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Troppo pochi

La guerra in Afghanistan ricomincia, verrebbe da dire, se non fosse che non è mai finita. Diciamo che ricomincia per l’America, che già spende 23 miliardi di dollari l’anno per la missione afghana con un dispiegamento di circa 8000 unità. L’amministrazione Trump si prepara a mandare altri 3000 uomini. a tagliare i caveat al loro utilizzo al fianco delle truppe afghane (“taglio” delle restrizioni già cominciato con Obama) e a cancellare i limiti all’uso dei bombardamenti (l’indiscrezione poi confermata, è del WP). La decisione finale è attesa dopo il summit della Nato del 25 maggio, ma è evidente che Washington si aspetta un aiuto dagli alleati. Solo per la cronaca ricordiamo che l’Italia è il secondo Paese contributore alla missione “Resolute Support”, missione che formalmente ha compiti di addestramento delle forze di sicurezza afghane.

La svolta matura in un quadro complesso, del quale sono pubblici sostanzialmente solo due elementi: le altrettante richieste dei vertici militari (il capo della missione afghana e il generale che guida il comando delle forze speciali) di avere più truppe sul campo.
Gli elementi da valutare sono però molteplici:  Continua a leggere “Troppo pochi”

Sabato notte, il reportage “Ritorno a Kunar”

Kunar, postazione americana di mortai np©09

“Ritorno a Kunar” è il titolo del reportage girato con il collega Gianfranco Botta nella valle del fiume Pech, provincia di Kunar, Afghanistan orientale, che andrà in onda sabato 23 gennaio su RaiTre, alle 0.45.

La valle è un corridoio naturale di collegamento con il Pakistan, un’area strategica per il controllo militare e la sicurezza di gran parte dell’Afghanistan sul versante orientale. I militari la chiamano “area altamente cinetica”, una definizione rassicurante per dire che questa è l’area dove si combatte di più di tutto il paese. E’ un’area dove si gioca una partita cruciale per il successo della strategia McChrystal (quella sulla base della quale Obama ha deciso di aumentare drasticamente il numero dei militari americani in Afghanistan). Strategia basata sul tentativo di coinvolgere la popolazione civile, rafforzare le istituzioni locali e dare alla gente quello che i guerriglieri non possono dare ovvero la

Postazione mortai - fob HM valle del fiume pech, provincia di Kunar

ricostruzione del paese: strade, ponti, scuole, lavoro.

Il reportage è un documento esclusivo che racconta di una guerra di cui si parla ormai tutti i giorni sui giornali e in tv ma che è per buona parte invisibile perchè si svolge in aree remote, spesso inaccessibili. E’ stato girato nel settembre del 2009 (quindi nel pieno della “fighting season”) ed è una sorta di seguito del reportage girato nella stessa area, nel marzo del 2008, sempre con il collega Gianfranco Botta, rispetto al quale abbiamo anche potuto formulare un giudizio sull’andamento delle cose.

Il racconto mostra buona parte delle difficoltà e delle contraddizioni
del conflitto afghano. In primo luogo il confronto (imboscate, bombardamenti) con un nemico invisibile capace di “colpire e scappare” mettendo in crisi la mastodontica macchina militare americana. Ma mostra anche luoghi bellissimi che sembrano fermi al Medio Evo ed i tentativi di vincere il supporto della popolazione civile.

Agenda del Mondo — Sabato 23 gennaio ore 045 RaiTre

La guerra in-giusta

Non sono tra quelli che ironizzano sull’assegnazione di un premio Nobel per la Pace ad un presidente di guerra qual è ormai a tutti gli effetti Obama, ma sono rimasto molto perplesso dalla scelta del presidente americano di avventurarsi – nel suo discorso alla cerimonia di consegna del premio – nella teorizzazione di una guerra giusta. Perplesso, non solo perchè gli è mancata l’originalità.
Non ho nè lo spazio nè le competenze per affrontare una dissertazione sulla guerra giusta nella storia dell’umanità, per cui mi limito a  mettere in evidenza che nei secoli si fatica a trovare una guerra non giusta o definita “ingiusta” da chi l’ha vinta o l’ha iniziata. (per una rapida puntata su questo argomento vedi questo blog del NY Times)
Capisco che stretto tra le contraddizioni del suo mandato, il Presidente non aveva forse alternative per uscire dall’imbarazzo di ritirare il premio con le mani ancora sporche dell’inchiostro servito ad autorizzare pochi giorni prima un nuovo aumento delle truppe in Afghanistan. Nonostante ciò rispolverare il concetto tanto caro al suo predecessore, il presidente Bush, è stato secondo me un errore, soprattutto se si considera ch,e parlandone, Obama si riferiva specificamente alla guerra in Afghanistan. (Qui il testo integrale del discorso).

Obama ha circoscritto il campo della guerra “giusta” al conflitto con questi requisiti: ultima risorsa o conflitto di auto-difesa, uso proporzionale della forza e , quando possibile, conflitto capace di risparmiare i civili. Sono obiettivamente paletti molto stretti ma io personalmente avrei preferito che si partisse dall’ammissione che ogni guerra è strutturalmente ingiusta. Al massimo ci possono essere guerre giustificate o giustificabili; altre invece sono assurde, ovvero giustificabili solo in privato (come quella in Iraq, fatta e/o per il petrolio e per il desiderio di Bush figlio di rivalsa sul padre) mentre in pubblico vengono motivate con precarie bugie (le armi di distruzione di massa, le hanno trovate poi?) o grida che coprono la ragione e le ragioni.

La guerra è strutturalmente ingiusta perchè è inevitabile che anche solo una famiglia venga macellata da un proiettile di mortaio caduto nel posto sbagliato o che un bambino venga uccisa perchè l’auto di suo padre si è avvicinata troppo ad un convoglio militare o che anche un solo soldato vada a morire per pagarsi il mutuo di casa o che un disperato si faccia esplodere per lasciare mille dollari ai parenti. E la guerra in Afghanistan con il suo inaccettabile tributo di civili, con la sua inestricabile spirale violenta da manuale della guerriglia, con la morte che arriva inaspettata in posti che non sono un campo di battaglia…beh, il conflitto in Afghanistan è un monumento alla naturale ingiustizia della guerra che non è mai come ce l’immaginiamo, lo scontro epico tra gruppi di guerrieri, ma è un casino nel quale spesso non si riesce a vedere la porta d’uscita.

Obama ha ammesso l’inevitabilità delle guerre, almeno in attesa della prossima kennedyana evoluzione istituzionale e sociale.
Sarà pure amaro e cinico realismo, ma come dargli torto? Ma se è così – ed è così – questa prova di realismo avrebbe meritato il bis ammettendo che “sì le guerre sono inevitabili”, che “sì cerchiamo di fare solo quelle che proprio non possiamo evitare” ma anche che la guerra è un “organizzazione” profondamente ingiusta.
Solo questa ammissione – a mio avviso – può mettere un politico come Obama che sta gestendo una guerra non avviata da lui e che, probabilmente, non poteva non continuare nei termini appena decisi, in condizione di farla durare il meno possibile. E’ questo l’unico risultato giusto di ogni guerra ingiusta, farla durare il meno possibile.

Per il resto, entrando nel merito del premio, francamente non penso che quella del comitato di Stoccolma sia stata una stravaganza di un gruppo di europei “liberal-progressisti”, per usare una “garbata” sintesi in stile “FoxNews” (dove tutti gli aggettivi sopra usati, sono considerati offese) nè mi iscrivo tra le fila dei progressisti delusi dal presidente americano, che lo sono per lo più perchè non hanno ascoltato o hanno fatto finta di non capire i discorsi elettorali di Obama che della guerra in Afghanistan aveva fatto uno dei punti chiave del suo programma elettorale non meno della riforma sanitaria.

Obama ha vinto sia un premio Nobel sulla fiducia (ovvero rivolta al futuro della sua presidenza) che alla sfiducia, quella generata dall’amministrazione Bush che ha isolato l’America, scatenato l’assurda guerra in Iraq e spaventato talmente il mondo che vedere una persona alla Casa Bianca considerare il dialogo come prima opzione per affrontare una crisi diventa un fatto da record, da premiare appunto. Che poi il premio arrivi pochi giorni dopo l’annuncio del premiato di inviare altre 30mila unità a combattere una guerra che è un gran casino, beh mi sembra faccia parte delle contraddizioni di un mondo dove è sempre più difficile definire con nettezza i valori, i ruoli e gli schieramenti.

Forse (da qualche parte lassù) sarà felice Alfred Nobel, inventore della dinamite, il cui cognome viene quasi sempre citato per questo premio, ovvero per il suo contributo alla pace nel mondo.

Addio alla valle della morte

Korengal, postazione mortai np©08
Korengal, postazione mortai np©08

La fob e le firebases nella valle di Korengal dovrebbero chiudere a gennaio; quella “maledetta valle” il luogo più iconico e dannato della guerra in Afghanistan verrà presto abbandonato dalle truppe americane. La cosa non sarà indolore e presumibilmente la destra repubblicana monterà non poche polemiche sulla strategia Obama in Afghanistan. La valle di Korengal è uno dei paesaggi montani più belli del mondo ma anche una valle (in realtà una sorta di frattura in mezzo a montagne altissime) dove si registrano i combattimenti più intesi di tutto l’Afghanistan, poco distante dalla valle del fiume Pech, nella provincia di Kunar.

Korengal è diventata famosa perchè lì è possibile “vedere” combattimenti che solitamente avvengono in ambienti e con modalità ben diverse. E’ l’ambiente montano che lo consente ed è ha “favorito” giornalisti, fotografi e crew televisive che ne hanno fatto il simbolo di un conflitto. Qui è stata scattata – un esempio su tutti – la foto che ha vinto il world press award del 2007, quella di Tim Hetherington sulla stanchezza di un uomo, la stanchezza di una nazione. Personalmente, sono profondamente legato alla valle di Korengal per le emozioni di una straordinaria esperienza umana e professionale che lì ho vissuto nel 2008 con il collega Gianfranco Botta del Tg3. Tra l’altro e’ stato un privilegio andarci e quest’anno eravamo stati “ammessi” di nuovo ma l’elicottero che doveva portarci lì sù aveva un ritardo di soli tre giorni…Un privilegio perchè la popolarità della valle è diventata tale che tutti gli embed in Rc-East ci vogliono andare ma troppi vengono considerati “trouble-maker” dai militari (ragionamento fatto in via informale dai comandanti sul campo), ovvero gente che cerca l’azione per l’azione (leggi i combattimenti) e che quindi potrebbe mettere a rischio non solo se stessi ma soprattutto gli uomini che accompagnano.

La notizia su Korengal l’ho appresa da fonti militari durante il mio embed con la 4rta divisione di fanteria nel settembre scorso, non c’è conferma ufficiale al riguardo ma si tratta di un passo in una strategia più ampia, che nei giorni scorsi ha già riguardato alcuni avamposti nel Nuristan, chiusi. Strategia che viene ben descritta da questo articolo del NY Times di oggi. In pratica, McChrystal vuole concentrarsi sulle zone ad elevata densità di popolazione per garantire loro sicurezza, per esempio nell’afghanistan orientale su Jalalabad e la sua provincia.

Tenere uomini in piccoli e remoti avamposti significa affrontare incredibili problemi logistici (rifornirli è possibile solo con gli elicotteri ed sempre più complicato via via che la guerriglia diventa più forte), esporre i soldati in una sorta di fort Alamo permanentemente sotto attacco e poi soprattutto non cambiare la vita di valli che da secoli sono isolate e vogliono restare isolate. Valli dove per giunta controllare il terreno (ostile e scosceso) è impossibile o meglio ci vorrebbero il quadruplo degli uomini impegnati…altro che una compagnia o un plotone! Insomma il gioco ormai è quello a valorizzare il rapporto tra unità combattenti per numero di abitanti, abbandonando valli che la guerriglia – senza dubbio – usa come rifugi, ma dove con o senza avamposti la situazione cambia poco e la gente non si schiera e forse non si schiererà mai con il governo, un concetto estraneo in luoghi tanto remoti.

Queste aree remote verrebbero sorvegliate da droni e operazioni di forze speciali, in pratica replicando il modello (sin’ora di parziale successo) degli attacchi ai campi di Al Qaeda in Pakistan. Unica eccezione al rapporto tra numero di abitanti e truppe, sarà la valle dell’Helmand ritenuta troppo strategica (fonte di oppio e chiave per il controllo degli spostamenti nella zona). E’ evidente che tutta questa strategia non potrà essere attuata senza un aumento consistente delle truppe proprio come chiede McCrhrystal.

Ad integrazione di questo articolo segnalo questo pezzo del Washington Post che racconta come alla Casa Bianca il ragionamento sul numero di truppe aggiuntive da mandare in Afghanistan si stia basando proprio sull’analisi del territorio e la distribuzione della popolazione nelle diverse province