Passando davanti allo stadio “olimpico” di Kabul, mi è sempre piaciuta Shamshad, l’unica tv al mondo al cui esterno sono esposti elicotteri e aerei, residuati bellici della guerra ai sovietici.
Shamashad è una tv molto popolare nelle aree pasthun, in particolare nelle aree dell’est al confine del Pakistan. Una tv che da fastidio e che oggi è stata colpita con la tecnica dell’attacco multiplo: un commando che si fa largo con un’esplosione e poi si barrica all’interno per fare vittime fino all’ultima cartuccia. La firma è quella dell’ISIS ma francamente poco importa perchè le vittime sono sempre le stesse, vittime innocenti. Che sia l’ISIS, i Talebani, il clan Haqqani a colpire ormai resta incontrovertibile il dato che Kabul è il luogo più vulnerabile (e di conseguenza pericoloso) dell’Afghanistan.
“Questo è un attacco alla libertà di stampa ma non possono fermarci” ha detto Abid Ehsas, direttore di Shamshad Tv che è tornata in onda dopo poche ore dall’attacco, la foto diffusa su twitter (da Habib Khan Totakhil) di uno dei conduttori con la mano fasciata in onda a parlare dell’attentato dice molto sulla forza del popolo afghano, prigioniero di una guerra quarantennale.
Il fallimento della “ricostruzione” pagata dai noi contribuenti occidentali e la “missione incompiuta”, una guerra più lunga del secondo conflitto mondiale, si solo lasciati dietro poche cose buone: una di queste è un sistema dell’informazione, forte, libero, vibrante dove centinaia di colleghi ogni giorno ridono in faccia alla morte per fare il loro lavoro.
Le vittime di oggi a Shamshad (che già in passato aveva perso un suo giornalista, ucciso nella zona del passo Kyber) non sono le prime nè saranno le ultime per l’informazione afgana.
Sono vittime dimenticate esattamente come dimenticato è il conflitto in corso, l’oblio sulla “lunga guerra” ha tante cause, di certo impedisce di riflettere sugli errori dell’intervento militare costato all’occidente cifre astronomiche e sui rischi, in genere, di interventi in situazioni complesse e spesso, ai nostri occhi, oscure e indecifrabili. Eppure nel campionato delle notizie, con i tornei di serie A e di serie B, il fatto che la crisi afghana resti tra quelle “dimenticate” fa particolarmente rabbia, fosse solo perché dimostra la nostra disattenzione non solo verso i morti degli “altri”, verso il dolore purché lontano, verso i drammi del mondo ma anche verso quegli italiani mandati a combattere e caduti in Afghanistan.
Tag: attentato
Dimenticare l’Afghanistan
Un camion-cisterna, piena di esplosivo, è riuscito ad arrivare sin nel cuore di Kabul, a Wazir Akbar Khan, il quartiere più “esclusivo” della città dove vivono le famiglie benestanti e gli ultimi occidentali, dove hanno sede ambasciate e uffici di organizzazioni internazionali.
Il semplice fatto che il kamikaze sia riuscito a portare la sua bomba su ruote sin lì è di per sé una misura della capacità del governo di difendere non solo la capitale ma persino il perimetro vicino al palazzo presidenziale, in pratica sé stesso.
Il bilancio è drammatico e provvisorio: almeno 90 morti e 460 feriti. Molti di quest’ultimi passeranno nella lista dei deceduti o dei mutilati a vita.
Non esistono attentati “logici” ma questo è stato talmente “assurdo” e orrendo nella sua missione di fare vittime civili che persino quei taglia-gole dei Talebani hanno preso le distanze. A rivendicare è stato l’ISIS o meglio la locale filiale del sedicente stato islamico, frutto di una scissione nei Talebani afghani (finiti in pezzi dopo l’ufficializzazione della morte del Mullah Omar) e delle offensive pakistane che hanno spinto i Talebani di quel Paese a stabilirsi oltre-frontiera.
Non è il peggior attentato della storia recente del Paese, che in realtà potremmo definire come un paragrafo – quello occidentale e post-occidentale – del quarantennale capitolo di un volume di conflitti che copre diversi secoli.
Questo attentato non sarà nemmeno l’ultimo, è l’unica certezza che abbiamo al momento.
Continua a leggere “Dimenticare l’Afghanistan”
Morti col GPS

Nelle ore in cui una parte dell’informazione italiana (e di quella mondiale) faceva – inconsapevolmente – il gioco della propaganda del califfo, coprendo i fatti di Monaco all’inseguimento di paranoie e panico, non senza presenzialismi di sorta, a Kabul tre kamikaze si muovevano in mezzo ad una folla enorme che protestava pacificamente. Dei tre solo uno riusciva a farsi esplodere, ma il risultato – nell’algebra della morte – era comunque tremendo: ottanta morti e oltre duecento feriti. Un vero mattatoio come racconta questo tremendo video.
Continua a leggere “Morti col GPS”
Quel passaporto siriano a Parigi
Qualche settimana fa, mentre ero in Nord-Europa a seguire le ultime tappe del viaggio dei rifugiati nel vecchio continente, un benestante signore dell’ex-Germania dell’Est mi raccontava di treni carichi di rifugiati stoppati – con il freno d’emergenza – nel mezzo delle campagne per far scendere decine e decine di “soldati” salafiti sottraendoli all’identificazione.
Questa storiella. che circola ampiamente, non ha alcun riscontro nei fatti, è solo un rumor ma ben descrive la paura dell’ “invasione” ovvero dell’utilizzo da parte dell’ISIS e di organizzazioni assimilabili del flusso dei rifugiati come di un canale attraverso il quale far scorrere – indisturbato – un bel numero di miliziani sotto copertura, la quinta colonna.
Terrore
Sarei tentato di chiamarle venti ore di battaglia, in realtà parliamo di venti ore di terrore.
Con l’attacco a Kabul di martedì, il più lungo e il più articolato di questi dieci anni di guerra, i talebani (o piú probabilmente gli uomini di Haqqani, ma cambia poco) sono riusciti a portare ad una nuova frontiera il livello di paura nella quale gli afghani vivono immersi ormai da anni.
Perchè a guardare bene, il bilancio dell’attacco non ha nulla di clamoroso: pochissimi i danni materiali, undici le vittime. Sia ben inteso, anche solo un morto è troppo ma se si guarda agli attacchi a cui l’Afghanistan è abituato, spesso il bilancio degli attacchi (che per giunta ricevono un’attenzione mediatica minima) è ben maggiore.
Eppure i talebani sono riusciti a riconquistare le prime pagine dei giornali di tutto il mondo, dopo mesi di “rinnovata” disattenzione verso l’Afghanistan. Appunto perchè hanno fatto leva sul terrore, su un nuovo livello di terrore, ed hanno dimostrato che per shockare un’intera città, paralizzare il suo quartiere più sorvegliato, tenere una capitale in scacco per quasi un giorno e ridicolizzando le forze di sicurezza locali possono bastare solo una decina di militanti votati al suicidio. Un’equazione vincente nell ‘algebra del terrore.
I fatti sembrano semplici nel loro essere clamorosi. I terroristi arrivano in città, burqa indosso. La polizia non ha agenti donna per perquisire “sospetti di sesso femminile”. E inoltre la rete di sostegno ai ribelli dentro la polizia e l’esercito è ampia.
Prendono posizione in un alto palazzo in costruzione, alto undici piani, come sta accadendo sempre piú in una città ormai malata della febbre del mattone. Salgono agli ultimi piani (vedi le immagini della Bbc) dove probabilmente avevano già nascosto armi e munizioni a volontà (o per loro l’avevano fatto dei fiancheggiatori). Dal lí in alto il campo è aperto, la linea di tiro sgombra, si vede chiaramente la fortificata ambasciata americana e la cittadella murata del quartiere generale Isaf. Comincia la pioggia di fuoco soprattutto con razzi a spalla. In contemporanea partono gli attacchi diversivi, almeno tre kamikaze (forse quattro) sono in azione in città. Uno si fa esplodere presso la sede dell’Anbp, la polizia di frontiera, gli altri sarebbero stati bloccati dalla polizia, uno di certo all’aeroporto. Piovono razzi anche nel resto della città, ma (mi sembra di aver capito) sparati dalle colline vicine alla capitale non da quel palazzo in costruzione.
In cielo si vedono anche gli elicotteri dell’aviazione afghana oltre che quelli Nato ma, come durante l’assalto all’hotel intercontinental del giugno scorso, stanare cinque talebani assediati da forze almeno cinquanta volte superiori in termini numerici sembra impossibile. Ci vogliono ore, ben venti. L’assedio finisce all’alba del giorno dopo
Certo non è facile agire in un contesto del genere. Dover fare i conti con chi si è barricato in alto, al coperto (quindi anche al riparo dagli elicotteri) con la possibilitá di controllare e forse minare l’unica scala d’accesso, è uno degli incubi delle forze di sicurezza. Non a caso lo Swat team di Los Angeles, il primo della storia, venne creato proprio dopo che un cecchino folle si era barricato su una torre dell’orologio. E le forze speciali afghane non sembrano essere state sin’ora addestrate a fare i conti con questi scenari, del resto sin’ora a Kabul i palazzi cosí alti si contavano sulle dita di una mano.
Al di là delle spiegazioni tecniche, è questa una parte importantissima del successo talebano di martedì. Hanno dimostrato agli afghani che il governo non è capace di difenderli cosí come gli occidentali non riescono a difendere le loro “case” super-protette di Kabul, si tratti di ambasciate o del quartier generale dell’Isaf. Hanno dimostrato che cinque “martiri” possono mandare in crisi centinaia di “infedeli” o di “amici degli infedeli”, per usare le parole della loro propaganda. Un messaggio sicuramente più forte e comprensibile dagli afghani di quanto possano esserlo le piccate parole di condanna di Rasmussen, il segretario generale della Nato, o quelle altrettando dure del presidente Karzai.
Il nuovo ambasciatore americano a Kabul ha letteralmente ragione, quando minimizza l’azione talebana (un po’ di razzi sparati da un chilometro di distanza) ma il punto non sono nè i danni, nè le vittime, nè l’effettiva portata dell’attacco. Il punto sta nel fatto che i talebani hanno segnato e vinto la partita, perchè sono riusciti a far percepire la loro forza e a terrorizzare un’intera città. E il fatto che ci siano riusciti solo con un po’ di razzi sparati da un chilometro di distanza peggiora le cose per le forze di sicurezza locali, non le semplifica.
La guerra continua: di mezzo ci sono sempre loro, sempre più vulnerabili, i civili afghani.
Auguri Alessandro

Quando oggi (ieri, vista l’ora in cui pubblico) pomeriggio ho visto la notizia del pacco-bomba alla caserma della Folgore lampeggiare sul mio telefonino, la prima cosa che ho pensato è stata: “Che vigliacchi! Che idioti!” sperando che nessuno si fosse fatto male sul serio. Quando poi ho letto il nome del parà colpito, dopo un interminabile attimo di incredulità, a quel punto all’indignazione è subentrato lo scoramento, come quando a soffrire è qualcuno che conosci di persona.
Ho incontrato Alessandro Albamonte la prima volta in qualche punto del deserto dell’Afghanistan occidentale, l’ho rivisto più volte alla base di Herat e forse anche in una fob. I ricordi ora si accavallano senza precisione; parliamo del 2009, il primo impegno afghano della Folgore come brigata e non solo come singole unità.
Pensarlo ora in un letto d’ospedale a lottare in primo luogo per salvare i suoi occhi, con buona parte delle dita delle mani amputate, ustionato al volto, mi sembra così strano sapendo quali rischi lui e i suoi uomini hanno affrontato in Afghanistan e quelli che avrebbe affrontato a partire dai prossimi giorni, quando la Folgore verrà rischierata nel comando Rc-West. Mi sembra questa una beffa, la beffa più amara, che si aggiunge ad danno grave, gravissimo.
Con le persone che incontri in posti remoti e pericolosi, con le persone con cui ha condiviso esperienze in Afghanistan, si crea sempre un rapporto speciale, siano essi militari, operatori umanitari, altri giornalisti. Magari non li vedi per mesi, per anni ma poi li rincontri ed è come fosse stata ieri l’ultima volta, li consideri amici.
Alessandro è tutto quello a cui non pensi quando ti dicono che è un graduato dei parà, lontano dallo stereotipo della montagna di muscoli dalle pose virili; stereotipo che, tra l’altro, ho verificato essere quasi sempre solo tale, roba del passato. Alessandro era stato nominato capo di stato maggiore della brigata alla fine del 2009, giovanissimo, un ragazzo dall’umanità straordinaria, pratico, lontano dai riti e dai formalismi del grado, preparato come conferma la nomina ad un ruolo così importante nonostante, appunto, la giovane età, soli 41 anni.
Non è chiaro se la busta fosse indirizzata a lui o fosse finita genericamente nelle sue mani perchè indirizzata al suo ufficio ma questi ormai mi sembrano solo dettagli. A lui vanno i miei migliori auguri di pronta guarigione, soprattutto di guarigione viste le ferite gravi che ha riportato. Mi scuso con i lettori se ho scritto un post tanto personale, per una volta lascio da parte valutazioni politiche, tecniche, militari su quello che succede o ruota intorno all’Afghanistan come faccio di solito. Ma è quello che oggi sentivo di fare, un post personale appunto, che vorrei sia letto come tale qualunque opinione abbiate sulla guerra in Afghanistan, sui militari che la combattono e sui militari in generale. Un tema, quest’ultimo, che purtroppo continua a far discutere il nostro Paese come ad un’assemblea del liceo di trent’anni fa.
Mi resta solo una domanda: per quanto si possa essere contro la guerra in Afghanistan (pare che nella busta ci fosse un rivendicazione contro tutte le guerre) che senso ha mandare un pacco bomba, che oltre ad un gesto vigliacco è anche un atto indiscriminato che non cambia nulla? Che non porta la pace anzi porta altro dolore e sofferenza su questa terra? Francamente non lo so. E penso che nessuno riuscirà mai a spiegarlo.
Fare Scuola

Mentre, lunedì, a Bala Morghab il convoglio italiano finiva sotto attacco, più a sud nella provincia di Herat, quasi in contemporanea, il Prt italiano posava la prima pietra di una scuola. Verrà intitolata al sergente maggiore Massimiliano Ramadù e al caporal maggiore scelto Luigi Pascazio, i genieri della brigata alpina Taurinense uccisi proprio in quell’attacco. La notizia è arrivata dal comando italiano, poco dopo la fine dei funerali dei due caduti. Gli americani di solito intitolano ai caduti le loro basi (Fob Tillman, Camp Blessing…), gli italiani hanno scelto una scuola – mi sembra una differenza non da poco, al di là della retorica della missione di pace a cui ormai non crede più nessuno. Un gesto che, tra l’altro, forse contribuirà anche a dare un po’ di sollievo a famiglie dei due alpini, il cui dolore sarà comunque incancellabile.
Mi ha fatto piacere leggere quel comunicato – subito dopo, però, ho provato a guardare al 2020 o forse solo al 2015. Mi sono chiesto che cosa sarà di quella scuola tra dieci anni? Qualcuno in Afghanistan proverà a leggere quei due cognomi stranieri pensando a quello che hanno contribuito a fare per il loro paese o il tempo, la guerra, il caos avranno intanto cancellato tutto? Insomma mi chiedo quanto durerà la guerra e cosa resterà di quello che gli occidentali stanno facendo, nel bene e nel male, in Afghanistan. Sarà il dolore per queste due nuove vittime italiane, per gli altri occidentali che continuano a morire in giro per il paese, per le tante vittime afghane che “non fanno notizia” ma ogni giorno è sempre più difficile credere che il 2013 sia un obiettivo realistico per la fine della guerra.
AI-I-D
Le Improvise Explosive Device (IED leggasi AI-I-D) sono tutto e niente. Tutto perchè rappresentano in primo luogo la maggior causa di morte per i militari stranieri in Afghanistan. Niente perchè in realtà sono indefinibili visto che sotto questo ombrello terminologico trova ospitalità una famiglia di ordigni che vanno dai vecchi proiettili di artiglieria riciclati alle bombe al nitrato d’ammonio, fertilizzante ad alto potenziale (lo stesso della strage dei parà di Kabul) di cui di recente è stata vietata la vendita in Afghanistan. Per questo sono un simbolo perfetto del “nemico” in Afghanistan, inafferrabile quanto indefinibile.
Gli attacchi con IED sono stati 8,159 nel 2009, oltre il triplo del 2,677 registrate nel 2007.
Il più bel racconto per immagini di cosa sia un’IED lo si deve a David Goldman, freelance per l’Associated Press, qualche mese fa embed in Afghanistan con l’esercito americano nella provincia di Wardak. Ha scattato una sequenza di fotografie incredibili, era al momento giusto nel posto giusto, anche nella posizione giusta del convoglio per non essere fatto a pezzi dall’esplosione e ha avuto la freddezza di fornirci questo documento eccezionale, da vedere in slide show cliccando qui.
I vetri rotti di Kabul

Probabilmente erano già in un covo sicuro all’interno di Kabul mentre a Marjha veniva (non per la prima volta in due settimane di operazioni) issata la bandiera afghana a voler sancire la presa della cittadina, dove comunque continuano ad esserci combattimenti sporadici, dove ci saranno da bonificare centinaia e centinaia di ordigni nascosti nella lunga vigilia dell’operazione e dove, soprattutto, ora c’è da combattere la vera battaglia quella cioè per conquistare il supporto ed il consenso della popolazione locale, di etnia pasthù come il grosso della guerriglia che di questa città aveva fatto il suo “santuario”.
Il commando di terroristi e auto-proclamati martiri è entrato in azione di venerdì mattina (la domenica islamica e anche afghana) nel quartiere di Shar-e-Now; il quartiere “nuovo”, l’area più dinamica di Kabul che – tra negozi, uffici e alberghi vari – trova pace dal traffico solo in quel giorno della settimana. All’alba ha colpito il Kabul Shopping Center (un’edificio al cui interno trova posto anche il Safi Hotel, un’albergo di buon livello e che offre un buon rapporto qualità prezzo per gli occidentali) e poi, in una sequenza non chiara (video), due guest house sulla stessa strada. La tecnica seguita, quella ormai consolidata: un’esplosione (almeno una, questa volta di un’auto bomba seguita pare da due esplosioni di portata inferiore) e l’attacco di un commando di uomini armati contro il Safi (in maniera limitata, anche perchè l’edificio è un labirinto) e soprattutto verso l’Hamid Hotel e il Park Residence. Una battaglia urbana andata avanti per qualche ora con un bilancio di 18 vittime, tra cui (ed è un dato alto e senza precedenti) 11 stranieri. Tra loro, l’italiano Piero Colazzo, uomo della nostra intelligence che era al telefono con le autorità locali quando è stato ucciso (il generale Rahman, capo della polizia di Kabul, l’ha definito un uomo coraggioso e ha detto che con il suo aiuto sono stati salvati altri quattro italiani – per la cronaca il generale e il suo vice si sono dimessi oggi per non essere riusciti a prevenire l’ennesimo attacco alla capitale). Tra le vittime, anche un giornalista e documentarista francese Severin Blanchet, da tempo impegnato a Kabul per insegnare agli afghani l’arte del reportage.
Per quanto lo stesso presidente Karzai l’abbia definito un attacco contro gli indiani (a Kabul c’è un ospedale pediatrico gestito da personale indiano, parte del quale fa base in una di quelle guest house) e indiana sia la maggioranza delle vittime, non sono certo che si questa la natura dell’attacco. La guerriglia ha capito e sa bene che attacchi del genere (per quanto richiedano un agguerrito e militarmente ben preparato commando suicida) sono relativamente facili da condurre ed hanno una visibilità mediatica ben maggiore di quanto offra, per esempio, resistere giorni a Marjah. Da novembre è ormai cominciato una sorta di tour dell’orrore nei luoghi frequentati dagli occidentali o comunque contro i segni di modernità “occidentale” dentro la capitale: prima l’attacco alla guest house dell’Onu, poi il 28 gennaio contro lo shopping center vicino al Serena Hotel e verso il palazzo presidenziale, venerdì contro il Kabul City Center e dintorni(unico posto a Kabul dove ci sono scale mobili, per la cronaca).
Adesso se la prossima fermata dell’offensiva nel sud sarà Kandahar, non resta che chiedersi quando ci sarà il prossimo attentato del genere alla capitale. Tra le testimonianze sul dopo esplosione mi ha colpito quella di questo collega della Bbc che si lamentava di come i palazzi del centro di Kabul abbiano tanti vetri. La strada venerdì era coperta dal fango, come accade per buona parte della stagione invernale, ma anche da migliaia e migliaia di schegge di vetro (la “specchiata” facciata del Safi è stata “denudata”). La voglia di modernità a Kabul ha spinto i palazzinari di turno ad inventarsi un sistema per ricoprire con pannelli di vetro palazzi “normali” (magari “palazzoni”) per farli assomigliare a grattacieli “come visti in tv”. Una deriva che mi ha fatto sempre pensare al consumo di energia degli edifici, al necessario di condizionamento, alla negazione di ogni regola costruttiva accumulata in secoli di storia da queste parti. Alla sicurezza non ci avevo mai pensato, quella – tristemente – la davo già per persa.
Nuova escalation a Kabul
Se con l’attentato del 15 agosto contro l’Isaf, i talebani hanno dimostrato di poter colpire anche sin davanti la porta di casa della missione militare internazionale in Afghanistan, se con quello del 17 settembre, che ha visto morire sei militiari italiani, hanno dimostrato di poter portare un’inedità quantità di esplosivo nello stesso super-sorvegliato quartiere della città; gli attacchi di oggi segnano una nuova escalation nell’offensiva talebana sulla capitale, ma questa volta significativa non tanto per la loro capacità militare (ormai appurata) quanto per la natura dei bersagli.
A venir colpiti sono stati due obiettivi “civili” , il messaggio chiaro è che non ci sono più zone franche a Kabul e che (come annunciato dai talebani nel loro proclama anti-elettorale) sono un obiettivo tutti coloro che collaborano alle elezioni, in primis quindi gli occidentali che – per motivi di competenze – hanno un ruolo centrale nel processo. Non esistono più zone franche se si considera che la guest house (una sorta di bed&breakfast – nella capitale ce ne sono tantissimi) per il personale Onu attaccata oggi è in una zona notoriamanete controllata dai signori della guerra, dalla mafia dei nuovi ricchi che dopo il 2001 ha preso quell’area con la forza per poi costruirci sopra case in stile pakistano da affittare a cifre astronomiche. Una zona, il distretto di Sherpur, nella quale non c’erano di fatto mai stati attacchi e che è piena di guest house, di case di diplomatici e di uffici di media internazionali.
Al riguardo vedi per esemio questo video dell’attacco, girato da una delle case vicine dall’operatore Craig Johnston. Precisamente Craig l’ha girato da una delle postazioni live usate da molte tv internazionali per le dirette (Tg3 incluso), qualcuno rinoscerà lo sfondo che, per esempio, mi ha “accompagnato” durante le elezioni che i giorni della strage del 17 settembre.
Il Serena Hotel, l’altro obiettivo colpito, è una sorta di consiglio di sicurezza onu in sede periferica; battute a parte, si tratta di un albergo di lusso dove trovano posto tantissimi diplomatici, esperti di ricostruzione, consulenti, giornalisti e umanità varia. Quindi, di nuovo, quasi in contemporanea colpito un altro “legame” tra occidentali e processo elettorale afghano. C’è da notare che il Serena viene colpito con razzi (pur insolitamente precisi, a riprova che i talebani hanno più tempo per lanciarli sono quindi più sicuri sul campo) non con un attacco “di terra” come avvenuto invece nell’inverno 2008.