Tag: analisi

Quel passaporto siriano a Parigi

Quel passaporto siriano a Parigi

Qualche settimana fa, mentre ero in Nord-Europa a seguire le ultime tappe del viaggio dei rifugiati nel vecchio continente, un benestante signore dell’ex-Germania dell’Est mi raccontava di treni carichi di rifugiati stoppati – con il freno d’emergenza – nel mezzo delle campagne per far scendere decine e decine di “soldati” salafiti sottraendoli all’identificazione.
Questa storiella. che circola ampiamente, non ha alcun riscontro nei fatti, è solo un rumor ma ben descrive la paura dell’ “invasione” ovvero dell’utilizzo da parte dell’ISIS e di organizzazioni assimilabili del flusso dei rifugiati come di un canale attraverso il quale far scorrere – indisturbato – un bel numero di miliziani sotto copertura, la quinta colonna.

Continua a leggere “Quel passaporto siriano a Parigi”

Ultima fermata, Gulistan

Mentre i vivi litigano, e se ne discute non senza ipocrisie, c’è voluta la sincerità delle parole lasciateci da un giovane caduto alpino per mostrare a chi si ostina a guardare il dito, tutto quello che c’è intorno. C’ho messo qualche giorno per scrivere questo post, perchè di solito evito di fare commenti “geopolitici” nei giorni destinati al lutto come purtroppo è stato l’ultimo del 2010. Nei giorni successivi poi, ho visto aprirsi una fisarmonica di eventi e dichiarazioni sulle quali mi sembrava il caso di riflettere.

Matteo Miotto ha scritto nel suo testamente di voler essere sepolto nella parte del cimitero di Thiene dedicata ai caduti di guerra. Sembra una decisione privata, per me sono parole di verità nella vicenda afghana. Al di là della facile retorica, dovrebbe spingere molti a spostare lo sguardo dal dito, a guardare a cosa quel dito stia puntando.
Matteo è morto in guerra, da professionista sapeva che c’era questa eventualità e l’ha scritto nel suo testamento. Non voglio riapre il discorso sulla natura della missione italiana, finiremmo con il parlare della Costituzione e perderci la sostanza ovvero che in Afghanistan si combatte una guerra e la politica (tutta) non si assume la responsabilità di dirlo al Paese. Di dire agli italiani che quella è una guerra, magari giusta (come ritiene il Premio Nobel per la Pace, il presidente Obama e – più implicitamente – tantissimi governi di mezzo mondo) ma null’altro che una guerra.

Quanto sia importante questa verità l’abbiamo capito nei giorni successivi alla morte di Matteo, in una vicenda dove quella decisione di un giovane alpino diventava sempre più altamente simbolica, proprio ora e mai come ora.
Il ministro La Russa arrivato ad Herat la sera del 5 gennaio, racconta che Miotto non è morto come inizialmente detto (colpito da un cecchino) ma colpito durante un attacco “multiplo” alla sua base. Due scenari ben diversi. La Russa polemizza con i militari che l’hanno informato tardi, parla del “riflesso di un vecchio metodo, di cercare di indorare la pillola della realtà dei fatti, di dire la verità ma nel modo più indolore possibile” – ovvero riapre la polemica con il metodo del governo Prodi (che poi proprio sull’Afghanistan scivolò la prima volta). Oggi sul Corriere della Sera, la smentita del Capo di Stato Maggiore, il generale Camporini apre uno scontro senza precedenti tra i vertici civili e quelli militari delle forze armate. Il ministro La Russa deve convocare in mattinata una conferenza stampa per ricucire lo strappo con le stellette.
Qualcuno mi sembra provi a leggere lo scontro secondo le categorie dell’italico “politichese”. Qualunque cosa sia successa l’ultimo giorno dell’anno nel Gulistan (e molti dubbi continuano ad esserci), queste onde “telluriche” altro non sono che frutto del peso dell’Afghanistan; qualunque entità metta le mani in quel Paese – lo dice la storia – si ritrova profondamente destabilizzata, solo negli ultimi tempi penso alle dimissioni del governo olandese o a quelle del presidente tedesco. Ora sbattono le porte di Palazzo Baracchini, la sede del Ministero alla Difesa, a Roma.

L’altra cosa a cui punta il dito, lo stesso dito dal quale gli occhi non riescono a staccarsi, è un distretto della provincia di Farah. Si chiama Gulistan, il posto dei fiori in lingua dharì, sempre più – drammaticamente – fiori di lutto per gli italiani. Dal primo settembre i nostri militari sono arrivati per estendere la presenza del governo di Kabul, tradotto per tagliare le retrovie dei talebani che nella confinante provincia di Helmand, la loro roccaforte, sono sempre più messi alle strette dalle massicce operazioni anglo-americane, ma hanno bisogno della strada della droga e della strada della ritirata verso il nord. Fino ad agosto l’op-box Tripoli ovvero una parte della provincia di Farah, Gulistan compreso, era in mano agli americani più del doppio dei 350 italiani che hanno preso il loro posto, asserragliati in tre fortini, chiaramente pochi per il compito loro assegnato e per dedicarsi ad un territorio così vasto.
Dal primo settembre i sei caduti riportati dagli italiani sono morti qui, cinque in Gulistan, uno nel confinante distretto di Bakwah. C’è bisogno di dire altro per capire che inferno sia quella zona in passato terreno solo delle forze speciali per brevi raid? Un terreno tutto da “riconquistare” dove solo poche settimane fa sono arrivati i primi militari afghani (anche per questo gli italiani finiscono con l’essere pochi). In confronto l’estensione della “bolla di sicurezza” di Bala Morghab corre il rischio di sembrare una passeggiata.
E siamo ancora in inverno, da marzo in poi la situazione – è facile prevederlo – si farà sempre più difficile, all’epoca in campo sarà schierata la prima aliquota di parà della Folgore che quest’anno copriranno il turno estivo (da aprile) della missione italiana.

Penso alla visita del generale Petraeus e del generale Camporini, il giorno di Natale, proprio a Bakwah. Rileggo i comunicati, quello in italiano dove spicca questa frase “Bakwah è una delle aree dove maggiormente si concentrano gli sforzi degli italiani nell’implementare la sicurezza, di concerto con i militari afghani. Sicurezza che i cittadini percepiscono di giorno in giorno e che va di pari passo con la fiducia nel lavoro delle forze di coalizione.” Quello destinato ai media internazionali (scritto in inglese), dove all’incirca nello stesso punto compare invece questa frase: “Bakwa is one of the more volatile areas in RC-West, and the Soldiers based there often engage insurgents in kinetic activities.” Ovvero “Bakwa è una delle aree più instabili dell’RC-West, i soldati di stanza qui spesso combattono con i ribelli”. Li rileggo e penso a quanto siano pesanti le parole di verità scritte da un giovane alpino morto a migliaia di chilometri da casa, scritte da chi pensa a dire le cose come stanno non all’effetto che le sue parole potranno produrre.

Purtroppo penso anche a cosa saranno i prossimi mesi nell’infero del Gulistan.

Sollievo Lisbona

Un mio amico afghano mi ha fatto notare che TA’ON in dharì significa sconfitta, una parola che suona quasi come Nato/Otan pronunciata all’afghana. Eppure al summit di Lisbona, della sconfitta (sia come opzione del conflitto sia come situazione attuale sul campo) non si è parlato.
Anche la lettura dei giornali di oggi, mi ha confermato l’impressione che mi avevano fatto ieri i lavori del summit. Lisbona è stata usata dai Paesi membri e partecipanti come una specie di pillola anti-depressiva, un modo per darsi un po’ di sollievo rispetto a quello che è ormai il rompicapo afghano e offrire una prospettiva all’opinione pubblica nazionale.

Prima di tutto, nessuno (media inclusi) hanno sottolineato come a Lisbona la guerra sia stata prorogata di altri quattro anni, ovvero che si è passati dall’impegno di Obama di un anno fa di iniziare il ritiro nel 2011 alla data del 2014. E’ anzi “passata” la notiza che il 2014 è la data del ritiro, un sollievo per molti Paesi europei che vivono ormai con sempre più imbarazzo le difficoltà della missione afghana e non ammettono pubblicamente la sua evoluzione da missione di peace-keeping a missione bellica. Ma è bastato fissare la data del 2014 per far contenti tutti, perchè così i governi coinvolti potranno chiedere ai propri elettori di resistere un tempo prefissato in vista della fine della missione e magari sentirsi liberi da impegni verso l’alleato americano. Sia chiaro, non è cosa da poco che si sia deciso un calendario (2011-2014) per passare le consegne ad esercito e polizia afghani della sicurezza nelle province afghane, da quelle più stabili (per esempio la nostra Herat) a quelle più turbolente favorendo così il disimpegno delle truppe occidentali. Purtroppo però il ragionamento fatto a Lisbona è totalmente unilaterale e teorico, si dà per scontato che la situazione del conflitto in questi anni migliorerà, si dà per scontato che le trattative di pace produrranno risultati, si dà per scontato che le forze di sicurezza afghane, in condizioni discusse e discutibili, siano pronte effettivamente ad assumersi quelle responsabilità quando verranno chiamate a farlo. Tutte variabili non in totale controllo della coalizione Isaf e sulle quali, tra l’altro, c’è solo un apparente accordo visto che, per esempio, gli stessi Stati Uniti si sono rifiutati di dire che il loro “combat role” finirà nel 2014.

Senza dimenticare che anche se nel 2014 le operazioni di combattimento dovessero finire, l’assistenza militare straniera agli afghani e quindi la presenza militare straniera in Afghanistan non finirà in un attimo.

Inoltre il passaggio di consegne non necessariamente significherà una riduzione della pressione sui contingenti stranieri interessati. Facciamo il caso degli italiani che lasceranno agli afghani Herat, questo probabilmente significherà un maggior impegno in aree più calde come Farah e Bala Morghab. E’ già successo quando abbiamo lasciato agli afghani la sicurezza (tra virgolette) di Kabul per ritrovarci poi maggiormente impegnati nell’area ovest con un escalation non da poco.
Inoltre l’Italia è l’unico Paese (escludo riferimenti a Tonga e altri contributori minori di truppe) che continua ad aumentare il proprio contingente (i canadesi – complimentati come i nostri da Obama – stanno facendo i bagagli), come stabilito giorni fa dai vertici militari arriveranno altri 200 istruttori che sono in pratica il 5% in più rispetto ai 4000 uomini già schierati (o meglio rispetto ai quali abbiamo già preso un impegno).

A proposito, altra notizia passata sotto la copertura radar, i russi tornano in Afghanistan tra apertura delle rotte logistiche, invio di istruttori militari, fornitura di elicotteri, anti-droga. Vent’anni dopo la ritirata attraverso l’Amu Darya, corsi e ricorsi storici.