italiane, per gli altri occidentali che continuano a morire in giro per il paese, per le tante vittime afghane che “non fanno notizia” ma ogni giorno è sempre più difficile credere che il 2013 sia un obiettivo realistico per la fine della guerra.

Bala Morghab, la Korengal italiana

Fob Columbus Bala Morghab np©2008
Fob Columbus Bala Morghab np©2008

No attenzione, leggete bene il titolo…non sto paragonando Bala Morghab per intensità dei combattimenti o per numero di caduti alla valle di Korengal, la valle della morte (da poco abbandonata dagli americani nella provincia di Kunar ). Del resto il sergente Massimiliano Ramadù e il caporal maggiore Luigi Pascazio, uccisi oggi da un’IED mentre si avvicinavano in convoglio alla Fob Columbus, sono le prime vittime imputabili direttamente a quella valle. Sin’ora Bala Morghab aveva visto solo feriti e tanti militari italiani miracolati (salvati da una mano invisibile o da un paio di millimetri di kevlar dell’elmetto), purtroppo oggi non è andata così.

Sono altre le affinità tra Bala Morghab e Korengal, affinità logistiche potremmo forse chiamarle. Bala Morghab non è un’area densamente popolata, proprio come la “maledetta valle” e quindi poco ha a che fare con la nuova strategia McChrystal (più uomini per garantire sicurezza alla popolazione, non per controllare l’estensione del territorio); come Korengal ha una posizione remota dove persino portare una bottiglia d’acqua è un gran problema (l’estate scorsa la nostra aeronautica ha ricominciato gli aviolanci di materiali, sospesi dai tempi del Kurdistan). Un posto isolato dove fare arrivare una colonna di blindati per l’ordinario cambio di compagnia (alternanza inclusa tra spagnoli e italiani) o un convoglio di camion per ricostruire un ponte è un’operazione complessa che impegna centinaia di uomini, esponendoli al rischio di attacchi. Soprattutto Bala Morghab come Korengal è un posto dove bisogna in qualche modo volerci andare, non è tipo Delaram uno di quegli “incroci” dove non puoi fare a meno di passarci. E’ vero che sulle mappe c’è una striscia che arriva da Qal-e-Now (sede del Prt spagnolo, i cui uomini fanno fatica a muoversi al di là della periferia cittadina) fino a lassù, ma quella “striscia nera” nonostante abbia lo stesso nome (“ring road”) con l’autostrada numero uno ha poco a che fare visto che in realtà è poco più di un budello – attraversarla incolumi d’estate è un’impresa ma passarci con la pioggia o la neve è un record da raccontare ai nipoti.

Ma allora che ci stiamo a fare lassù? La risposta come al solito in Afghanistan non è semplice nè univoca, cercatela voi tra questa serie di fatti che provo ad elencare. Bala Morghab è un’enclave pasthun in territorio tagiko, negli anni ’90 – anche se in pochi lo ricordano o lo citano – è stata la base talebana per lanciare l’attacco su Mazar-i-Sharif, la più grande città del nord. Altrettanto pochi ricordano una scena svoltasi da queste parti, replicata oggi da stauette di gesso nel museo della jihad di Herat – era il 1979 e dopo la rivolta di Herat, Ismail Khan riunì lassù quelli che sarebbero stati i comandanti della jihad anti-sovietica nell’ovest del Paese.
In questa fertile piana di oppio non se ne produce tantissimo in valore assoluto ma buona parte dei cinquemila ettari della provincia coltivati a papavero sono concentrati nel distretto di Bala Morghab, produzione cresciuta dell’822% dal 2008 al 2009 (segno di quanto precari e controversi siano gli effetti della presenza occidentale sull’industria della droga). Del resto se voi foste un contadino con il confine a due passi, forse non ci pensereste due volte a buttarvi nel business…un business che aggiunge ai talebani la forza (e i soldi) dei trafficanti. Da Bala Morghab si arriva diritto diritto in Turkmenistan ma soprattutto a Gormach, passaggio chiave nella mobilità tra est ed ovest nell’Afghanistan del nord.

Bala Morghab np©2008
Bala Morghab np©2008

L’ex-cotonificio oggi trasformato nell’avamposto (Fob) Columbus è uno degli ultimi segni della presenza sovietica nell’area, ultimi militari stranieri insediatisi nella zona. Dopo il loro ritiro, vent’anni dopo, qui si sono visti (nel post-2001) a volte qualche pattuglia tedesca e pare anche dei norvegesi. Nell’agosto del 2008 arrivarono gli italiani, accolti con quattro giorni di battaglia, io ci sono arrivato ai primi di settembre e le condizioni di vita per i militari dell’Aeromobile mi sono sembrate poco diverse da Korengal, alberi secolari a parte ma le risaie sono perfette lo stesso per sparare nella base. Da allora in poi si è andati avanti tra operazioni per “aumentare” la bolla di sicurezza, civili in fuga, tregua con i ribelli (vedi elezioni presidenziali del 2009, la prima tregua elettorale ufficialmente siglata dal governo), capi talebani arrestati, liberati e poi uccisi dai predator senza pilota. Benvenuti a Bala Morghab, la Korengal italiana…se mi passate il paragone.

Macabra cabala

La notizia la conoscono tutti, l’abbiamo racconta oggi nei Tg, ha riempito il web e domani i quotidiani di carta. Altri due militari italiani sono morti in Afghanistan, due invece sono feriti seriamente ma vivi per miracolo; in primis il mitragliere del mezzo Lince sbalzato dall’esplosione di una IED, venticinque chilometri a sud di Bala Morghab. I numeri mi hanno sempre affascinato, forse perchè li guardi e ci puoi vedere di tutto, anche quelli che sembrano messaggi del destino. Oggi sono passati esattamente otto mesi dalla strage di Kabul, quella che ho vissuto in prima persona, con 6 parà uccisi e oltre dieci civili fatti a pezzi da un’autobomba. 17 settembre – 17 maggio e rieccoci a parlare di morti. I numeri martellano di nuovo la tragedia dei nostri alpini, 32esimo reggimento Genio, Brigata Alpini Taurinense. Massimiliano Ramadù di Velletri (Rm) e il caporalmaggiore Luigi Pascazio, di Bitetto (Bari) non lo sapranno mai ma la loro morte segna anche un traguardo simbolico che pesa come un macigno sulla missione Isaf, con il loro sacrificio sale a quota 200 il numero dei militari stranieri uccisi in Afghanistan dall’inizio dell’anno – mai così tanti nei primi cinque mesi dell’anno, un triste record all’insegna dell’assunzione algebrica: più soldati, più presenza sul territorio, più attacchi e quindi…più vittime. Bastano poche ore a fare di questa soglia simbolica nient’altro che acqua passata, mentre scrivo siamo già arrivati a 202. Cosa ci vorranno dire i numeri? Beh questa volta non ci vuole un Dan Brown di turno o un Pitagora moderno per capirlo.

Mazzette ai talebani, la seconda puntata

Il Times di Londra non molla, in ossequio alla sua tradizione (quella di uno dei giornali più prestigiosi ed indipendenti del mondo) pur di fronte alle smentite del governo italiano (che vi ha aggiunto una minaccia di querela), della Nato e dei diretti interessanti (i francesi); oggi il quotidiano britannico pubblica una seconda puntata (qui il link) alla sua denuncia di presunti pagamenti alla guerriglia effettuati dai servizi italiani per comprarsi un po’ di pace nelle aree di operazione delle nostre truppe.

Ieri l’articolo provava a smontare uno dei casi di maggior successo dell’Isaf in Afghanistan, quello di Sorobi (vedi la sintesi in un post di questo blog), affermando che in realtà la pace era stata comprata per giunta senza dirlo agli alleati, causando così indirettamente la strage dei parà francesi appena subentrati agli italiani nell’agosto del 2008.

Oggi, invece amplia il fenomeno estendendolo anche al Rc-West, in pratica all’area dove è concentrato il grosso delle nostre truppe con base ad Herat ma attive anche nelle due difficilissime province di Bala Morghab e Farah. Secondo l’articolo di oggi (vedi una sintesi in italiano qui):

A Taleban commander and two senior Afghan officials confirmed yesterday that Italian forces paid protection money to prevent attacks on their troops.

Mr Ishmayel said that under the deal it was agreed that “neither side should attack one another. That is why we were informed at that time, that we should not attack the Nato troops.” The insurgents were not informed when the Italian forces left the area and assumed they had broken the deal. Afghan officials also said they were aware of the practice by Italian forces in other areas of Afghanistan.

A senior Afghan government official told The Times that US special forces killed a Taleban leader in western Herat province a week ago. He was said to be one of the commanders who received money from the Italian Government. A senior Afghan army officer also repeated the allegation, adding that agreements had been made in both Sarobi and Herat.

Non sono in grado esprimermi sulle accuse del Times
(per giunta rivolte ai servizi più che ai militari italiani), di certo appaiono surrogate da fonti diverse e citano persino intercettazioni telefoniche dei servizi americani, ma è altrettanto sicuro che nell’ovest soprattutto negli ultimi sei mesi (ma ricordiamo anche la scorsa “calda” estate con l’Aeromobile nelle stesse zone) gli italiani sono stati in combattimento quasi ogni giorno, che è un elemento sicuramente contraddittorio rispetto al quadro delineato da questi articoli.

Un’osservazione personale. Fermo restando che la tentazione che potrebbe emergere è quella di derubricare tutto alla voce “pessimi rapporti tra Berlusconi e la stampa internazionale” (insomma che piuttosto di affrontare la questione si dica che è solo frutto di screzi e dispetti) e che, comunque, gli effetti sull’immagine internazionale del nostro premier (quello che lui stesso ha definito lo “sputtanamento”) dopo la vicenda escort, non aiuti a dare forza alle pur categoriche smentite governative. Secondo me il punto di tutta questa storia è però un’altro: c’è bisogno di chiarire tutto e farlo subito, non solo per motivi di decoro nazionale (…perdita della faccia…mettiamola così) ma soprattutto perchè i militati sul campo, quelli che rischiano la vita ogni giorno, possono essere seriamente penalizzati da una storia del genere se non chiarita o lasciata (italicamente) perdere per essere poi dimenticata. Chi si trova in prima linea con addosso accuse del genere rischia di non essere più considerato un buon alleato da chi combatte al suo fianco (afghani, americani, francesi, spagnoli che siano) ovvero rischia di ritrovarsi “isolato” e quindi rischia di rischiare molto di più.

Foto-grafie

Scrutatrice in un seggio elettorale a Kabul - agosto 2009 ©np
Scrutatrice in un seggio elettorale a Kabul - agosto 2009 ©np

Ho aggiunto al blog una nuova pagina, quella delle foto…per vedere basta cliccare qui oppure su uno dei tab, le “linguettine” che compaiono sulla home pagina, sotto la foto di testata. All’interno della pagina ci sono una serie di link che portano direttamente al mio spazio su flickr.com il sito “fotografico” dove conservo il mio materiale, c’è anche un link a fine pagina che porta a tutto l’elenco dei “set”, le gallerie tematiche nel caso a qualcuno potesse interessare.

Il tabù dei talebani uccisi

Nell’edizione delle 19 del Tg3 di oggi è andata in onda un’intervista al Generale Rosario Castellano, il comandante della Folgore nonchè comandante dell’Rc-West, il quadrante nord-occidentale della missione Isaf in Afghanistan. L’ho girata alcuni giorni fa ad Herat, con il collega Mario Rossi. Potrei sbagliarmi, ma sono quasi sicuro che è la prima intervista in assoluto in cui un alto ufficiale italiano affronta il tema dei talebani uccisi in Afghanistan da truppe italiane. Ad una mia precisa domanda sul punto, Castellano ha risposto “parecchi, parecchi” pur senza fornire numeri precisi. Un’affermazione (senza compiacimento) seguita da una puntualizzazione, ovvero quella che l’obiettivo non è ammazzare talebani in quantità ma raggiungere obiettivi strategici (per esempio, eliminare un capo talebano in maniera tale che la popolazione locale si senta più libera).

Mi sembra si tratti di un fatto (l’intervista su questo tema) da rimarcare perchè rompe un tabù e segna un progresso nella trasparenza sulla missione italiana in Afghanistan. Anche l’anno scorso (per esempio a Sorobi ma anche nella parte occidentale del paese) sono stati uccisi talebani vuoi da azioni degli elicotteri d’attacco Mangusta, vuoi durante vere e proprie battaglie. Quest’anno (con riferimento alla battaglia di Bala Morghab a giugno) è stato emesso quello che, a mia memoria, è il primo comunicato ufficiale nel quale si parlava di: “In a three-hour action, ANA forces supported by ISAF killed and wounded a significant number of insurgents near Bala Murghab valley”. Un “numero significativo” che poi si saprà (informalmente) essere pari ad oltre novanta vittime.

Gli americani, per esempio, hanno una contabilità molto attenta delle perdite inflitte al nemico. Gli italiani spesso (ed è una novità dell’ultimo anno dopo il silenzio di quelli precedenti) si limitano ad usare termini come “neutralizzato” od “eliminato” in riferimento ai ribelli. Non vorrei essere frainteso (parlando di questioni militari è un rischio che si corre spesso) non sto dicendo che bisogna vantarsi delle vittime lasciate sul terreno ma da giornalista ritengo che, soprattutto in una situazione come quella afghana dove non è consentito seguire le truppe italiane in “embed”, quanta più trasparenza si raggiunge in termini “fattuali” sugli episodi di combattimento meglio è.  Meglio per l’opinione pubblica, meglio per il mondo politico, meglio per gli stessi militari. Meglio per l’informazione come valore indispensabile di una democrazia affinchè ognuno possa farsi la propria idea e giudicare quello che sta succedendo davvero in Afghanistan.

Bala Morghab e oltre…

La guerra degli italiani. Le notizie del giorno: un parà del “Nembo” ferito a Bala Morghab, un militare afghano morto nella stessa imboscata; parà italiani intervengono a Farah in difesa di un avamposto afghano sotto attacco (due i caduti afghani); sempre a Farah operazione della folgore contro un un gruppo di “fabbricanti” di IED (bombe per agguati esplosivi) con quattro presunti talebani arrestati e un vasto deposito di munizioni sequestrato…

Cosa ci dicono notizie come queste che si ripetono con frequenza sempre più alta? E’ ormai chiaro,  che all’interno di Rc-West, il quadrante Isaf a guida “tricolore”, si combatte quasi ogni giorno. Per inciso, è ormai chiaro nonostante la malaugurata assenza di fonti indipendenti sul campo; le notizie italiane di fonte militare – va detto – sono ben più prodighe di dettagli che in passato, ma sono pur sempre notizie “ufficiali” senza riscontro indipendente.
Nell’ultimo anno si è lavorato per preparare il campo a questa svolta (per esempio allestendo nuove Fob, basi operative avanzate e preparando la costituzione del secondo Battle Group) che la Folgore sta attuando ormai a tutto campo; ma nel contesto sta pesando (come racconta Gianluca di Feo in questo articolo su l’Espresso) l’arrivo delle nuove truppe americane che stanno consentendo ai nostri militari di concentrarsi su alcune specifiche aree della sempre più calda provincia di Farah mentre è chiaro che Bala Morghab è sempre più un punto chiave nella strategia dell’Isaf (che qualche giorno fa ha emesso un comunicato senza precedenti in cui parlava di “vittoria decisiva” raggiunta nella zona…intanto però si continua a combattere per “eliminare le sacche di resistenza residue”…a proposito di assenza di fonti indipendenti…sull’operazione a Bala Morghab si segnala però questo video de El Mundo, girato al seguito ovviamente degli americani)
Emerge, a questo punto, il dato di una missione ormai sempre più “combattente” che dovrebbe essere chiarito per mille buoni motivi…

La Guantanamo d’Afghanistan. Quante volte un taxi si è diretto verso il “dark side”? La parafrasi del titolo del grande documentario (da poco distribuito in Italia) sulla sorte dei prigionieri in quella che è considerata la Guantanamo d’Afghanistan, ovvero il carcere all’interno della base di Baghram, serve a segnalare questa inchiesta della Bbc che ne ha intervistato un certo numero confermando la sinistra fama della struttura di detenzione, il cui ruolo è amplificato in un paese con poche carceri e senza un vero sistema giudiziario.

Kunduz “precipita”. Da qualche giorno suona la sveglia a Kunduz, gli attacchi e le uccisioni di soldati tedeschi (tre ieri) testimoniano quanto e quanto rapidamente sia cambiata la situazione in una provincia sin’ora tutto sommato tranquilla (personalmente l’anno scorso l’ho visitata da solo, senza particolari misure di sicurezza). E’ un segno preoccupante per la stabilità del Nord (in questo caso Nord-est, ma il Nord-ovest “italiano” non fa eccezione) che è già stato strategico in passato per la conquista del paese da parte della guerriglia. Ma è anche un segno che a breve la Germania (sin’ora aspramente criticata, seppur a bassa voce, per l’impiego “soft” del suo contingente militare) dovrà fare i conti con la missione afghana e con il ruolo dei suoi militari che a breve saranno oltre quattromila.

“Rotte” Logistiche. Alla fine tra l’amarezza e le critiche russe (Mosca ci aveva puntato molto), Kirghizistan e gli Usa hanno siglato la pace sulla base di Manas (fondamentale per la logistica afghana e per il rifornimento in volo) che non si chiamerà più base ma…scalo merci…